«Ah», osservò Iefremov. Si trovava sulla veranda del palazzo, invece che su uno dei veicoli. Lì si stava più comodi, ed era abbastanza anziano da meritarsi e apprezzare certi comfort. C'era Suvorov/Koniev seduto sulla panchina, il giornale del pomeriggio in mano. Non c'era bisogno di stare a guardare, ma gli uomini guardavano eccome, giusto per esserne certi. Ovviamente, c'erano migliaia di panchine a Mosca, e le probabilità che l'oggetto della loro sorveglianza si sedesse sulla stessa tutte quelle volte era senza dubbio astronomica. Questo avrebbero sostenuto col giudice durante il processo... a seconda di quello che c'era nella mano destra della spia (il suo fascicolo del KGB diceva che era destrimano, e sembrava che non ci fosse alcun dubbio). Era tanto abile che si riusciva a malapena a vedere quel che faceva, ma lo faceva eccome, e lo si vedeva. La mano destra lasciò il giornale, allungò una mano dentro la giacca e tirò fuori qualcosa di metallico. La mano fece una breve pausa, mentre l'altra voltava le pagine del giornale. I volteggi della carta erano un'ottima distrazione per chiunque lo stesse osservando, dal momento che l'occhio umano è sempre attratto dal movimento. Poi la mano destra scivolò verso il basso e fissò il contenitore di metallo alla presa magnetica, e infine tornò al giornale, il tutto in un movimento fluido, portato a termine con tale velocità da apparire invisibile. Be', quasi, pensò Iefremov. Aveva già preso delle spie, prima, ben quattro, la qual cosa spiegava la sua promozione al ruolo di supervisore, e ogni singolo arresto aveva un fascino diverso, perché quella caccia e quella cattura rappresentavano il più elusivo dei giochi. E questa era stata addestrata dai russi, i più elusivi di tutti. Non ne aveva mai presa una, prima, e qui c'era l'ulteriore brivido: non catturava soltanto una spia, ma anche un traditore... e magari un traditore colpevole d'omicidio? si domandò. Quello era un altro colpo da maestro. Nella sua esperienza, lo spionaggio non era mai stato legato alla violazione di quella legge. No, un'operazione dei Servizi Segreti consisteva nello scambio d'informazioni, che era già abbastanza rischioso. L'aggiunta dell'accusa di omicidio era un ulteriore azzardo tutt'altro che pensato per compiacere una spia di professione. Faceva rumore, come dicevano loro, e il rumore era qualcosa che una spia doveva evitare almeno quanto un topo d'appartamento, e più o meno per la stessa ragione.
«Chiama Provalov», disse Iefremov al suo subordinato. Per due motivi: prima di tutto, lo doveva al tenente di polizia, che gli aveva messo davanti il caso e il loro uomo; secondo, il poliziotto avrebbe potuto essere a conoscenza di qualche informazione utile per quello sviluppo del caso. Continuarono a osservare Suvorov/Koniev per altri dieci minuti. Infine, il loro uomo si alzò e si avviò verso l'auto per tornare a casa. Durante il percorso fu adeguatamente seguito dalla squadra di sorveglianza, coi suoi veicoli che cambiavano di continuo. Dopo i quindici minuti indispensabili, uno degli uomini di Iefremov attraversò la strada e prese il contenitore dalla panchina. Di nuovo, si trattava di quello chiuso a chiave, e quella precauzione rivelò agli agenti che il contenuto doveva essere più importante del solito. Bisognava aggirare il congegno antiscasso per evitare che il contenuto venisse distrutto, ma l'FSS aveva gente molto preparata in quel campo, e la chiave di quel contenitore era già stata forgiata. La conferma arrivò venti minuti dopo, quando il contenitore venne aperto e i fogli estratti, spiegati, fotografati, ripiegati, reinseriti e infine richiusi a chiave nel contenitore, che immediatamente fu riportato sotto la panchina. Al quartier generale dell'FSS, la squadra di decrittazione trascrisse il passaggio in un computer entro cui era già stato inserito il sistema one-time pad. Da quel momento, ci vollero pochi secondi perché il computer portasse a termine una funzione non molto diversa dallo stampare un documento. Il messaggio decifrato era, comprensibilmente, in russo. Il contenuto del messaggio era un'altra questione. «Yob tvoru maht!» sussurrò il tecnico, lasciandosi andare a una delle imprecazioni più ripugnanti della sua lingua: fottiti tua madre. Poi allungò la pagina a uno dei supervisori, che ebbe una reazione un po' diversa: andò al telefono e compose il numero di Iefremov.
«Pavel Georgijevich, devi assolutamente vedere questa roba.» L'automobile è stata comprata dalla stessa concessionaria, nel centro di Mosca, diceva il foglio. Non c'è nessun errore. Entrambi gli uomini che hanno portato a termine la missione sono morti a San P. Prima di poter procedere a un altro tentativo, ho bisogno di vostre indicazioni sulla tempistica oltre che sul pagamento ai miei soci.
«Allora il bersaglio era Golovko», osservò Provalov. E il capo dei nostri Servizi Segreti deve la vita a un magnaccia.
«Così pare», convenne Iefremov.
«Nota che non chiede pagamenti per sé. Immagino che sia un po' imbarazzato, dopo aver mancato il bersaglio al primo tentativo.»
«Ma lavora per i cinesi?»
«Pare proprio di sì», osservò l'uomo dell'FSS con un brivido interiore. Perché mai, si domandò, i cinesi farebbero qualcosa del genere? Non è quasi una dichiarazione di guerra? Si appoggiò allo schienale della sedia e si accese una sigaretta, guardando negli occhi il collega della polizia. Nessuno dei due uomini sapeva cosa dire in quel momento, e nessuno dei due fiatò. Ben presto tutto sarebbe passato in altre mani, al di là della loro portata. Una volta stabilito quello, tutti e due si avviarono verso casa per la cena.