«Allora, che hanno risposto?» chiese Cathy Ryan.

«Di ficcarcelo in quel posto.»

«Sul serio?»

«Aha», rispose Jack, spegnendo l'interruttore. I cinesi credevano di essere invincibili. Forse è un pensiero che ti fa sentire bene, ma che è molto, molto pericoloso.

La 265a Divisione fucilieri motorizzati era composta di tre reggimenti di soldati di leva, russi che non avevano scelto di evitare il servizio militare, il che li aveva resi patriottici, o stupidi, o apatici, o sufficientemente annoiati della vita che la prospettiva di due anni in uniforme, malnutriti e malpagati, non era sembrata un grosso sacrificio. Ciascun reggimento contava millecinquecento uomini, sottorganico di circa cinquecento. La notizia positiva era che ciascun reggimento era affiancato in organico da un battaglione corazzato e questo equipaggiamento era se non nuovo almeno di recente fabbricazione e in condizioni ragionevolmente buone. La divisione era priva di un reggimento corazzato organico, che come tutti sanno è la punta di diamante di ogni divisione motorizzata. Mancava anche il battaglione anticarro, con i suoi cannoni anticarro Rapier.

Pur essendo obsolete, erano armi che piacevano molto a Bondarenko perché le aveva apprezzate quando era ufficiale cadetto, quasi quarant'anni prima. Il nuovo modello di BMP per il trasporto della fanteria era stato modificato per il missile anticarro AT-6, quello che alla NATO chiamavano «Spiral», in realtà una versione russa del Milan adottato dalla NATO, in onore a una spia del KGB degli anni Ottanta. I russi lo chiamavano «martello» per la sua semplicità d'uso, nonostante la testata relativamente poco potente. Ogni BMP ne aveva in dotazione dieci, compensando egregiamente al battaglione in difetto. Ma il motivo di grande preoccupazione di Bondarenko e Alijev era la scarsità di artiglieria. Da sempre fiore all'occhiello dell'esercito russo, l'artiglieria era stata praticamente dimezzata nelle manovre in Estremo Oriente, in cui dei battaglioni prendevano il posto di reggimenti. La ragione era dovuta alla linea di difesa fissa sul confine cinese, ben munita di posizioni e fortini con artiglieria, che, per quanto di non recentissima concezione, erano dotati di soldati addestrati e di una massiccia quantità di munizioni da far affluire nei momenti critici. All'interno dell'auto di Stato maggiore, il generale aveva lo sguardo incupito. Questo era quanto aveva ottenuto per le sue capacità e il suo dinamismo. In un distretto militare adeguatamente preparato ed esercitato non c'era posto per uno come lui, o almeno così sembrava. No, l'avevano relegato in questo buco del culo del mondo. Per una volta pensò, per una volta, soltanto non potrebbero ricompensare i meriti di una carriera, invece di assegnarlo a un'altra «sfida», come la definivano? Sbottò tra sé e sé. Non in questa vita. I distretti più tranquilli e senza problemi erano in mano agli idioti e agli ottusi, oltre a tutto con un sacco di equipaggiamento a disposizione. La sua maggiore preoccupazione era la situazione dell'aviazione. Tra le forze armate russe l'aviazione era quella che più aveva sofferto per la caduta dell'Unione Sovietica. Un tempo, il quadrante dell'Estremo Oriente aveva le proprie flotte di caccia tattici, pronti a contrastare qualsiasi minaccia che provenisse dalla flotta aerea americana di stanza in Giappone o dalle portaerei della flotta del Pacifico, oltre agli stormi destinati a fronteggiare i cinesi. Sparito tutto. Ora aveva a disposizione sì e no cinquanta apparecchi e i piloti avevano forse accumulato qualcosa come settanta ore volo l'anno, il minimo indispensabile per consentire dei decolli e atterraggi in sicurezza. Cinquanta velivoli classe caccia, adatti al combattimento aria-aria, non aria-terra. Altre centinaia stavano marcendo nelle basi a terra, al riparo di hangar, con i pneumatici dei carrelli sgonfi e i sigilli interni spezzati per l'inutilizzo, vista la cronica penuria di parti di ricambio che aveva bloccato a terra quasi tutta l'aviazione russa. «Sai, Andrej, ricordo ancora quando il mondo intero tremava di fronte al nostro esercito. Ora tremano, ma dal ridere, quelli che almeno si ricordano che esistiamo.» Bondarenko mandò giù un sorso di vodka dalla sua bottiglietta. Da tempo non beveva in servizio, ma faceva freddo, il riscaldamento dell'auto era fuori uso, e aveva bisogno di scaldarsi. «Gennadij Iosifovic, la situazione non è poi così grigia come sembra...» «Non sono d'accordo! nerissima!» ringhiò il comandante supremo per l'Estremo Oriente. «Se i musi gialli avanzeranno verso nord, dovrò imparare a mangiare con i bastoncini. Mi sono sempre chiesto come facciano», aggiunse con un sorriso tirato. Bondarenko era uno che vedeva sempre il lato ironico delle cose. «Ma noi per gli altri siamo una potenza. Abbiamo migliaia di carri, compagno generale.» Vero. Avevano ispezionato per tutta la mattinata gli hangar mostruosamente grandi dove giacevano ammassati, tra le altre cose, dei carri T-34ì85 fabbricati a Chelyabinsk nel 1946. Alcuni non avevano sparato neppure un colpo: nuovi di zecca. I tedeschi se l'erano fatta sotto quando avevano visto questi bestioni comparire all'orizzonte, ma questi erano dei carri armati della Seconda guerra mondiale, oltre novecento, tre divisioni complete. E c'erano anche le truppe per mantenerli in servizio. I motori giravano ancora, messi a punto alla perfezione dai pronipoti dei soldati che li avevano usati in operazioni contro i fascisti. Negli stessi hangar c'erano munizioni a sufficienza per l'artiglieria da 85 mm, alcune risalenti ad appena il 1986. Il mondo era in preda alla pazzia e certo l'Unione Sovietica aveva commesso la più grande pazzia innanzitutto a conservare queste anticaglie e in secondo luogo a spendere soldi e tempo per mantenerli in efficienza. Ancor oggi, a più di dieci anni della dissoluzione dello stato-nazione, la semplice forza d'inerzia della burocrazia mandava militari di leva in questi hangar per mantenere in ordine questa collezione d'antiquariato. Ma a quale scopo? Tutti lo ignoravano. Ci sarebbe voluto un archivista per compiere delle ricerche bibliografiche e se forse questo avrebbe interessato uno storico con un piglio umoristico, Bondarenko aveva di meglio da fare. «Andrej, apprezzo la tua prontezza nel cogliere sempre l'aspetto positivo di ogni situazione, ma qui dobbiamo fare i conti con la dura realtà.» «Compagno generale, ci vorranno mesi per ottenere tutti i permessi per porre fine a questa operazione.» «Probabilmente hai ragione, Andruska. Mi ricordo un aneddoto su Napoleone. Era suo desiderio che si piantassero degli alberi a fianco delle strade francesi per far ombra alle sue truppe in marcia. Un ufficiale del suo Stato maggiore obiettò dicendo: "Maresciallo, ci vorranno almeno vent'anni prima che crescano gli alberi". Al che Napoleone gli rispose: "Verissimo, quindi diamoci da fare subito!" Quindi, colonnello, ci daremo da fare subito.» «Come vuole, compagno generale.» Il colonnello Alijev sapeva che era un'idea azzeccata. L'unico suo dubbio era se c'era abbastanza tempo per attuare tutte le buone idee. Inoltre, il morale delle truppe di stanza nei depositi era buono. Alcuni soldati tiravano anche fuori questi carri per giocarci, fargli fare dei test di guida, fino a sparare qualche colpo. Un giovane sergente gli aveva riferito che gli piaceva usarli, perché si sentiva come nei film di guerra che aveva visto da piccolo. Cosa non doveva sentirsi dire da un soldato, pensò il colonnello Alijev, che era meglio che al cinema! Cazzo.

 

La mossa del Drago
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