CAPITOLO TRENTANOVE
— Non hai ambientato un paio di tue opere in una foresta proprio come questa? — chiese Saint-Germain, in tono allegro.
— Solo le commedie — rispose William Shakespeare, in un sussurro roco. — E le mie foreste erano popolate di creature più gentili. Questo è un luogo malvagio.
Palamede si fermò all’improvviso e sia Francis sia William gli andarono a sbattere contro. — Volete stare zitti? — bisbigliò. — Sembrate una mandria di elefanti. E fidatevi di me, ci sono certe cose in questa foresta che nemmeno io ho voglia di svegliare.
— Non fa differenza — mormorò Saint-Germain. — Sono sicuro che sanno che siamo qui. Lo hanno saputo nell’istante stesso in cui siamo scesi dalla macchina.
— Oh, sì che lo sanno. — Shakespeare annuì. — Ci seguono.
Gli altri due immortali si voltarono a guardarlo. Anche se nella foresta era buio pesto, i sensi amplificati permettevano loro di vedere tutto con un’accuratezza sorprendente, sebbene senza colori. Palamede guardò Saint-Germain, che scosse la testa; nessuno dei due si era accorto di essere seguito.
Shakespeare si aggiustò gli occhiali sul naso e sorrise, coprendosi subito i denti con la mano. — In questo momento siamo osservati da uno spirito della foresta, una femmina bassa, graziosa e dalla pelle scura, con indosso un vestito che presumo sia verde Lincoln.
— Impressionante — commentò Palamede. — Come fai a…? — cominciò, ma si interruppe. — È dietro di noi, vero? — domandò in latino.
Il Bardo annuì.
— E non è da sola, giusto? — continuò l’altro nella stessa lingua, senza distogliere lo sguardo dall’amico.
— Esatto — confermò il Bardo.
Saint-Germain si voltò lentamente per guardare oltre la spalla di Palamede.
— Scommetto che sono armate di archi — aggiunse il Cavaliere saraceno.
— Archi e lance — corresse Saint-Germain.
Palamede si voltò ad affrontare il comitato di accoglienza. Gli ci volle un po’ per individuare le donne sparpagliate tra gli alberi; per quanto gli era dato di vedere, dovevano essere una dozzina. Erano basse e snelle, con le braccia e le gambe allungate, gli occhi grandi e obliqui, le bocche come sottili linee orizzontali sul viso. Capì che si trattava di driadi, spiriti della foresta.
Una, un po’ più alta delle compagne, fece un passo avanti. Impugnava un arco corto e curvo, con una freccia nera già in cocca. — Identificatevi! — La sua voce suonò come un fruscio di foglie.
Palamede le rivolse un inchino. — Che tu sia benedetta! — esclamò, usando il saluto tradizionale. — Non vi avevo mai viste qui.
— Siamo nuove.
Il Cavaliere drizzò la schiena. — E con un incantevole accento. Naxos… no, Karpathos. Cosa ci fanno delle driadi greche in una foresta inglese?
— Ci ha chiamate lui.
Qualcosa si mosse alle spalle della driade. Una figura alta e incredibilmente sottile fece la sua comparsa. Il volto era quello di una donna bellissima, ma il corpo sembrava ricavato dal tronco di un albero. Braccia che terminavano in dita simili a ramoscelli giungevano fino a terra, e radici nodose prendevano il posto dei piedi.
Palamede si voltò, con la scusa di presentare la nuova arrivata. — Non guardatela negli occhi — suggerì ai compagni. — Signori, sono onorato di presentarvi Ptelea. — Si voltò di nuovo verso la creatura e fece un profondo inchino. — È sempre un piacere incontrarvi — disse, parlando la lingua della sua giovinezza.
— Cavaliere. — Ptelea si portò al suo fianco.
Palamede tenne la testa china, evitando ogni contatto visivo. Se l’avesse guardata negli occhi, sarebbe subito caduto sotto il suo incantesimo. Ptelea era un’amadriade. Il Cavaliere non sapeva se fosse lo spirito di un olmo oppure un albero vero e proprio che aveva preso vita, e per quanto lei si fosse sempre dimostrata cortese e gentile nei suoi confronti, era ben consapevole di quanto le amadriadi fossero micidiali.
— Sono venuto a incontrare il mio padrone — disse Palamede.
— L’Uomo Verde ti sta aspettando — replicò Ptelea. Sollevò la testa per guardare Shakespeare e Saint-Germain, e i due uomini si affrettarono a inchinarsi. — Sa che stai portando degli ospiti?
Il Cavaliere annuì. — Gli ho detto che sarei venuto a presentare una supplica.
L’amadriade si voltò e iniziò a camminare.
Il Cavaliere la seguì, attento a non inciampare sul mantello di foglie d’olmo. — Le driadi sono nuove — osservò in tono leggero. — Non le avevo mai viste qui.
— Egli ha chiamato a raccolta gli spiriti della foresta e degli alberi di tutto questo Regno d’Ombra — disse Ptelea, conducendoli nel folto della foresta di Sherwood. — Si stanno radunando da mesi.
Palamede annuì. — In effetti era da un po’ che non avevo notizie del mio padrone, e mi chiedevo il perché. Avevo sentito dire che trascorreva molto tempo nei Regni d’Ombra.
Quando oltrepassarono un’antica quercia, Ptelea si inchinò con rispetto, e per un attimo un bellissimo volto femminile comparve nel legno, per ritirarsi subito dopo. Solo due grandi occhi dorati rimasero incastonati nel tronco, fissi sugli immortali.
Shakespeare e Saint-Germain si scambiarono un’occhiata, ma senza parlare. Gli ci volle un enorme sforzo di volontà per resistere alla tentazione di ricambiare quello sguardo.
— Una sorella? — domandò Palamede.
— Balanos — rispose Ptelea.
Il Cavaliere annuì. Sapeva che Balanos era l’amadriade della quercia, ma non l’aveva mai vista prima nella foresta di Sherwood.
— Ci sono tutti gli spiriti della foresta? — chiese Shakespeare. — Driadi, amadriadi, ninfe dei boschi…? Mi piacerebbe molto vederli.
— Ci sono tutti — sussurrò Ptelea.
— Perché? — chiese Palamede. A quanto gli risultava, gli spiriti delle foresta erano creature solitarie, che abitavano nei boschi più isolati del mondo.
Quando Ptelea parlò, il Cavaliere riconobbe un filo di eccitazione nella sua voce. — Negli ultimi cinque secoli, l’Uomo Verde si è dedicato alla ricostruzione del suo Regno d’Ombra preferito, il Bosco di Eridhu. Presto sarà pronto, ed egli ci porterà via da questo luogo immondo e avvelenato, restituendoci a un mondo di alberi.
Il Cavaliere lanciò uno sguardo interrogativo al Bardo.
— E che ne sarà di questo mondo, senza l’Uomo Verde? — chiese Shakespeare.
L’amadriade liquidò la domanda con un gesto delle lunghe braccia. — La cosa non ci riguarda. — Poi voltò la testa a trecentosessanta gradi, facendo cigolare il legno del collo, e i tre gli immortali distolsero lo sguardo dal suo viso. — Ho sentito dire che questo Regno d’Ombra tornerà presto sotto il dominio degli Antichi Signori suoi padroni. Non vogliamo essere qui quando succederà.
— Dove lo avete sentito, milady? — chiese Palamede.
— Sono stato io a dirglielo. — La voce che parlò era maschile: lenta e profonda, vibrò nel terreno e nell’aria, facendo tremare tutte le foglie.
Ptelea si avvolse nel suo mantello di foglie e si fece da parte. Si addossò a un olmo e vi affondò dentro. Per un attimo il suo splendido volto si attardò sulla corteccia dell’albero; ma poi chiuse gli occhi e svanì.
L’amadriade aveva condotto i tre immortali in una radura nel cuore stesso della foresta. Gli alberi erano corrosi e ritorti dal tempo. Querce e castagni, olmi e frassini, biancospini e meli si affollavano insieme, tutti avvolti dall’edera. Cespugli di agrifoglio carichi di bacche rosse fuori stagione crescevano copiosi ai piedi degli alberi, e le perle bianche del vischio macchiettavano i rami. Su una montagnola di terra al centro della radura si ergeva una rozza colonna di pietra bianca, ogni centimetro della quale era ricoperto da un intricato disegno di spirali e volute intrecciate.
— Questo mondo sta giungendo al termine. — Per un attimo sembrò che la voce provenisse dalla pietra. — E non voglio che le mie creature siano qui quando succederà.
— Potreste rimanere a combattere — osservò Palamede, entrando nel cerchio di alberi e avvicinandosi alla colonna. — Lo avete già fatto.
— E abbiamo perso — replicò la voce tonante.
La figura che spuntò da dietro la colonna era alta e snella, vestita in una lunga tunica bianca col cappuccio ricamata di foglie d’argento. Un’elaborata maschera d’argento gli copriva il volto e la testa. Ritraeva il viso di un giovane che faceva capolino nel folto di un cespuglio. Il fogliame rigoglioso si spandeva oltre il bordo della maschera, tanto che la testa della figura sembrava enorme. Ogni singola foglia era curata fino al minimo dettaglio, venature incluse.
Palamede avanzò e fece un inchino profondo, inginocchiandosi al cospetto della figura. — Tammuz, mio signore.
La mano che comparve da sotto la lunga manica per posarsi sulla spalla destra del Cavaliere era racchiusa in guanto d’argento ornato da un ricamo di bacche, foglie e tralci intricati. — La tua richiesta è stata inaspettata e sgradita — tuonò la creatura.
Il Cavaliere saraceno si rialzò con eleganza. Era alto quasi quanto il suo padrone, e poteva vedersi riflesso all’infinito nell’argento lucido. Vivaci occhi verdi screziati di marrone lo scrutavano dalle fessure della maschera; le pupille erano dei semplici ovali appiattiti. Non per la prima volta, Palamede si chiese quale fosse il vero aspetto dell’Uomo Verde.
— Che cosa vuoi? — chiese Tammuz, facendo tremare le foglie intorno.
— Un favore — rispose il Cavaliere, andando dritto al sodo. Aveva provato quella conversazione milioni di volte lungo il tragitto, ma non sapeva come il padrone avrebbe reagito. Nel secoli che aveva trascorso al suo servizio, era giunto alla conclusione che Tammuz apparteneva a una categoria pericolosissima: quella delle creature arroganti e imprevedibili.
— Non è nella mia natura concedere favori. — Tammuz si allontanò dalla colonna scolpita e scrutò la radura, fino all’albero che aveva inghiottito l’amadriade, dove si trovavano i due immortali. — E hai portato anche il Bardo. — Si piegò un po’ in avanti e aggiunse: — Non mi è mai piaciuto.
William Shakespeare avanzò verso l’Antico Signore ed eseguì un inchino elaborato. — Si odia ciò che si teme! — esclamò, sarcastico. Lanciò un’occhiata al Cavaliere: — Non è vero?
— Allora non irritare il mio potente padrone — bisbigliò Palamede.
— Non provocare la mia rabbia — tuonò l’Antico Signore.
Tammuz si voltò a guardare il terzo immortale, e un silenzio profondo calò nella radura. Quando parlò di nuovo, la sua voce era lieve, quasi gentile, come il vento che sibila tra le foglie autunnali. — E così ci incontriamo di nuovo, Saint-Germain.
L’immortale uscì dall’ombra e fece un leggero inchino. — Tammuz.
— Ah, finalmente. Erano secoli che aspettavo questo momento; sapevo che le nostre strade si sarebbero incrociate di nuovo. Ho scoperto che questo mondo è davvero molto piccolo. — La voce dell’Antico Signore si fece più profonda, riverberandosi intorno e facendo cadere le foglie dai rami. — Il conte di Saint-Germain. Il bugiardo. Il ladro. L’assassino!
Dozzine di driadi comparvero all’improvviso ai margini della radura, armate di archi e lance. Sui tronchi si materializzarono dei volti, e poi, a una a una, le amadriadi si staccarono dal cerchio di alberi.
Tammuz sollevò una mano guantata d’argento e indicò il Conte. — Uccidetelo! — gridò. — Uccidetelo subito!