38. SVILUPPI
Tutto avviene elettronicamente. Un tempo, il tesoro di una nazione si misurava in lingotti d'oro, che venivano custoditi in un caveau ben difeso, oppure viaggiavano in un forziere insieme al capo di Stato, accompagnandolo ovunque. Nel XIX secolo, si era andata affermando la moneta cartacea. All'inizio, doveva essere convertibile in oro o argento, il cui valore dipendeva dal peso, ma gradualmente si abbandonò anche questa pratica, perché il metallo prezioso accumulato era comunque troppo ingombrante da trasportare. Tuttavia, non passò molto tempo e anche la cartamoneta diventò troppo voluminosa. Per la gente comune la fase successiva fu inaugurata dalle carte in plastica magnetizzate, che permettevano il movimento di moneta virtuale dal proprio conto a un altro quando si faceva un acquisto. Per le grandi società e per gli Stati significava qualcosa di ancor più virtuale. Diventò un'espressione elettronica. Uno Stato stabiliva il valore della propria divisa calcolando l'ammontare di beni e servizi prodotti complessivamente dal lavoro quotidiano dei cittadini e questo diventava il volume della ricchezza monetaria, convenuto in genere con gli altri paesi e cittadini del mondo. In questo modo le transazioni non conoscevano i confini nazionali e avvenivano tramite fibre ottiche o cavi di rame, persino via satellite, e miliardi di dollari, sterline, yen o di nuovi euro si spostavano da un luogo a un altro con una semplice pressione su un tasto. Molto più semplice e veloce che trasportare lingotti d'oro. Nonostante tutti i lati positivi, il sistema che determinava la ricchezza individuale o di uno Stato non era meno rigido, tanto che alcune banche centrali calcolavano la raccolta netta di unità monetarie del paese fino all'ultimo centesimo. Il sistema aveva un certo margine di manovra, per tener conto degli scambi commerciali in corso e così via, ma anche questo spazio era rigidamente controllato elettronicamente. Il risultato finale non era molto diverso, fatte le debite proporzioni, dai calcoli che compiva il re di Lidia Creso79 per contare i lingotti. In effetti, il nuovo sistema che dipendeva dal passaggio degli elettroni o dei fotoni da un computer a un altro consentiva, se non altro, maggior precisione e ancor meno scampo. Un tempo, si potevano dipingere di giallo dei lingotti di piombo per ingannare un ispettore distratto, ma ingannare un sistema di contabilità elettronica era molto, molto più complesso. In Cina, questo compito era affidato al Ministero delle Finanze, un orfano bastardo di uno Stato marxista popolato da burocrati che ogni giorno lottavano per riuscire a fare le cose più incredibili.
La prima e più semplice di queste imprese, impossibili ma necessarie, la dovevano compiere le élite al potere, dimenticando tutto quello che avevano appreso nelle università e nel partito comunista. Per poter operare nel sistema finanziario mondiale, dovevano comprendere e operare entro e in base alle regole monetarie mondiali, invece che dal vangelo di Karl Marx. Il Ministero delle Finanze, perciò, si trovava nella poco invidiabile posizione di dover spiegare all'intelligentsia comunista che il loro era un dio falso, che il loro perfetto modello teorico non funzionava nella vita pratica e che quindi dovevano accettare la realtà che avevano sempre così strenuamente rifiutato. I burocrati del ministero erano per lo più osservatori, dei ragazzini che usavano il computer per giocare a un gioco in cui non credevano ma che a loro piaceva. Alcuni erano anche in gamba e giocavano bene, talvolta risicando un margine di profitto con i loro scambi e transazioni. All'interno del ministero questo faceva guadagnare promozioni e rispetto. Alcuni avevano addirittura la propria automobile con cui andavano al lavoro ed erano ben visti dalla nascente classe di imprenditori che si erano liberati dei lacci e lacciuoli ideologici e operavano da capitalisti all'interno di una società comunista. Questo faceva affluire ricchezze nel loro paese e si erano guadagnati una tiepida gratitudine, se non il rispetto, della classe dirigente politica, come se si trattasse di un bravo cane da pastore. Questa nuova generazione di imprenditori lavorava in stretta collaborazione con il Ministero delle Finanze, riuscendo allo stesso tempo a influenzare la burocrazia che gestiva le entrate immesse nel loro paese. Come conseguenza di questo impegno, il Ministero delle Finanze si stava sempre più decisamente e rapidamente affrancando dai dettami del marxismo per avviarsi in quella specie di limbo incerto che era il capitalismo socialista, un mondo senza nome o identità precisa. In effetti, tutti i ministri delle Finanze si erano allontanati sempre più dal marxismo, indipendentemente dalla loro originaria fede, dato che uno per volta si erano resi conto che il paese doveva scendere in campo in questo agone internazionale e per fare ciò si dovevano rispettare le regole e, dimenticavo, questo era un gioco che stava portando un po' di prosperità alla Repubblica della Cina, mentre singolarmente in cinquant'anni Marx e Mao non ci erano riusciti. In diretta conseguenza di questo processo inarrestabile, il ministro delle Finanze era un candidato, non un membro effettivo del Politburo. Aveva voce in capitolo, ma non diritto di voto e le sue opinioni venivano giudicate da chi non si era mai realmente preoccupato di capire le sue parole o il mondo in cui operava. L'attuale ministro era stato soprannominato Qian, che significa monete o denaro, e ricopriva la sua carica da sei anni. Era stato ingegnere, aveva lavorato per vent'anni alle linee ferroviarie nel nord-est del paese e in riconoscimento dei suoi meriti era stato promosso a questa carica. Si era comportato molto bene nella gestione del suo incarico, stando al giudizio della comunità internazionale, ma a Qian Kun toccava spesso il compito ingrato di spiegare al Politburo che il Politburo non era libero di prendere qualsiasi decisione, il che significava essere accolto nella sala riunioni circa come un appestato. Quello sarebbe stato un altro di quei giorni, temeva, seduto nel retro della sua auto ministeriale mentre si avviava alla riunione mattutina.
A undici ore di distanza, un'altra riunione era in corso a Park Avenue a New York. «Butterfly» era il nome di una catena di negozi di abbigliamento che proponeva prodotti per le ricche signore americane. Il suo successo era dovuto alla combinazione tra i nuovi tessuti in microfibra e la creatività di un giovane stilista italiano di Firenze, con ciò guadagnandosi il sei per cento del mercato, e in America questo significava un considerevole fatturato. Tuttavia c'era un «ma»: i tessuti venivano prodotti in Cina, da un'azienda vicina al porto di Shanghai, per essere poi confezionati in un altro stabilimento nella vicina città di Yancheng. Il presidente della Butterfly, un giovane trentaduenne, dopo dieci anni di duro lavoro pensava di poter raccogliere il frutto dei propri sogni, che lo accompagnavano dai tempi dell'Erasmus Hall High School di Brooklyn. Aveva passato quasi ogni giorno dopo la laurea al Pratt Institute a pensare e mettere in piedi la propria attività e ora era arrivato il momento giusto. Era venuto il momento di acquistare quel G per potersene volare a Parigi quando gli venisse il ghiribizzo, comprarsi quella casa sulle colline in Toscana e un'altra ad Aspen e godersi finalmente un po' i soldi che si era guadagnato. Tuttavia c'era quel piccolo ma. Nel suo negozio più importante nella 50a si era assistito a una scena più memorabile di uno sbarco di marziani: una manifestazione di protesta. Manifestanti vestiti Versace si erano radunati di fronte alle vetrine con cartelli montati su aste di legno proclamando tutto il loro disprezzo per chi aveva interessi commerciali al grido di BARBARI! e condannando la Butterfly per questo. Era anche comparso un cartello con la bandiera cinese con una svastica e se c'era una cosa che non si voleva assolutamente associare con un negozio o un'attività a New York era l'odioso simbolo di Hitler.
«Dobbiamo muoverci in fretta», decise il consiglio d'azienda. Il presidente era di origini ebraiche e aveva condotto la Butterfly abilmente schivando più di qualche secca per giungere alla soglia del successo.
«Questo potrebbe significare la nostra rovina.» Non stava scherzando e il resto del consiglio lo sapeva bene. Ben quattro clienti avevano osato oltrepassare il muro dei dimostranti e una di queste per riportare un capo che non aveva più intenzione di tenere nel suo guardaroba.
«Di quanto siamo esposti?» chiese il fondatore e presidente.
«In termini reali?» chiese il responsabile dell'amministrazione.
«Mah, in via teorica quattrocento», intendendo con questo quattrocento milioni di dollari.
«Potrebbero metterci in ginocchio nel giro di... vediamo, dodici settimane.» Non erano certo le parole che si aspettava di sentire il presidente. Gestire a questi livelli una linea di abbigliamento era semplice come navigare in pieno Atlantico durante il raduno annuale degli squali. Questo era il suo momento, ma si ritrovava nel bel mezzo di un campo minato, stavolta senza essere stato preavvisato.
«Bene», rispose quanto più freddamente gli potesse permettere tutto l'acido che aveva in corpo.
«Che cosa ci resta da fare?»
«Possiamo cancellare i nostri contratti», suggerì il legale.
«E' lecito?»
«Abbastanza lecito», volendo dire con questo che il mancato pagamento della merce ai produttori cinesi era una conseguenza meno gravosa di un negozio pieno di prodotti che la gente non voleva comprare.
«Altre opzioni?»
«I tailandesi», intervenne il responsabile alla produzione.
«C'è un posto fuori Bangkok che non aspetta altro per rimpiazzare i cinesi. Si sono fatti vivi proprio oggi.»
«Costo?»
«Una differenza inferiore al quattro per cento, tre virgola sei tre per la precisione, e saranno a pieno regime nel giro di quattro settimane al massimo. Abbiamo abbastanza merce per poter tenere aperti i negozi per quel periodo senza problemi», riferì con sicurezza il responsabile della produzione agli amministratori.
«Quanto di questa merce è cinese?»
«Molta viene da Taiwan, ricordi? Possiamo cominciare a far mettere gli adesivi, quelli della campagna, sui capi... e ne possiamo fare anche noi.» Tanto non erano molti i clienti che sapessero la differenza tra due nomi di città. Una bandiera era più facile riconoscerla.
«Inoltre», intervenne il responsabile marketing, «potremmo dare il via a una campagna pubblicitaria domani stesso. Slogan: "Butterfly non fa affari con il drago".»
Mostrò un'immagine con il logo aziendale che scampava le vampate di un drago. Il fatto che fosse un po' di cattivo gusto era una cosa al momento trascurabile: dovevano prendere delle contromisure e farlo in fretta.
«Ah, poi, mi ha chiamato un'ora fa Frank Meng della Meng, Harrington e Cicero», annunciò il responsabile della produzione. «Dice che può far entrare nel giro di qualche giorno qualche azienda tessile di Taiwan tra i nostri fornitori, flessibili e in grado di attuare una ristrutturazione in meno di un mese e se gli diamo l'okay, l'ambasciatore di Taiwan ci metterà ufficialmente nella lista dei "buoni". In cambio, dobbiamo garantire commesse per cinque anni, con le solite clausole di recesso.»
«Mi piace», disse il legale. L'ambasciatore di Taiwan si sarebbe comportato correttamente e così il suo paese. Sapevano quando tenevano la tigre per le palle.
«Mettiamo ai voti la proposta», annunciò il presidente.
«Tutti favorevoli?» Con questo voto, la Butterfly fu la prima grande società americana a stracciare i contratti con la Cina. Come la prima oca che in autunno lascia il Canada settentrionale, annunciava l'inizio di una lunga stagione fredda. L'unico problema era costituito dalle azioni legali intentate dalle aziende cinesi, ma anche un giudice federale con ogni probabilità capirebbe che un contratto firmato non è la nota di un suicida e forse era sufficiente considerare la temperie politica per rendere nullo il contratto. Dopo tutto, avrebbero potuto dichiarare i difensori nelle camere di commercio o anche di fronte a una giuria a New York se necessario, se scopri che il tuo partner commerciale è Adolf Hitler , sei moralmente obbligato a fare un passo indietro. L'accusa avrebbe potuto controbattere, ma sapendo che la sua era la posizione del perdente e informando in questo senso i clienti.
«Ne parlerò domani con le nostre banche. Hanno l'ordine di non chiudere i rubinetti per le prossime trentasei ore.» Il che significava che centoquaranta milioni di dollari non sarebbero stati trasferiti sul conto di Pechino. E adesso il presidente poteva ritornare a contemplare la sua idea di comperarsi il suo G. Il logo aziendale con la farfalla che esce dal bozzolo, pensò, vi avrebbe fatto un figurone.