CAPITOLO DODICI
I tre uomini con la testa rasata circondarono Dee.
— C’è una taglia sulla tua testa — annunciò il tizio con il cranio tatuato. Anche se il Mago non era alto, quell’uomo era almeno due o tre centimetri più basso di lui, ma era grosso e muscoloso. Mosse le labbra, cercando di imitare il sorriso degli homines, ma si limitò a piegare la bocca in un ghigno selvaggio, rivelando i denti corti, aguzzi e ingialliti. — Una grossa taglia.
— Da vivo — aggiunse quello che aveva preso posizione alla destra di Dee.
— Anche se non necessariamente illeso — concluse il terzo, a sinistra. Quest’ultimo era il più massiccio, con una maglietta mimetica che si tendeva su un petto assurdamente muscoloso.
— Buffo come gira il mondo — riprese il capo. Il suo accento era una curiosa mescolanza tra quelli del nord di Londra e dell’Europa orientale. — Ieri lavoravamo per te, a caccia dell’Alchimista. Oggi sei tu la preda. — Si strofinò energicamente le mani. — E per il doppio dei soldi. Ho il sospetto che ci sottopagassi per Flamel e i ragazzi. Sei sempre stato tirchio, dottor Dee.
— Preferisco il termine “frugale” — replicò il Mago, cercando di ostentare calma.
— “Frugale”… che bella parola. Scommetto che significa “tirchio”
— Tirchio — ripeté uno dei compagni.
— Spilorcio — aggiunse il più grosso.
— Le persone “frugali” non si guadagnano la fedeltà. Forse, se tu ci avessi pagato un po’ di più, adesso avremmo fatto finta di non vederti.
— L’avreste fatto? — chiese Dee. — Davvero?
— Probabilmente no. Siamo cacciatori. E di solito catturiamo le nostre prede.
Le labbra sottili del Mago si piegarono in un sorriso cattivo. — Però non siete riusciti a catturare Flamel e i ragazzi, ieri.
Il tizio con il cranio tatuato scrollò le spalle, imbarazzato. — Be’, sì ma…
— Avete fallito — lo incalzò Dee.
L’altro si avvicinò ancora un poco, abbassando la voce e lanciando due rapide occhiate a destra e a sinistra. — Abbiamo seguito le loro tracce fino a St. Marylebone Church. Poi sono spuntate fuori le Dearg Due — rivelò, con un’ombra di orrore nella voce.
Dee annuì, attento a mantenere il volto impassibile. Il tanfo che si levava da quelle creature era nauseante: un miscuglio di carne putrida, vestiti sporchi e corpi non lavati. I cucubuth erano cacciatori, figli di un vampiro e di un Torc Madra, più bestie che uomini, e Dee scommetteva che almeno uno dei tre figuri che lo circondavano aveva una coda infilata nei pantaloni. Ma perfino quei mercenari selvaggi erano terrorizzati dalle Dearg Due, le Succhiasangue. — Quante erano? — chiese.
— Due — bisbigliò il capo dei cucubuth. — Femmine.
Dee annuì di nuovo. Le femmine erano più micidiali dei maschi. — Ma neanche loro hanno catturato Flamel e i gemelli.
— No. — La creatura sorrise di nuovo, mostrando l’orrenda dentatura. — Erano troppo occupate a inseguire noi. Le abbiamo seminate al Regent’s Park. È stato un inseguimento un po’ imbarazzante, in effetti: erano vestite da scolarette. Ma la tua cattura rimedierà in abbondanza anche all’imbarazzo.
— Non mi avete ancora catturato — mormorò Dee.
Il cucubuth fece un passo indietro e spalancò le braccia. — Cosa hai intenzione di fare, dottore? Non oserai usare i tuoi poteri. Con la tua aura ti tireresti contro qualunque cosa presente a Londra. E se decidi di usarla e riesci a fuggire, la puzza di zolfo ti rimarrà addosso per ore. Ti rintracceranno facilmente.
Il cucubuth aveva ragione, Dee lo sapeva. Se avesse usato la sua aura, ogni Antico e Oscuro Signore e ogni umano immortale di Londra avrebbe saputo dove si trovava.
— Perciò puoi venire con noi con le buone… — suggerì il cucubuth.
— … o ti portiamo via con le cattive — concluse la creatura più grossa.
Dee sospirò e guardò l’orologio. Il tempo stringeva.
— Hai fretta, dottore? — chiese il cucubuth con il cranio tatuato, mettendo in mostra tutti i denti in un ghigno.
La mano destra del Mago si mosse. Partì dal basso, lungo il fianco su cui era posata, con il palmo alzato; si piegò a mezz’aria e andò a colpire la creatura sotto il mento. I denti del cucubuth si chiusero di scatto, e la forza del colpo lo mandò a gambe all’aria sul selciato. Poi Dee fece scattare la gamba destra, prendendo la creatura più grossa sull’interno della coscia, tramortendola: il cucubuth crollò a terra in una pozzanghera d’acqua sporca, con un’espressione stupita sul viso ampio e rozzo.
Il terzo cucubuth si scansò in fretta. — Che sbaglio, dottore — ringhiò. — Che grosso sbaglio.
— Già… ma non sono stato io a commetterlo — bisbigliò Dee. Fece un passo avanti, con le mani sciolte sui fianchi.
Era sopravvissuto secoli perché tutti lo avevano sempre sottovalutato. Lo guardavano e vedevano soltanto un ometto con i capelli grigi. Perfino chi conosceva la sua reputazione riteneva che fosse soltanto uno studioso. Ma Dee era anche altro… molto, molto altro. Era stato un guerriero. Quando era ancora totalmente umano, e in seguito anche da immortale, aveva viaggiato per l’Europa. Era un’epoca anarchica, in cui briganti e fuorilegge si muovevano liberi per le strade, e le città non erano sicure. Se un uomo voleva sopravvivere, doveva essere in grado di proteggersi. Molti avevano commesso lo sbaglio di sottovalutare il dottor Dee. Uno sbaglio che lui non aveva mai concesso di replicare.
— Non ho bisogno della mia aura per farti del male — disse.
— Io sono un cucubuth — replicò la creatura, con arroganza. — Forse avrai colto di sorpresa i miei fratelli, ma non potrai usare lo stesso trucco con me.
Il Mago sentì un gemito alle sue spalle e si voltò a guardare. Il capo dei cucubuth si stava rimettendo in piedi. Si teneva la mascella con le mani e aveva un’espressione confusa negli occhi.
— Hai fatto male al mio fratellino.
— Sono sicuro che si riprenderà — replicò Dee. Era quasi impossibile uccidere i cucubuth, che possedevano l’abilità vampirica di rigenerare le ferite.
Anche il più grosso si rimise lentamente in piedi. Si reggeva in equilibrio precario sulla gamba sinistra, strofinandosi la destra per risvegliarla. — Mi hai anche rovinato i jeans — ringhiò. In effetti, erano sporchi d’acqua.
— E adesso che farai, dottore? — chiese l’unico cucubuth illeso.
— Avvicinati e te lo faccio vedere. — Il sorriso di Dee era spaventoso come quello inumano del cucubuth.
All’improvviso la creatura gettò indietro la testa e liberò un suono che non sarebbe mai potuto uscire da una gola umana: era un incrocio fra un latrato e un ululato. Tutti i piccioni appollaiati sui tetti di Covent Garden spiccarono il volo in un’esplosione di ali. Da qualche parte nelle vicinanze, qualcosa di simile all’ululato di un lupo riecheggiò per i tetti di Londra, subito seguito da un altro e da un altro ancora, finché l’aria non tremò di terribili versi primordiali. Il cucubuth rise, e ogni traccia di umanità scomparve dal suo viso. — Questa è la nostra città, dottore. Governiamo Trinovantum da prima che i romani ne reclamassero il possesso. Hai idea di quanti siamo, adesso?
— Un bel po’, immagino.
— Molti di più! — ringhiò la creatura. — E gli altri stanno arrivando. Tutti quanti.
Con la coda dell’occhio, Dee scorse qualcosa che si muoveva. Sollevò per un attimo lo sguardo e vide una sagoma che si spostava sul tetto della chiesa di St. Paul. Sullo sfondo del cielo della sera comparve uno skinhead, poi un altro e un altro ancora. Ci fu un po’ di confusione in fondo alla piazza e ne spuntarono altri sei, e poi, sul lato opposto, altri tre.
I turisti, notando l’improvviso afflusso di skinhead e temendo una rissa, cominciarono a disperdersi. I negozi si affrettarono a chiudere. Nel giro di pochi attimi, sul selciato della piazza di Covent Garden erano rimasti solo gli orridi cucubuth con la testa rasata.
— E adesso cos’hai intenzione di fare, dottor Dee?