Avevano anche recuperato il nome di Klementi Ivan Suvorov. Era un altro ex funzionario del KGB, allora parte della Terza direzione generale, che era stato un dipartimento ibrido dell'ex agenzia dei Servizi Segreti. Il suo compito era quello di supervisionare gli ex militari sovietici e anche di sovrintendere ad alcune loro sezioni speciali, come la Spetsnaz. Oleg Provalov lo sapeva. Voltò altre pagine del pacchetto di Suvorov, trovò una fotografia e delle impronte digitali. Scoprì anche che il suo primo incarico era stato nella Prima direzione generale, nota sotto il nome di Direzione Esteri a causa del lavoro di raccolta di informazioni segrete da altre nazioni. Perché c'era stato lo spostamento? Di norma nel KGB si rimaneva là dove si era iniziato. Ma un funzionario superiore nella Terza l'aveva selezionato nominalmente dalla Prima... perché? Suvorov, K.I., per esplicita richiesta del generale maggiore Pavel Kostantinovic Kabinet. Il nome bloccò Provalov. L'aveva già sentito da qualche parte, ma non riusciva a ricordare dove esattamente, situazione strana per un investigatore con la sua esperienza. Provalov prese un appunto e lo mise da parte. Allora, avevano un nome e una foto per questo Suvorov. Conosceva Amalrik e Zimianin, i presunti (e deceduti) assassini di Avsienko il magnaccia? Sembrava possibile. Nella Terza direzione poteva avere avuto accesso alla Spetsnaz, ma poteva essere una semplice coincidenza. La Terza direzione del KGB si era occupata prevalentemente di controllo politico dei militari sovietici, ma ora lo Stato non ne aveva più bisogno, no? L'intera serie dei funzionari politici, gli zampoliti 26che a lungo erano stati il flagello dei militari sovietici, non c'erano quasi più. Dove sei ora? chiese Provalov alla cartella dei file. A differenza dell'archivio centrale dell'esercito, quello del KGB riusciva piuttosto bene a indicare dove vivevano gli ex funzionari dei Servizi Segreti e cosa stavano facendo. Si trattava di una cosa che si era mantenuta dal regime precedente che lavorava per le agenzie di polizia, ma non in questo caso. Dove sei? Cosa fai per sostentarti? Sei un criminale? Sei un assassino? Per loro natura gli investigatori della Omicidi producevano più domande che risposte e spesso le domande restavano per sempre irrisolte perché non si poteva guardare nella mente di un killer, e anche avendo potuto, quello che si sarebbe trovato non necessariamente avrebbe avuto un senso. Questo caso di omicidio era iniziato come un caso complesso e lo diventava sempre più. Quello che sapeva per certo era che Avsienko era morto, insieme al suo autista e a una puttana. E ora, forse, ne sapeva ancora meno. Fin dall'inizio aveva supposto che il magnaccia fosse il vero obiettivo, ma se questo Suvorov aveva ingaggiato Amalrik e Zimianin per compiere l'omicidio, perché un ex (e controllò) tenente colonnello della Terza direzione generale del KGB avrebbe fatto ammazzare un magnaccia? Sergej Golovko non era anch'egli un obiettivo ugualmente possibile per l'assassinio, e quello non avrebbe spiegato anche l'uccisione dei due presunti killer, per aver eliminato l'obiettivo sbagliato? Il tenente di polizia aprì un cassetto della scrivania per prendere una confezione di aspirine. Non era il primo mal di testa che gli provocava questo caso e molto probabilmente non sarebbe stato l'ultimo. Chiunque fosse Suvorov, se Golovko era stato l'obiettivo, non aveva preso lui la decisione di uccidere l'uomo. Era stato un assassinio su commissione e quindi era stato qualcun altro a decidere. Ma chi? E perché? Cui prodest27? era l'antica domanda, tanto antica che era in una lingua morta. A chi giova? Chi se ne avvantaggia? Chiamò Abramov e Ustinov. Magari potevano beccare Suvorov e poi andare su a nord per interrogarlo. Provalov abbozzò il fax e lo inviò a San Pietroburgo, quindi lasciò la sua scrivania e si diresse a casa. Controllò l'orologio. Solo due ore di ritardo. Non male, per un caso del genere. Il tenente generale Gennadij Iosifovic Bondarenko si guardò attorno nel proprio ufficio. Era da un po' ormai che aveva le tre stelle e si chiese se sarebbe andato oltre. Era stato un soldato di professione per trentuno anni e la posizione alla quale aveva sempre aspirato era comandante generale dell'esercito russo. Molti ottimi uomini, e alcuni pessimi, lo avevano preceduto. Gregorij Zukov, ad esempio, l'uomo che aveva difeso il suo paese dai tedeschi. C'erano molte statue dedicate a lui. Bondarenko aveva sentito le sue lezioni quando era un cadetto di primo pelo, tanti anni addietro. Aveva visto la sua ottusa faccia da bulldog e gli occhi blu ghiaccio del killer determinato, un vero eroe russo che la politica non poteva svilire e il cui nome i tedeschi temevano. Che Bondarenko fosse andato così lontano non era una sorpresa neppure per lui stesso. Aveva iniziato come ufficiale di segnalazione, aveva brevemente appoggiato la Spetsnaz in Afghanistan, dove per due volte aveva beffato la morte, entrambe prendendosi in carico una situazione da panico ed era sopravvissuto distinguendosi per come l'aveva risolta. Era stato ferito e aveva ucciso con le proprie mani, cosa che pochi colonnelli fanno e amano fare, tranne che in un buon bar da ufficiali dopo aver buttato giù alcuni bicchieri insieme ai compagni. Come molti generali prima di lui, Bondarenko era una sorta di generale «politico». Aveva legato la propria carriera e le proprie stellette alle code della giacca di un quasi ministro, Sergej Golovko. Ma non aveva mai realmente ottenuto le stelle di tenente generale se non per meriti reali, e il coraggio funzionava nell'esercito russo, come in qualunque altro esercito. L'intelligenza contava ancora di più e sopra a ogni cosa serviva il risultato. Il suo lavoro consisteva in quello che gli americani chiamavano J-3, capo delle operazioni, che voleva dire uccidere la gente in guerra e addestrarla in tempo di pace. Bondarenko aveva viaggiato moltissimo, imparando come gli altri eserciti addestravano i propri uomini, passando al setaccio le lezioni e applicandole ai propri soldati. L'unica differenza tra un soldato e un civile era l'addestramento, dopo tutto, e Bondarenko voleva portare l'esercito russo nelle medesime condizioni di precisione estrema e durezza granitica con le quali aveva sfondato a calci i cancelli di Berlino sotto zukov e Koniev. Quell'obiettivo era ancora lontano, ma il generale si disse che aveva posto le basi giuste. In dieci anni forse il suo esercito lo avrebbe raggiunto e lui avrebbe fatto in tempo a vederlo. Naturalmente sarebbe già stato in pensione per allora, e con onore, con le decorazioni incorniciate e appese al muro e i nipotini che gli saltavano sulle ginocchia... e, all'occasione, sarebbe tornato per una consulenza, per controllare le cose e fornire la propria opinione, come spesso facevano i generali in pensione. Per il momento, non aveva altro lavoro da svolgere, ma nessun particolare desiderio di tornare a casa, dove sua moglie stava intrattenendo le mogli di altri ufficiali. Bondarenko aveva sempre trovato quegli incontri molto noiosi. L'addetto militare a Washington gli aveva inviato un libro, Swift Sword, di un certo colonnello Nicholas Eddington della guardia nazionale dell'esercito americano. Eddington, certo, era il colonnello che faceva l'addestramento con la sua brigata nel deserto della California quando era giunta la decisione di disporre le forze nel Golfo Persico e le sue truppe, civili in uniforme, a dire il vero si erano comportate bene. Benissimo, si disse il generale russo. Avevano messo in pratica il «Tocco della Medusa», distruggendo tutto ciò che avevano toccato, insieme alle formazioni americane regolari, i reggimenti di cavalleria 10o e 11o. Insieme, quella raccolta di forze della dimensione di una divisione aveva distrutto quattro interi corpi di truppe motorizzate, come pecore nel recinto del macello. Anche le guardie di Eddington erano andate a meraviglia. In parte, Gennadij Iosifovic lo sapeva, dipendeva dalla motivazione: l'attacco biologico alla propria patria aveva infuriato comprensibilmente i soldati e quella rabbia poteva trasformare un soldato mediocre in uno eroico, con la facilità con la quale si accende la luce. «Volontà di combattere» era il termine tecnico. Con un linguaggio più comune, era la ragione per la quale un uomo metteva a rischio la propria vita e quindi non era una questione di poca importanza per l'ufficiale di alto grado il cui mestiere era condurre quegli uomini verso il pericolo. Sfogliando il libro, vide che quell'Eddington (che era anche un professore di storia, diceva il risvolto di copertina; non era una cosa interessante?) non considerava gran che quel fattore. Allora, oltre a essere fortunato, era anche in gamba. Aveva avuto la fortuna di comandare soldati di riserva con molti anni di servizio, e sebbene avessero avuto solo un addestramento part-time, si erano trovati in unità molto stabili, in cui ogni soldato sapeva dove erano gli altri, e quello era un lusso virtualmente sconosciuto per i soldati comuni. Inoltre, avevano avuto a disposizione la rivoluzionaria attrezzatura americana IVIS, che permetteva a tutti gli uomini e ai veicoli sul campo di sapere esattamente quello che sapeva il comandante, spesso con grande precisione... e a propria volta informava il comandante di cosa vedessero esattamente i suoi uomini. Eddington sosteneva che quello gli aveva facilitato le cose enormemente, rispetto alle condizioni di un qualsiasi comandante di forze motorizzate. L'ufficiale americano sottolineava poi l'importanza di sapere non solo cosa stavano dicendo i suoi comandanti subordinati, ma anche cosa stavano pensando, tutte le cose che non avevano il tempo di dire. L'enfasi implicita era sull'importanza della continuità all'interno dei corpi ufficiali, e quella, pensò Bondarenko mentre faceva una nota a margine, era una lezione importantissima. Avrebbe dovuto leggere a fondo quel libro e forse chiedere a Washington che ne comprasse un centinaio di copie anche per gli altri fratelli ufficiali... e i diritti per stamparlo in Russia? Era una cosa che i russi avevano fatto più di una volta.