«Quindi sanno quello che stanno facendo», osservò Qian Kun.

«Questo non è un buono sviluppo.»

«Puoi sapere cosa fa un ladro, ma se lui ha una pistola e tu no, che differenza fa?»

Zhang Han San chiese a propria volta. «Compagno maresciallo?»

«Non si può nascondere a lungo il movimento delle truppe», disse con tono neutrale il maresciallo Luo.

«E' sempre difficile raggiungere la sorpresa tattica, ma noi abbiamo quella strategica.»

«Questo è vero», disse Tan Deshi al Politburo.

«I russi hanno allertato alcune delle loro divisioni, ma sono ancora nella parte ovest, a giorni di distanza; si muoveranno attraverso questa linea ferroviaria e la nostra aviazione può chiuderla, non è vero, Luo?»

«Con facilità», concordò il ministro della Difesa.

«E gli americani?» chiese Fang Gan. «In quella nota che abbiamo appena ricevuto ci dicono di considerare che i russi sono loro alleati. Quante volte la gente ha sottovalutato gli americani, Zhang? Incluso tu stesso», aggiunse.

«Vi sono condizioni obiettive che si applicano anche agli americani, nonostante tutta la loro magia», Luo rassicurò l'assemblea lì riunita.

«E fra tre anni venderemo loro petrolio e oro», li rassicurò a sua volta Zhang. «Gli americani non hanno memoria politica. Si adattano sempre alla forma del mondo in evoluzione. Nel 1949 hanno stilato il trattato della NATO, che includeva i loro acerrimi nemici, i tedeschi. Guardate cosa hanno fatto con il Giappone, dopo avere gettato su di loro le bombe atomiche. C'è solo una cosa che dobbiamo prendere in considerazione: anche se saranno pochi gli americani a combattere, dovranno correre gli stessi rischi degli altri, e forse dovremmo evitare di infliggere loro troppe perdite umane. Faremmo bene anche a trattare i prigionieri e i civili catturati in maniera gentile... immagino che il mondo abbia delle sensibilità che dobbiamo tenere in considerazione.»

«Compagni», disse Fang, raccogliendo il proprio coraggio per un'ultima dimostrazione dei suoi più profondi sentimenti. «Abbiamo ancora la possibilità di fermare tutto questo, come ci ha comunicato alcuni giorni fa il maresciallo Luo. Non siamo ancora coinvolti, fino a quando non verranno sparati i primi colpi. Fino a quel momento, potremo dire che abbiamo condotto un'esercitazione di difesa e il mondo si accontenterà di quella spiegazione, per le ragioni che ci ha appena indicato il mio amico Zhang. Ma una volta avviate le ostilità, la tigre sarà fuori dalla gabbia. L'uomo difende con tenacia ciò che gli appartiene. Ricorderete che Hitler aveva sottovalutato i russi, con suo enorme dispiacere poi. L'Iran ha sottovalutato l'America giusto l'anno scorso, causando un disastro per loro stessi e la morte del loro leader. Siamo certi di potere prevalere in questa avventura?» chiese.

«Certi? Mettiamo in gioco la vita del nostro paese. Non dovremmo dimenticarlo.»

«Fang, vecchio compagno mio, sei saggio e ponderato come sempre», rispose affabilmente Zhang.

«E so che parli a nome della nostra nazione e del nostro popolo, ma come non dobbiamo sottovalutare i nostri nemici, così non dovremmo sottovalutare noi stessi. Abbiamo già combattuto contro gli americani e abbiamo inflitto loro la peggiore sconfitta della loro storia. Non è vero?»

«Sì, li abbiamo sorpresi, ma alla fine abbiamo perso un milione di uomini, incluso il figlio di Mao stesso. E perché? Perché avevano sopravvalutato le nostre capacità.»

«Non questa volta, Fang», Luo li rassicurò tutti.

«Non questa volta. Faremo ai russi la stessa cosa che abbiamo fatto agli americani a Yalu River97. Li colpiremo con forza e sorpresa: dove sono deboli, lì noi ci infiltreremo, dove sono forti, li circonderemo. Nel 1950 eravamo un esercito contadino e avevamo solo armi leggere. Oggi siamo un esercito moderno. Possiamo fare cose che all'epoca gli americani non potevano neppure sognarsi. Prevarremo», concluse con convinzione il ministro della Difesa.

«Compagni, vogliamo fermarci adesso?» chiese Zhang, per concentrare l'assemblea sul dibattito. «Vogliamo condannare il futuro economico e politico del nostro paese? Perché c'è questo in gioco: se restiamo fermi, rischiamo la morte nazionale. Allora, chi tra di noi desidera fermarsi?»

Com'era prevedibile nessuno si fece avanti, nemmeno Qian, per raccogliere la sfida. Il voto fu assolutamente un pro-forma e unanime. Come sempre, il Politburo raggiungeva la collegialità per il proprio bene. I ministri tornarono ai rispettivi uffici.

Zhang attaccò bottone con Tan Deshi per alcuni minuti prima di rientrare anch'egli nel suo ufficio. Un'ora dopo, passò a trovare l'amico Fang Gan.

«Non sei arrabbiato con me?» chiese Fang.

«La voce della prudenza non è cosa da offendermi, vecchio amico mio», disse Zhang, prendendo cortesemente posto nella sedia dall'altra parte della scrivania. Poteva permettersi di essere cortese: aveva vinto.

«Ho paura di questa mossa, Zhang. Abbiamo sottovalutato gli americani nel 1950 e abbiamo perso molti uomini.»

«Gli uomini non ci mancano», sottolineò il ministro senza portafoglio, «e tutto questo farà sentire importante Luo.»

«Come se ne avesse bisogno.» Fang espresse il proprio disappunto per quel tronfio despota. «Anche un cane è utile», puntualizzò il suo visitatore.

«Zhang, e se i russi fossero più temibili di quanto immagini?»

«Ci ho già pensato. Nel giro di due giorni creeremo instabilità nel loro paese e proprio allora inizieremo l'attacco.»

«Come?»

«Ricorderai che abbiamo compiuto quel tentativo fallito contro il primo consulente di Grusvoij, quel Golovko.»

«Sì, e anche lì avevo espresso il mio parere contrario», ricordò Fang al visitatore.

«E forse avevi ragione al riguardo», riconobbe Zhang, per lisciare un po' le penne dell'ospite. «Ma Tan ha sviluppato la capacità e quale modo migliore c'è di destabilizzare la Russia se non di eliminarne il presidente? Possiamo farlo, e Tan ha gli ordini.»

«Assassinate il capo del governo in terra straniera?» chiese Fang, sorpreso di quel livello di audacia. «E se doveste fallire?»

«Commettiamo comunque un atto di guerra contro la Russia. Che cosa abbiamo da perdere? Niente... ma abbiamo molto da guadagnare.»

«Ma le implicazioni politiche...» sussurrò Fang.

«Che problema c'è?»

«E se rivoltano le cose contro di noi?»

«Vuoi dire se tentano di attaccare Xu personalmente?»

L'espressione che aveva sul volto forniva la risposta vera a quella domanda: la Cina starebbe meglio senza quella non entità. Ma neppure Zhang l'avrebbe mai pronunciato a voce alta, nemmeno nella riservatezza di quella stanza.

«Tan mi assicura che la nostra sicurezza fisica è perfetta. Perfetta, Fang. Non vi sono operazioni di spionaggio importanti nel nostro paese.»

«Immagino che ogni paese dica lo stesso... un attimo prima che il tetto gli crolli in testa. Siamo stati bravi con le spie in America, ad esempio, e per quello dobbiamo congratularci con il nostro compagno Tan, ma l'arroganza cade sotto i colpi e quei colpi non possono essere previsti. Faremmo bene a ricordarlo.»

Zhang allontanò il pensiero: «Non si può avere paura di tutto.»

«E' vero, ma anche non avere paura di nulla è imprudente.»

Fang fece una pausa per rappacificarsi. «Zhang, probabilmente tu pensi che io sia una vecchia donnicciola.»

La frase fece sorridere l'altro ministro. «Una vecchia donnicciola? No, Fang, sei un compagno con anni di fedeltà alle spalle e uno dei nostri più considerati consiglieri. Perché pensi che ti abbia portato all'interno del Politburo?»

Per ottenere i miei voti, naturalmente, pensò Fang, senza dirlo. Aveva il più grande rispetto per il suo collega più anziano, ma non era cieco davanti ai suoi errori.

«Te ne sono grato.»

«E' il popolo che dovrebbe essertene grato, sei così attento alle loro esigenze.»

«Bisogna ricordarsi dei contadini e dei lavoratori là fuori. Dopo tutto, sono loro che serviamo.» Quella falsità ideologica era proprio perfetta in quel momento. «Non è un compito facile quello che condividiamo.»

«Devi rilassarti un po'. Prendi quella Ming, quella ragazza, portala nel tuo letto. L'hai già fatto.»

Era una debolezza che entrambi gli uomini condividevano. La tensione del momento calò, proprio come aveva sperato Zhang.

«Chai è più brava a succhiare», rispose Fang, con uno sguardo allusivo.

«Allora portala nel tuo appartamento. Comprale qualcosa di seta. Falla ubriacare. Piace a tutte.»

«Non è una cattiva idea», concordò Fang. «Certamente mi aiuta a dormire.»

«Allora devi assolutamente farlo! Abbiamo tutti bisogno di dormire. Le prossime settimane saranno estenuanti per noi... ma lo saranno ancora di più per i nostri nemici.»

«Una cosa, Zhang. Come hai detto, dobbiamo trattare bene i prigionieri. Ciò che gli americani non perdonano in fretta è la crudeltà contro gli indifesi, come abbiamo visto qui a Pechino.»

«Sono loro le donnicciole. Non capiscono l'uso appropriato della forza.»

«Forse è così, ma se vogliamo fare affari con loro, come dici tu, perché offenderli senza necessità?»

Zhang sospirò e concesse il punto, perché sapeva che doveva giocare d'astuzia.

«Molto bene, lo dirò a Luo.» Controllò l'orologio. «Devo scappare. Sono a cena con Xu stasera.»

«Portagli i miei saluti.»

«Lo farò.» Zhang si alzò, si inchinò di fronte all'amico e se ne andò. Passò un minuto o forse due, poi Fang si alzò e si diresse alla porta.

«Ming», la chiamò, mentre apriva la porta, «vieni qui.»

Rimase sulla porta mentre la segretaria entrava, lasciando che i suoi occhi vagassero su di lei: i loro sguardi si incontrarono e Ming strizzò l'occhio, aggiungendo un sorrisetto femminile. Sì, aveva bisogno di dormire quella notte e lei lo avrebbe aiutato.

«L'incontro del Politburo si è prolungato oggi», disse Fang, accomodandosi nella sua poltrona e dettando. Ci vollero venticinque minuti, poi lasciò andare Ming a eseguire la trascrizione quotidiana. Quindi fece entrare Chai. Le diede un ordine e la congedò. Dopo un'ora, la giornata lavorativa terminò. Fang si diresse alla sua auto ufficiale, con Chai al seguito. Insieme si recarono nel suo appartamento e lì iniziarono le loro attività.

Ming incontrò il suo amante in un nuovo ristorante chiamato «Cavallo di Giada», dove il cibo era più buono della media.

«Sembri preoccupata», osservò Nomuri.

«In ufficio c'è molto lavoro», spiegò. «Ci sono problemi in vista.»

«Ah sì? Che tipo di problemi?»

«Non saprei», obiettò Ming. «Probabilmente non avranno effetti sulla tua azienda.»

E Nomuri capì che aveva portato il suo agente verso la fase successiva... l'ultima. Non pensava più al software che aveva installato in ufficio. Lui non sollevò mai l'argomento. Era meglio che succedesse sotto l'orizzonte visibile. Era meglio che lei dimenticasse cosa stava facendo. La coscienza non si preoccupa delle cose dimenticate. Dopo cena, si recarono a piedi all'appartamento di Nomuri e l'agente della CIA fece del proprio meglio per farla rilassare. Ci riuscì solo in parte, ma lei apprezzò a dovere e alle undici meno un quarto se ne andò. Nomuri si fece il cicchetto della buonanotte, doppio, e controllò il computer per assicurarsi che avesse trasmesso il rapporto quasi quotidiano di Ming. La settimana successiva sperava di poter avere un software che lui potesse caricare a incrocio su quello di lei attraverso la Rete, così che lei avrebbe trasmesso i rapporti direttamente al network chiave. Se a Pechino la situazione fosse diventata critica, la NEC avrebbe potuto richiamarlo in Giappone e non voleva che i rapporti di SONGBIRD smettessero di arrivare a Langley.

In realtà il rapporto era già là, e aveva causato una notevole eccitazione. Il documento era stato stilato e inviato tramite un fax sicuro all'ambasciata americana a Mosca, quindi portato a mano al quartiere generale SVR da un funzionario consolare che non aveva nulla a che vedere con la CIA. Naturalmente ora loro avrebbero pensato che lui fosse una spia e i russi l'avrebbero seguito come un'ombra ovunque fosse andato e avrebbero usato personale addestrato del Servizio di Sicurezza Federale. Gli affari erano sempre affari, anche nel Nuovo Ordine Mondiale. Golovko, come c'era da aspettarsi, fece un salto sulla sedia del suo ufficio.

John Clark ricevette la notizia attraverso il suo telefono satellitare sicuro.

«Cosa cavolo succede?» chiese RAINBOW SEI, seduto nella sua auto non lontano dalla Piazza Rossa.

«Hai capito bene», spiegò Ed Foley.

«Okay, e adesso?»

«Sei a stretto contatto con quelli delle operazioni speciali, no?»

«In un certo senso», ammise Clark.

«Li stiamo addestrando.»

«Bene, potrebbero venire da te per avere dei consigli. Devi sapere cosa succede.»

«Posso dirlo a Ding?»

«Sì», concesse il direttore della CIA.

«Bene. Sai, questo prova l'Ipotesi Chavez.»

«Di cosa si tratta?» chiese Foley.

«Ama dire che le relazioni internazionali sono in larga parte determinate da una nazione che se ne fotte un'altra.»

Bastò a far ridere Foley, a cinquemila chilometri di distanza e con otto fusi orari che li dividevano. «Allora, i nostri amici cinesi giocano duro.»

«Quanto è certa l'informazione?»

«Sono Sacre Scritture, John. Puoi portarle in banca», assicurò Ed al suo funzionario operativo così distante.

Abbiamo una fonte a Pechino, pensò Clark ma non lo disse.

«Okay, Ed, se si rivolgono a me te lo farò sapere. Cooperiamo, immagino.»

«Completamente», gli confermò Ed. «Ora siamo alleati. Non hai visto la CNN?»

«Pensavo fosse il canale della fantascienza.»

«Non sei l'unico. Stammi bene John.»

«Anche tu Ed. Ciao.» Clark premette il pulsante FINE e si mise a parlare tra sé: «Santissima Trinità». Quindi riavviò l'auto e si diresse all'incontro con Domingo Chavez. Ding era al bar che RAINBOW aveva adottato durante la sua permanenza nella zona di Mosca. I ragazzi erano radunati in un separé piuttosto grande in un angolo, dove si lamentavano della birra locale ma apprezzavano l'alcol puro preferito dai nativi.

«Hey, signor C.», lo salutò Chavez. «Ed mi ha appena chiamato sul portatile.»

«E...?»

«E la Cina sta programmando di iniziare una piccola guerra con i nostri ospiti qui, e queste sono le belle notizie», aggiunse Clark.

«E quali cazzo sono quelle cattive?» chiese Chavez, senza incredulità nella voce.

«Il loro Ministero della Sicurezza ha appena emesso un avviso su Eduard Petrovic», proseguì John.

«Ma sono pazzi?» sbottò l'altro funzionario della CIA.

«Be', iniziare una guerra in Siberia non è esattamente un atto razionale. Ed ci ha coinvolto perché pensa che presto i russi vorranno il nostro aiuto. Apparentemente dovrebbero conoscere il contatto dei comunisti cinesi. Devi pensare che da questo verrà fuori una grossa operazione e noi abbiamo addestrato le loro truppe. Potremmo essere invitati ad assistere, ma potrebbe non succedere.»

«D'accordo.»

In quel momento entrò il generale Kirillin, con un sergente al suo fianco. Questi rimase sulla porta con il cappotto sbottonato e la mano destra vicina all'apertura. L'ufficiale superiore individuò Clark e si diresse verso di lui.

«Non ho il suo numero di cellulare.»

«Per cosa ci vuole oggi, generale?» chiese Clark.

«Ho bisogno che venga con me. Dobbiamo vedere il presidente Golovko.»

«Le dispiace se viene anche Domingo?»

«Non ci sono problemi», rispose Kirillin.

«Ho parlato con Washington da poco. Quanto sa?» chiese Clark all'amico russo.

«Molto, ma non tutto. Per questo dobbiamo vedere Golovko.»

Kirillin fece segno di andare verso la porta, dove il sergente faceva la sua migliore imitazione di un dobermann.

«Cosa sta succedendo?» chiese Eddie Price. Nessuno stava controllando la sua espressione e Price sapeva come leggere i volti. «Ti racconterò quando torniamo», gli disse Chavez. L'auto che aspettava fuori era seguita da un'auto di scorta con quattro uomini a bordo e il sergente/guardia del corpo che accompagnava il generale era uno dei pochi soldati semplici al quale era stato concesso di partecipare all'addestramento gestito da RAINBOW. I russi, lo sapevano, stavano andando bene. Non faceva male scegliere la gente appositamente da una lista già di élite. Le auto si mossero nel traffico di Mosca con un interesse per le regole e per le leggi di sicurezza inferiori al solito, quindi entrarono dal cancello principale del numero 2 di Piazza Dzerzinskij. L'ascensore li aspettava e in un attimo furono all'ultimo piano.

«Grazie per essere venuti così rapidamente. Immagino abbiate parlato con Langley», osservò Golovko.

Clark sollevò il suo telefono cellulare.

«L'unità di decodifica è così piccola?»

«Progresso, presidente», osservò Clark.

«Mi hanno detto che questa informazione dei Servizi Segreti è da prendere sul serio.»

«Foley ha un'ottima fonte a Pechino. Ho visto alcune delle "prese" da lui. Sembrerebbe che sia stato fatto un deliberato attentato alla mia vita e ora ne stanno organizzando un altro per il presidente Grusvoij. L'ho già informato. I suoi della sicurezza sono già tutti in allerta. L'agente principale cinese a Mosca è stato identificato ed è sotto sorveglianza. Quando riceverà le istruzioni, lo arresteremo. Ma non sappiamo chi sono i suoi contatti. Immaginiamo siano ex uomini Spetsnaz che gli sono leali, criminali naturalmente, che fanno lavori speciali per la malavita che è cresciuta qui.»

John pensò che avesse senso. «Alcune persone farebbero qualsiasi cosa in cambio di denaro, Sergej Nicolay, come possiamo aiutarvi?»

«Foley le ha dato istruzioni di assistere? Gentile da parte sua. Data la natura delle informazioni riservate che ci sono giunte, un osservatore americano sembra adatto. Per la cattura useremo la polizia, con la copertura della gente del generale Kirillin. In qualità di comandante di RAINBOW, questo sarà compito suo.»

Clark annuì. Non era un impegno gravoso.

«Molto bene.»

«Ci occuperemo noi della sua sicurezza», gli assicurò il generale.

«E vi aspettate che la Cina attacchi la Russia?»

«Entro questa settimana», annuì Golovko.

«Il petrolio e l'oro?» chiese Chavez.

«Sembrerebbe di sì.»

«Questa è la vita nella grande città», osservò Ding.

«Faremo loro rimpiangere questo atto barbaro», disse Kirillin a tutti i presenti.

«Rimane da vedere», commentò Golovko con prudenza.

Sapeva cosa diceva Bondarenko a Stavka. «E visto che adesso siete nella NATO stiamo arrivando ad aiutarvi», intervenne Clark.

«Il vostro presidente Ryan è un vero compagno», convenne il russo.

«Anche RAINBOW allora», pensò John ad alta voce. «Siamo tutti soldati della NATO.»

«Non ho mai combattuto prima in una guerra vera», comunicò Chavez. Ma ora era un maggiore e poteva succedere che fosse trascinato in questa. La sua assicurazione sulla vita, ricordò, era pagata per intero.

«Non è proprio un divertimento, Domingo», gli assicurò Clark. E sto anche diventando vecchio per questo genere di cose.

 

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