«Merda», sbottò Ryan nella Sala Ovale, quando Ellen Sumter gli tese il fax da Langley. Poi alzò gli occhi.

«Oh, scusa, Ellen.» Lei sorrise come una madre a un figlio prezioso.

«Sì, signor presidente.»

«Ne hai uno che posso...?» La signora Sumter aveva preso a indossare vestiti con ampie tasche. Da quella sinistra pescò una scatola col coperchio a scatto di Virginia Slims e la porse al presidente, che estrasse una sigaretta e la accese con l'accendino a butano che la donna aveva messo nella scatola.

«Be', non è questo qualcosa?»

«Lei conosce quest'uomo, vero?» chiese Ellen Sumter.

«Golovko? Sì.» Ryan fece un sorriso sghembo, ricordando ancora una volta la pistola sulla sua faccia mentre il VC-137 si abbassava rumorosamente sulla pista all'aeroporto Sheremetyevo di Mosca tutti quegli anni prima. Adesso riusciva a sorridere; ma allora la cosa non era sembrata tanto divertente.

«Oh sì, Sergej e io siamo vecchi amici.» Come segretaria del presidente, Ellen Sumter veniva messa al corrente quasi di ogni cosa, anche del fatto che il presidente Ryan fumava di tanto in tanto una sigaretta di nascosto, ma c'erano cose che lei non sapeva e che mai avrebbe saputo. Era abbastanza intelligente da essere incuriosita, ma anche abbastanza intelligente da non chiedere.

«Se lo dice lei, signor presidente.»

«Grazie, Ellen.» Ryan si sedette comodamente sulla sedia e fece un lungo tiro dalla sottile sigaretta. Perché lo stress di ogni tipo lo riportava sempre a gravitare attorno a quelle cose dannate che lo facevano tossire? Il lato buono era che gli davano anche un senso di euforia. Dunque, questo significava che lui non era un fumatore, non per davvero, si disse POTUS. Tornò a leggere il fax. Era composto da due pagine: una era il fax originale di Sergej Nicolaya Langley (egli aveva la linea diretta di fax di Mary Pat e voleva ovviamente farlo vedere) e la seconda era una raccomandazione di Edward Foley, il direttore della CIA. Per chi sapeva come stavano le cose, si trattava di roba abbastanza semplice. Golovko non aveva nemmeno bisogno di spiegare perché l'America doveva acconsentire alla sua richiesta. I Foley e Jack Ryan sapevano che il KGB aveva aiutato la CIA e il governo americano in due missioni molto delicate e importanti, e il fatto che entrambe dovessero servire anche gli interessi russi era fuori questione. Ryan non aveva dunque alternative. Alzò la cornetta e schiacciò un tasto di composizione veloce del numero.

«Foley», disse una voce maschile all'altro capo del telefono.

«Ryan», disse a sua volta Jack. Poi sentì l'individuo dall'altro lato mettersi a sedere più diritto sulla sedia.

«Ho avuto il fax.»

«E?» chiese il direttore.

«E cos'altro diavolo possiamo fare?»

«Sono d'accordo.» Foley avrebbe potuto dire che a lui personalmente Sergej Golovko era simpatico. Anche a Ryan, lo sapeva. Ma non si trattava di provare simpatia o no. Si stava facendo della politica governativa qui, qualcosa di più grande dei fattori personali. La Russia aveva aiutato gli Stati Uniti d'America e ora la Russia chiedeva agli Stati Uniti d'America di ricambiare l'aiuto. Nei regolari rapporti tra nazioni, richieste del genere, se avevano precedenti, dovevano essere accontentate. Era lo stesso principio secondo cui si presta un rastrello al proprio vicino se il giorno precedente lui ci ha prestato una pompa, solo che a questo livello, per questi favori talvolta qualcuno resta ucciso.

«Te ne occupi tu o io?»

«La richiesta è arrivata a Langley. Dai tu la risposta. Trova quali sono i parametri. Noi non vogliamo compromettere la Rainbow, vero?»

«No, Jack, ma non c'è molta scelta. L'Europa ha rallentato un bel po' il passo. Gli uomini della Rainbow stanno essenzialmente facendo pratica e buchi nella carta. Le notizie che circolavano... be' forse dovremmo ringraziare lo stronzo che ha rotto il silenzio.»

Il direttore della CIA raramente parlava bene della stampa. E in questo caso qualche schifosa persona del governo aveva detto troppo di qualcosa che sapeva, ma in ultima analisi la storia aveva avuto l'effetto desiderato, anche se l'articolo di stampa era pieno di errori, e c'era poco da meravigliarsi. Ma alcuni di questi errori avevano fatto sembrare la Rainbow quasi sovrumana, e questo soddisfaceva i loro ego e rendeva esitanti i potenziali nemici. E così, il terrorismo in Europa aveva ridotto i suoi tempi a un lento avanzare dopo la sua breve (e un po' artificiale, adesso lo sapevano) rinascita. Gli Uomini in nero incutevano semplicemente troppa paura per avere a che fare con loro. Gli scippatori, dopo tutto, seguivano le vecchiette che avevano appena ritirato i soldi della previdenza sociale, non il poliziotto armato all'angolo della strada. In questo, i criminali si comportavano in modo razionale. Una vecchietta non riesce a contrastare lo scippatore in modo efficace, ma il poliziotto ha la pistola.

«Prevedo che i nostri amici russi terranno nascosta la cosa.»

«Penso che ci possiamo fidare di questo, Jack», annuì Ed Foley.

«Qualche motivo per non farlo?» Ryan poteva sentire il direttore spostarsi sulla sedia.

«Non mi è mai piaciuto molto consigliare "metodi" a qualcuno, ma questa non è un'operazione dei Servizi Segreti ma come fare lo si può imparare leggendo i libri giusti. Così, immagino che possiamo consentirla.»

«Approvato», disse il presidente. A Ryan sembrò di vedere il cenno d'assenso all'altro capo del telefono.

«D'accordo, la risposta partirà oggi.»

Con una copia inviata a Hereford, naturalmente. Che arrivò sulla scrivania di John prima dell'ora di chiusura. Egli mandò immediatamente a chiamare Al Stanley e gliela porse.

«Suppongo che stiamo diventando famosi, John.»

«Ti fa sentire bene, non è vero?» chiese Clark sprezzante. Entrambi erano ex operatori clandestini, e se ci fosse stato un modo per non far sapere ai loro supervisori i loro nomi e le loro attività, essi lo avrebbero trovato da molto tempo.

«Presumo che andrai tu stesso. Chi porterai a Mosca con te?»

«Ding e Team-2. Ding e io siamo già stati là. Abbiamo entrambi incontrato Sergej NicolayAlmeno in questo modo lui non vede delle gran facce nuove.»

«Sì, e il tuo russo, per come mi ricordo, è eccezionale.»

«La scuola di lingue di Monterey è piuttosto buona», spiegò John con un cenno d'assenso.

«Quanto tempo prevedi per finire tutto?» Clark abbassò nuovamente gli occhi sul fax e meditò per qualche secondo.

«Oh, non più di... tre settimane», disse a voce alta.

«I loro Spetsnaz non sono male. Organizzeremo un gruppo di addestramento per loro, e dopo un po' potremo probabilmente invitarli qui, vero?» Stanley non aveva bisogno di sottolineare che il SAS, Special Air Service, in particolare, e il ministero della Difesa inglese in generale, avrebbero avuto un attacco di bile riguardo al tutto, ma alla fine avrebbero dovuto accettare la cosa. Si chiamava diplomazia, e i suoi principi regolavano la politica della maggior parte dei governi del mondo, che a loro piacesse o meno.

«Suppongo che dovremo farlo, John», disse Stanley sentendo già le urla, le proteste e i lamenti di tutti gli altri, e di Whitehall. Clark sollevò il telefono e schiacciò il tasto per la segretaria, Helen Montgomery.

«Helen, vuole per favore chiamare Ding e chiedergli di venire qui? Grazie.»

«Anche lui parla molto bene il russo, da quanto mi ricordo.»

«Abbiamo avuto buoni insegnanti, ma il suo accento è un po' meridionale.»

«E il tuo?»

«Accento di Leningrado... be', di San Pietroburgo, adesso, immagino. Al, credi a tutti i cambiamenti?» Stanley prese una sedia.

«John, è tutto abbastanza folle, anche oggi, e sono ormai passati più di dieci anni da quando hanno ammainato la bandiera rossa sulla porta Spaskij.» Clark annuì.

«Mi ricordo quando l'ho visto in TV, amico. Mi ha elettrizzato.»

«Ehi, John», esclamò una voce familiare dalla porta.

«Salve, Al.»

«Entra e siediti, ragazzo mio.» Chavez, l'equivalente al rango di maggiore nel SAS, esitò davanti a quel «ragazzo mio». Tutte le volte che John lo chiamava così, stava per succedere qualcosa di insolito. Ma avrebbe potuto essere peggio. «Ragazzo» preannunciava solitamente un pericolo, e adesso che era marito e padre, Domingo non andava più troppo fuori strada a cercarsi dei guai. Si avvicinò alla scrivania di Clark e prese i fogli di carta che gli venivano tesi.

«Mosca?» chiese.

«Sembra che il nostro comandante in capo lo abbia approvato.»

«Fantastico», osservò Chavez.

«Bene, è passato un po' di tempo da quando abbiamo incontrato il signor Golovko. Suppongo che la vodka sia ancora buona.»

«E' una delle cose che fanno bene», concordò John.

«E vogliono che insegniamo loro a fare qualche altra cosa?»

«Sembrerebbe di sì.»

«Portiamo con noi le nostre mogli?»

«No.» Clark scosse il capo.

«Sono solo affari.»

«Quando?»

«Devo fare un calcolo. Probabilmente una settimana o giù di lì.»

«Abbastanza bene.»

«Come sta il ragazzino?»

Un grande sorriso. «Va ancora gattoni. La notte scorsa ha incominciato a tirarsi su, a stare in piedi, cose del genere. Immagino che inizierà a camminare entro alcuni giorni.»

«Domingo, si passa il primo anno a insegnargli a camminare e parlare. E si passano i venti anni successivi a insegnargli a stare seduti e tacere», preannunciò Clark.

«Ehi, papà, il ragazzino dorme un sonno continuo per tutta la notte, e si sveglia con un sorriso. Una visione dannatamente migliore di quanto io possa dire per me stesso, sai?»

La cosa aveva senso. Quando Domingo si svegliava, tutto ciò che si doveva aspettare dalla futura giornata erano i soliti esercizi e una corsa di cinque miglia, entrambe cose faticose e, dopo un po', noiose. Clark dovette riconoscerlo. Era uno dei grandi misteri della vita, come i bambini piccoli si svegliavano sempre di buon umore. Si chiedeva dove, nel corso degli anni, si perdeva quell'abitudine.

«Tutta la squadra?» chiese Chavez.

«Sì, probabilmente. Incluso Big Bird», aggiunse RAINBOW SIX.

«Ha ripulito le tasche anche a te, oggi?» chiese Ding.

«La prossima volta sparerò contro quel figlio di puttana, lo voglio fare giusto dopo la corsa del mattino, quando è un po' vacillante», disse Clark stizzito. Semplicemente non gli piaceva perdere in niente, e certo non in qualcosa che faceva tanto parte della sua identità come lo sparare con una pistola.

«Ettore semplicemente non è umano. Con l'MP è bravo, anche se non spettacolare, ma con quella Beretta li batte tutti.»

«Non lo credevo fino a oggi. Penso che forse avrei dovuto andare a pranzare al Green Dragon.»

«Ti capisco, John», concordò Chavez, decidendo di non fare commenti sul giro vita di suo suocero.

«Ehi, anch'io sono abbastanza bravo con la pistola, ricordatelo. Ettore mi ha superato di tre punti interi.»

«Quel bastardo mi ha vinto per un punto», disse John al suo comandante Team-2.

«La prima gara uomo contro uomo che ho perso.» E questo risaliva a trent'anni prima, quando aveva gareggiato per delle birre contro il suo istruttore capo. Aveva perso per due punti, ma aveva battuto l'istruttore capo di tre subito dopo, ricordava Clark con orgoglio.

 

 

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