1.ECHI DELL’ESPLOSIONE
«Allora, chi erano i suoi nemici?» chiese il tenente colonnello Sablikov.
«Gregorij Filipovic ne aveva molti. Non era uno che misurasse le parole. Ha insultato troppa gente e...»
«Nient'altro?» lo interruppe Sablikov.
«Certo non è saltato in aria per avere offeso i sentimenti di qualche criminale!»
«Stava pensando di lanciarsi nel traffico di droga», fu la risposta dell'informatore.
«Davvero? Vai avanti.»
«Grisha aveva contatti con i colombiani. Li aveva incontrati in Svizzera tre mesi fa e si stava dando da fare per una spedizione di cocaina che sarebbe transitata dal porto di Odessa. Ho sentito dire che stava organizzando una rete per farla arrivare da lì a Mosca.»
«E come l'avrebbe pagata?» chiese il colonnello della milizia. Non era una novità che la moneta russa non avesse praticamente alcun valore.
«Con valuta forte. Grisha guadagnava parecchio con i suoi clienti occidentali, e anche con certi russi. Sapeva come rendere felice la gente, a un certo prezzo.» Rasputin, pensò il colonnello. Non c'era dubbio che fosse stato un corrotto. Vendere i corpi delle ragazze russe... e anche di qualche ragazzo (Sablikov lo sapeva per certo), guadagnandoci tanto da comprarsi una grossa macchina tedesca (in contanti: i suoi avevano già verificato la transazione) e poi progettare d'importare droga. Anche in quel caso avrebbe dovuto pagare in contanti, il che significava che meditava di vendere anche la droga in cambio di valuta forte, dato che con ogni probabilità i colombiani non nutrivano grande interesse per il rublo. Il paese non avrebbe pianto la scomparsa di Avsienko. Chiunque lo avesse ucciso meritava una ricompensa... anche se certamente sarebbe arrivato qualcun altro a prendere il posto del magnaccia e tirare le redini dell'organizzazione... e chissà, forse il nuovo sarebbe stato ancora più in gamba del primo. Era questo il problema con i criminali. C'era in corso una sorta di processo evolutivo: la polizia ne incastrava qualcuno, a volte anche molti, ma beccava solo i più ottusi, mentre quelli in gamba diventavano sempre più scaltri, e l'impressione era che la polizia faticasse a tenere il passo, perché ad avere l'iniziativa erano sempre quelli che infrangevano le leggi.
«Ah, sì, e chi altro importa droga?»
«Non lo so. Ho sentito delle voci, naturalmente, e conosco alcuni degli spacciatori di strada, ma non so chi sia l'organizzatore.»
«Scoprilo», ordinò in tono gelido Sablikov.
«Non dovrebbe essere un compito superiore alle tue capacità.»
«Farò quello che posso», promise l'altro.
«E fallo in fretta, Pavel Petrovic. E scopri anche chi sta per prendere il posto di Rasputin.»
«Sì, compagno Polkovnik Leytnant.» Un cenno del capo, come sempre, indicava l'inferiorità dell'uomo. Essere un poliziotto di grado elevato implicava un certo potere, pensò Sablikov. Potere vero, da esercitare sugli altri, e quindi piuttosto gradevole. In questo caso, aveva ordinato a un criminale di medio livello ciò che doveva fare, e sarebbe stato fatto; l'informatore aveva troppa paura di essere arrestato e perdere così un'interessante fonte di introiti, oltre alla protezione della polizia. Finché non si allontanava troppo da quelle che il poliziotto riteneva violazioni accettabili, era al sicuro. Era così più o meno in tutto il mondo, il tenente colonnello Yefim Konstantinovic Sablikov della polizia moscovita ne era certo: in che altro modo la polizia avrebbe potuto raccogliere le informazioni di cui aveva bisogno sul conto di persone che deviavano un po' troppo dalla retta via? In tutto il mondo non c'era dipartimento di polizia che avesse il tempo di indagare su tutto, e utilizzare criminali contro i criminali era il mezzo più semplice e meno costoso di reperire nuove informazioni. La sola cosa da ricordare era che gli informatori erano criminali, e di conseguenza inaffidabili per molti aspetti, troppo inclini alla menzogna, all'esagerazione e all'invenzione di ciò che ritenevano si volesse ascoltare da loro. Ecco perché Sablikov vagliava sempre attentamente le soffiate.
Da parte sua, anche Pavel Petrovic Klusov nutriva dubbi, inevitabili dato che aveva a che fare con quel colonnello corrotto. Sablikov non era un ex KGB, ma un poliziotto «di carriera», dunque non tanto in gamba quanto pensava e più incline alla corruzione e alla conclusione di accordi informali con coloro che perseguiva. Probabilmente era grazie a queste abitudini che era arrivato a ricoprire un grado così elevato: sapeva come ottenere informazioni utili venendo a patti con persone simili a lui, pensava Klusov. L'informatore si chiedeva se il colonnello avesse un conto segreto da qualche parte. Sarebbe stato interessante scoprire dove viveva, qual era la sua auto privata o come guidava sua moglie. Ma avrebbe fatto ciò che gli era stato detto, perché sotto la protezione di Sablikov le sue attività «commerciali» prosperavano, e quella sera avrebbe bevuto qualcosa con Irina Aganovna, forse se la sarebbe portata a letto e magari avrebbe scoperto quanto Avsienko veniva pianto dalle sue ex impiegate...
«Sì, compagno Polkovnik Leytnant», concordò Klusov. «Sarà come dice lei. Cercherò di riferirle qualcosa domani stesso.»
«Non cercare. Fallo e basta, Pasha», ribatté Sablikov con il tono del maestro di scuola che si rivolge a uno scolaro pigro.
«E’ già in corso», disse Zhang al suo premier.
«Spero che questa volta andrà meglio delle altre due», replicò secco l'altro. I rischi connessi a quell'operazione erano enormi. Nelle due volte precedenti, con il Giappone che tentava di modificare in modo drastico la situazione nella zona del Pacifico e il tentativo iraniano di creare una nuova nazione dalle ceneri dell'Unione Sovietica, la Repubblica Popolare Cinese non aveva fatto alcunché... se non un po' di opera di incoraggiamento da dietro le quinte. Questa volta, tuttavia, era diverso. Che diavolo, non ci si può aspettare grandi cose lavorando in economia, giusto?
«Sono... siamo stati sfortunati.»
«Forse.» Un cenno casuale mentre spostava le carte sulla scrivania. Zhang Han San si irrigidì. Il premier della Repubblica Popolare era noto per il suo distacco, ma aveva sempre accolto il suo ministro senza portafoglio con un certo calore. Zhang era uno dei pochi di cui il premier seguisse abitualmente i consigli, e così era andata anche quel giorno, ma senza alcuna visibile partecipazione emotiva. «Non abbiamo svelato nulla e non abbiamo perso nulla», riprese Zhang. L'altro non alzò la testa. «Se non che adesso c'è un ambasciatore americano a Taipei.» Si riferivano a un trattato di difesa reciproca il cui solo scopo era piazzare la marina americana tra i due paesi, con visite regolari al porto, forse addirittura una base permanente (da costruire, quasi certamente, con il denaro di Taiwan), e il cui solo scopo, avrebbero affermato gli americani, era quello di sostituire Subic Bay, nelle Filippine. L'economia di Taiwan era esplosa dopo il rinnovo del suo riconoscimento da parte degli Stati Uniti, con un afflusso di nuovi capitali esteri provenienti da tutto il mondo. Gran parte di quel denaro avrebbe dovuto... doveva andare alla Repubblica Popolare, non fosse stato per il mutamento della decisione americana. Ma il presidente Ryan aveva deciso autonomamente, almeno così sostenevano i servizi informativi, andando contro l'opinione politica e diplomatica di Washington... benché si dicesse che il segretario di Stato americano, quell'Adler, avesse appoggiato la sciocca decisione del presidente. La temperatura sanguigna di Zhang calò ancora di qualche grado. Entrambi i suoi piani erano andati più o meno com'era previsto, non era forse così? In nessuno dei due casi il suo paese aveva rischiato. Oh, sì, l'ultima volta avevano perso qualche caccia, ma dopo tutto capitava in continuazione che quei velivoli si schiantassero al suolo. Soprattutto nel caso di Taiwan, la Repubblica Popolare aveva agito in modo responsabile, permettendo al segretario Adler di fare la spola tra Pechino e la sua indocile provincia al di là dello Stretto di Formosa, quasi a concedere loro la legittimità, cosa che naturalmente la Repubblica Popolare non era affatto intenzionata a fare: era piuttosto un modo per aiutare l'americano nel suo compito di pacificatore, così da apparire più ragionevole agli Stati Uniti. Ma allora, perché Ryan aveva agito a quel modo? Aveva forse intuito il piano di Zhang? Possibile, ma più probabilmente da qualche parte c'era stata una fuga di notizie, un informatore, una spia, vicinissima ai vertici della Repubblica Popolare. Il controspionaggio stava vagliando proprio questa possibilità. Erano pochi quelli che sapevano ciò che la sua mente e il suo ufficio avevano elaborato, e quei pochi sarebbero stati interrogati, mentre i tecnici avrebbero controllato le sue linee telefoniche e anche i muri del suo ufficio. Possibile che lui, Zhang, fosse in errore? Certamente no. Anche se il primo ministro la pensava così... Zhang passò poi a considerare la sua posizione nel Politburo. Non era del tutto soddisfatto. Erano ancora troppi quelli che lo consideravano un avventuriero che aveva accesso all'orecchio sbagliato. Si trattava di una malignità gratuita, dato che sarebbero stati ben felici di raccogliere i frutti della sua politica, e appena un po' meno felici di fargli il vuoto intorno se le cose si fossero messe male. Ma che diavolo, questi erano rischi inevitabili quando si raggiungeva una posizione così importante in un paese come il suo.
«Anche se volessimo schiacciare Taiwan, a meno di non ricorrere alle armi nucleari, ci vorrebbero anni e chissà quanto denaro per produrre i mezzi necessari, e comunque significherebbe rischiare grosso per guadagnare poco. Molto meglio che la Repubblica Popolare diventi economicamente tanto potente da indurli a supplicarci di rientrare in famiglia. Non sono nemici pericolosi, dopo tutto. Non si può che considerarli un fastidio da poco sulla scena mondiale.»
Ma erano un fastidio per il suo primo ministro, rammentò a se stesso Zhang, una sorta di spiacevole allergia che faceva prudere la sua pelle sensibile.
«Abbiamo perso la faccia, Zhang. Per il momento direi che è sufficiente.»
«La faccia non è il sangue, Xu, né il denaro.»
«Di denaro ne hanno a sufficienza», replicò il premier ancora senza guardarlo. Ed era vero: la piccola isola di Taiwan era divenuta immensamente ricca grazie agli sforzi della sua popolazione prevalentemente cinese, che commerciava praticamente in tutto quasi ovunque, e il nuovo riconoscimento diplomatico da parte dell'America aveva accresciuto sia la sua prosperità commerciale sia il suo ruolo a livello mondiale. Per quanto si sforzasse, Zhang non sarebbe riuscito a minimizzare queste due circostanze. Che cosa è andato storto? si chiese ancora una volta. Forse che i suoi piani non erano all'altezza? No, non era questo. Forse il fatto che il suo paese aveva apertamente minacciato la Siberia? Naturalmente no. Magari gli alti gradi dell'esercito popolare di liberazione erano al corrente dei suoi piani? Be', sì, dovette riconoscere, qualcuno ne era a conoscenza, ma solo soggetti fidati della direzione operativa, più una manciata di alti ufficiali... quelli che avrebbero dovuto mettere in esecuzione il piano al momento opportuno. Ma gente di quella razza sapeva come conservare i segreti, e se avessero parlato con qualcuno... ma non lo avrebbero fatto, perché sapevano che cosa accade a chi parla di ciò che è meglio tacere in un ambiente come il loro, e sapevano che al loro livello anche i muri hanno orecchie. Non avevano neppure commentato le bozze dei piani, limitandosi a effettuare le consuete modifiche di natura tecnica, come gli alti ufficiali sono sempre inclini a fare. Certo, forse qualche impiegato era in grado di esaminare i piani, ma anche questa possibilità era alquanto remota. La sicurezza, all'interno dell'esercito di liberazione, era eccellente. I soldati, dalle reclute ai generali, non avevano più libertà di quanta ne avesse una macchina imbullonata al pavimento di una fabbrica, e quando arrivavano ai gradi più alti aveva ormai dimenticato come si fa a pensare in maniera autonoma, se non forse per qualche questione tecnica, come ad esempio il tipo di ponte da costruire su un particolare fiume. No, per Zhang avrebbero potuto essere tutte macchine, degni quanto queste di fiducia. E, tornando alla domanda principale, perché quel Ryan aveva ristabilito i rapporti con la «Repubblica Cinese»? Aveva forse intuito qualcosa delle iniziative giapponesi e iraniane?
L'«incidente» dell'aereo di linea era certamente apparso come tale, e successivamente la Repubblica Popolare aveva invitato la marina americana a «trasferirsi nella zona al fine di mantenere la pace», così si erano espressi, come se la pace fosse qualcosa da infilare in una cassetta di ferro per poi montarle la guardia. In realtà, era vero esattamente l'opposto: la guerra era l'animale che si teneva in gabbia per lasciarlo libero al momento opportuno. Possibile che il presidente Ryan avesse intuito l'intenzione della Repubblica Popolare Cinese di dare il via allo smembramento dell'ex Unione Sovietica e avesse quindi deciso di punire la Repubblica Popolare riconoscendo quei rinnegati di Taiwan? Era possibile, certo. Qualcuno giudicava Ryan un individuo insolitamente perspicace per essere un politico americano e, dopo tutto, aveva fatto parte dei Servizi Segreti, e probabilmente era anche in gamba, rammentò Zhang a se stesso. Sottovalutare un avversario era un errore grave, come giapponesi e iraniani avevano imparato a proprie spese. Quel Ryan aveva agito con perizia, e tuttavia non aveva mostrato il minimo scontento nei confronti della Repubblica Popolare Cinese. Non c'erano state esercitazioni militari rivolte, anche solo indirettamente, alla Repubblica Popolare; nessuna fuga di notizie sui media americani, e gli uomini del servizio segreto russo che operavano fuori dell'ambasciata di Washington non avevano scoperto nulla. Così, ecco che Zhang si ritrovava al punto di partenza: perché Ryan aveva intrapreso quell'azione? La verità era che non lo sapeva, e l'ignoranza era sempre un grande fastidio per un uomo nella sua posizione. Presto il suo premier gli avrebbe rivolto una domanda a cui lui non avrebbe potuto evitare di rispondere. Ma per il momento, il capo del governo stava armeggiando con le sue carte sulla scrivania, per fargli capire che lui, il primo ministro, era scontento, ma che per ora non avrebbe espresso in alcun modo le proprie emozioni. Dieci metri più in là, dietro una massiccia porta di legno, Lian Ming era alle prese con i propri sentimenti. La sedia su cui sedeva era costosa, acquistata in Giappone a una cifra che equivaleva... a quanti stipendi di un operaio specializzato? Quattro, forse cinque? Certo più della nuova bicicletta che le avrebbe fatto comodo. Laureata in lingue moderne, Lian Ming parlava inglese e francese abbastanza bene da farsi capire in tutte le città del mondo, e come risultato si era trovata a gestire tutti i documenti diplomatici e informativi per il suo capo, le cui capacità linguistiche erano considerevolmente inferiori. La sedia era il simbolo della sollecitudine che il capo voleva dimostrarle per il modo in cui organizzava il suo lavoro e la sua giornata. E anche di qualcos'altro.
2. LA DEA MORTA
E’ qui che tutto è successo, pensava Chester Nomuri. La vasta distesa di piazza Tienanmen, la «piazza della Pace Celeste» con i suoi muri massicci a destra, era come... realizzò che non c'era nulla a cui si potesse paragonarla. Se al mondo c'era un altro posto come quello, lui non c'era mai stato e non ne aveva mai sentito parlare. Lì, anche le pietre del selciato sembravano grondare sangue, se ne poteva quasi sentire l'odore, benché fossero trascorsi dieci anni da quando studenti non molto più giovani di quanto fosse lui stesso a quel tempo in California, vi si erano radunati per protestare contro il governo. Di fatto, non manifestavano tanto contro il governo quanto contro la corruzione che vi regnava ai livelli più alti e, prevedibilmente, una tale iniziativa era risultata estremamente offensiva per i corrotti. Che diamine, era così che andavano le cose, di solito: in Oriente o in Occidente, su certi potenti si poteva richiamare l'attenzione solo nel modo più discreto e comunque farlo in Cina era certamente più pericoloso che altrove, per via della sua lunga storia di atroci brutalità. Lì c'era una sorta di aspettativa di violenza... ...ma la prima volta che si era tentato di esercitare la forza in quella piazza, i soldati che avrebbero dovuto occuparsene si erano mostrati recalcitranti, e questo doveva aver provocato un serio allarme nei lussuosi uffici delle alte sfere, perché quando pezzi dello Stato rifiutano di fare ciò viene loro ordinato, comincia qualcosa che risponde al nome di «rivoluzione» (e lì una rivoluzione c'era già stata e veniva gelosamente custodita). E così, le prime truppe erano state richiamate e sostituite con altre arrivate chissà da dove, soldati giovani (tutti i soldati sono giovani, rammentò Nomuri a se stesso). Loro non erano ancora stati contaminati dalle parole e dai pensieri di quei coetanei che dimostravano in piazza, non avevano avuto tempo di simpatizzare per loro, né erano ancora pronti a chiedere a se stessi perché il governo che li aveva muniti di armi e uniformi volesse disperdere quelle persone anziché ascoltare ciò che avevano da dire, e alla fine avevano agito come gli automi che erano stati addestrati a essere. A pochi metri di distanza, sfilavano i soldati dell'esercito di liberazione popolare, con quello strano aspetto di bambole di cera, sorprendentemente poco simili a uomini veri nell'uniforme di lana verde, quasi come se si truccassero, pensò Chester. Avrebbe voluto guardarli più da vicino per assicurarsi che fossero reali, ma poi scrollò la testa. Non era volato in Cina per questo. Inventare quell'incarico per conto della Nippon Electric Company era già stato abbastanza difficile. Non era piacevole svolgere due lavori contemporaneamente, quello di dirigente medio-alto della Nippon e quello di agente sul campo per la CIA. Per riuscire nel secondo, doveva riuscire anche nel primo, e per questo doveva vestire i panni dello stipendiato giapponese, che mette l'interesse per la sua società prima di ogni altra cosa. Be', quanto meno avrebbe riscosso due stipendi, e quello giapponese non era niente male. Non al cambio attuale. Nomuri pensava che quel nuovo progetto fosse un segno di grande fiducia verso le sue capacità aveva creato una rete modestamente produttiva di agenti giapponesi che riferivano ad altri agenti della CIA ma anche un indice di disperazione. L'agenzia aveva fallito tutti i tentativi di allestire una rete spionistica nella Repubblica Popolare Cinese. Non era riuscita a reclutare molti cino-americani e uno dei pochi che aveva trovato si trovava ora in un carcere federale, dopo essere stato protagonista di una complessa questione riguardante la lealtà. Era un fatto che a certe agenzie federali era permesso essere razziste, e oggigiorno l'etnicità cinese risultava altamente sospetta presso il quartier generale della CIA. Be', non c'era nulla che lui potesse fare in proposito... né poteva fingere di essere cinese, questo lo sapeva bene. Per certi europei miopi e razzisti, quelli con gli occhi a mandorla erano tutti uguali, ma lì a Pechino, Nomuri, i cui antenati erano al cento per cento giapponesi (fatta eccezione per il ramo interamente sud-californiano) sapeva di spiccare tra la gente non meno di Michael Jordan. Non era qualcosa che facesse sentire a proprio agio un ufficiale dei Servizi Segreti privo di copertura diplomatica, soprattutto considerato che il Ministero della Sicurezza di Stato cinese era attivo e adeguatamente supportato.
L'MSS era tanto potente in quella città quanto lo era stato il KGB sovietico a Mosca, e probabilmente era altrettanto spietato. La Cina, pensò ancora Nomuri, aveva torturato criminali e altri soggetti poco graditi per migliaia di anni... e la sua etnicità non gli sarebbe stata di alcun aiuto. I cinesi trattavano affari con i giapponesi perché era conveniente «necessario» era forse il termine più adeguato ma tra i due paesi non c'era amore. Nella Seconda guerra mondiale il Giappone aveva ucciso più cinesi di quanti ebrei avesse ucciso Hitler8, circostanza poco nota nel mondo, tranne naturalmente che lì, in Cina, e questo non faceva che accrescere l'intolleranza etnico-raziale che risaliva all'epoca di Kublai Khan9. Lui era diventato bravo ad adattarsi all'ambiente. Si era arruolato nella CIA per servire il suo paese e anche per divertirsi un po', o così aveva pensato all'epoca. Col tempo, tuttavia, aveva imparato che razza di faccenda mortalmente seria fosse il lavoro sul campo, per non parlare della necessità di finire in posti dove non avrebbe dovuto essere, per ottenere informazioni che non avrebbe dovuto avere, e quindi riferirle a persone che non avrebbero dovuto esserne messe al corrente. Non era tanto l'idea del servizio al suo paese che impediva a Nomuri di lasciare la CIA. C'era anche l'eccitazione, il piacere di conoscere cose che gli altri ignoravano, di sconfiggere gli avversari nel loro stesso gioco, sul loro medesimo campo. Ma se in Giappone lui era come tutti gli altri, così non era a Pechino. Sapeva di essere qualche centimetro più alto del cinese medio, grazie alla dieta della sua infanzia e alle razioni americane, e di portare meglio gli abiti di stile occidentale. Ma quanto ai vestiti, li poteva cambiare. La sua faccia no. Tanto per cominciare, avrebbe dovuto farsi tagliare i capelli così che, almeno da dietro, sarebbe apparso uguale agli altri e gli sarebbe stato più facile seminare i segugi che il Ministero della Sicurezza di Stato gli metteva alle calcagna. Aveva a disposizione un'auto, pagata dalla Nippon, ma avrebbe avuto anche una bicicletta, una di fabbricazione cinese, non europea. Se qualcuno gli avesse chiesto spiegazioni, avrebbe risposto che era per fare esercizio fisico... e dopo tutto non era una bicicletta perfettamente socialista? Ma queste domande sarebbero state poste, e la sua presenza sarebbe stata notata, e in Giappone, realizzò Nomuri, la gestione dei suoi agenti era più comoda e sicura. Lì sapeva di poter sparire in un posto intimo come un bagno turco e parlare di donne, sport e molte altre cose, ma raramente di affari. In Giappone, le operazioni d'affari erano sempre segrete, a un livello o a un altro, e perfino con gli amici più intimi con cui discuteva dei difetti delle rispettive mogli, un dipendente giapponese non avrebbe mai discusso all'aperto e in pubblico di ciò che accadeva in ufficio. E questo era ottimo per la sicurezza, non era così?
Mentre si guardava intorno come un qualsiasi turista, Nomuri si chiedeva come avrebbe dovuto comportarsi lì in Cina, ma più di ogni altra cosa notò gli sguardi che si posavano su di lui mentre attraversava l'immensa piazza. Com'era quando era stata invasa dai carri armati? Si fermò un istante a ricordare... era successo proprio lì, no? Il ragazzo con la ventiquattrore e la borsa della spesa che aveva tenuto in scacco l'intera batteria di carri armati, perché neppure il soldato semplice al suo posto di guida su 80 PRC aveva avuto il coraggio di investirlo, qualunque cosa il suo superiore gli urlasse di fare negli auricolari. Sì, era successo proprio lì. Più tardi, naturalmente, più o meno una settimana dopo, il ragazzo con la ventiquattrore era stato arrestato dal Ministero della Sicurezza di Stato, o così avevano riferito le fonti della CIA, ed era stato portato via e interrogato per fargli sputare che cosa lo avesse persuaso a prendere una posizione politica così sciocca contro il governo e le forze armate del suo paese. La faccenda probabilmente era durata un po', pensò l'agente della CIA, fermo nel punto in cui un solo uomo coraggioso aveva preso posizione, perché chi lo interrogava di certo non aveva creduto che si trattasse dell'azione di un singolo (l'iniziativa privata non era incoraggiata nei regimi comunisti ed era di conseguenza del tutto sconosciuta a chi imponeva la volontà dello Stato su coloro che le norme di quello Stato avevano violato). Chiunque fosse stato, il ragazzo con la ventiquattrore ormai era morto... le loro fonti ne erano più che certe. Un funzionario del Ministero della Sicurezza di Stato aveva commentato la faccenda con aperta soddisfazione davanti a qualcuno le cui orecchie erano remotamente collegate all'America. Si era preso un proiettile alla nuca e la sua famiglia (una moglie e un bambino piccolo, credeva la fonte) aveva dovuto pagare il proiettile servito per giustiziare il marito-padre-controrivoluzionario-nemico dello Stato in questione. Questa era la giustizia della Repubblica Popolare Cinese. E a dispetto di tutto questo, com'è che chiamavano gli stranieri? Barbari. Già, pensò ancora Nomuri, sicuro, Wilbur. L'ossessione di essere al centro del mondo lì era viva come lo era stata nella Ku Damm della Berlino di Hitler. Il razzismo era uguale ovunque. Quella era l'unica lezione che il suo paese avesse insegnato al mondo, pensò Chester Nomuri, anche se l'America quella lezione doveva ancora recepirla.
Era una puttana, e anche costosa, pensò Mike Reilly seduto dietro allo specchio unidirezionale. Si era fatta tingere i capelli di biondo da qualche costoso parrucchiere moscovita (avrebbe dovuto tornarci, c'era un accenno di ricrescita alle radici), ma quel colore ben si armonizzava con gli zigomi e gli occhi, di una tonalità di azzurro che lui non aveva mai visto prima. Forse era per quegli occhi che i suoi clienti tornavano a cercarla, pensò ancora, non certo per l'espressione. Il corpo della ragazza avrebbe potuto essere una delle dee scolpite da Fidia10: curve generose, gambe troppo snelle per i gusti russi, ma che avrebbero funzionato magnificamente all'angolo tra Hollywood e Vine, ammesso che quello fosse ancora il quartiere giusto in cui farsi notare... Ma l'espressione di quegli stupendi occhi azzurri avrebbe bloccato il cuore di un maratoneta. Quale aspetto della prostituzione faceva quell'effetto sulle donne che la esercitavano? Reilly scosse la testa. Non gli era capitato spesso di lavorare con quella particolare categoria di crimini sarebbe stata considerata quasi una violazione dai poliziotti locali e non era mai arrivato a capire chi la praticava. Lo sguardo di lei faceva paura. Solo gli uomini avevano il diritto di essere predatori, almeno così la pensava la maggior parte di loro, ma quella donna smantellava alla radice quel luogo comune.
Si chiamava Tanja Bogdanova e aveva, così almeno sosteneva, ventitré anni. Aveva il viso di un angelo e il corpo di una stella del cinema. Era del cuore e dell'anima che l'agente dell'FBI non era sicuro. Forse la sua testa funzionava in un modo diverso, com'era per la maggior parte dei criminali di professione. Forse era stata violentata da bambina. Ma a giudicare dai suoi occhi, nonostante i ventitré anni, quell'infanzia era una cosa molto lontana nel tempo. Reilly abbassò gli occhi sul fascicolo proveniente dal quartier generale della milizia. Di lei c'era una foto soltanto, in bianco e nero, che la raffigurava in compagnia di un cliente... e nella foto il suo viso era animato, splendente di giovinezza e affascinante com'era stato quello della giovane Ingrid Bergman in Casablanca. Tanja sapeva recitare, pensò Reilly. Se la vera Tanja era quella che aveva lui di fronte in quel momento, e probabilmente era proprio così, allora quella della foto era un'invenzione, un ruolo da interpretare, un'illusione illusione magnifica, questo era certo, ma pericolosa per chiunque ci avesse creduto. La ragazza dall'altra parte dello specchio non avrebbe esitato a cavare via gli occhi di un uomo con la sua limetta per le unghie e a mangiarli crudi prima di andare al suo appuntamento successivo al nuovo Four Season Hotel & Convention Center di Mosca.
«Chi erano i suoi nemici, Tanja?» chiese l'uomo della milizia nella sala interrogatori.
«Chi erano i suoi amici?» replicò lei con aria annoiata. «Non ne aveva. Di nemici invece ne aveva parecchi.» Si esprimeva con proprietà, in modo quasi raffinato e con ogni probabilità il suo inglese era altrettanto buono. Be', di certo ne aveva bisogno per i suoi clienti... probabilmente valeva qualche dollaro, marco, sterlina o euro in più, una qualunque valuta forte che per intascare lei era disposta a fare uno sconto, senza dubbio sorridendo in modo civettuolo quando lo spiegava al cliente di turno. Prima o dopo? si domandò Reilly. Non aveva mai pagato il sesso benché, guardando Tanja, capisse perché certi uomini lo facevano...
«Quanto chiede?» mormorò a Provalov.
«Più di quanto io possa permettermi», grugnì il tenente dell'investigativa. «Intorno a seicento euro, forse di più per un'intera serata. Stranamente, da un punto di vista sanitario è a posto. Nella sua borsa c'è una bella collezione di preservativi, di marca americana, francese e giapponese.»
«Da dove viene? Faceva la ballerina o che cosa?» chiese ancora l'agente dell'FBI, commentando implicitamente la grazia della ragazza. Provalov sembrava divertito.
«No, ha le tette troppo grandi ed è troppo alta. Peserà sui cinquantacinque chili o giù di lì. Troppo perché una di quelle checche del Bolscioi11 possa sollevarla tra le braccia. Avrebbe potuto fare la modella per la nostra industria della moda, ma no, ora che ci penso viene da un ambiente del tutto normale. Il padre, morto, faceva l'operaio e sua madre, morta anch'essa, lavorava in uno dei nostri negozi riservati agli stranieri. Sono morti entrambi perché bevevano troppo. La nostra Tanja, invece, beve con moderazione. Scuola statale, profitto assolutamente nella media. Niente fratelli, è sola al mondo... e lo è già da un pezzo. Ha lavorato per Rasputin per quasi quattro anni. Dubito che la Sparrow School abbia mai prodotto una puttana più raffinata. Lo stesso Gregorij Filipovic la usava spesso, per fare sesso o semplicemente per farsi accompagnare in giro, e di sicuro lei è un gran bel vedere, non ti pare? Qualunque affetto lui nutrisse per lei, come vedi non era reciproco.»
«Non c'è nessuno che le sia in qualche modo vicino?»
Provalov scosse la testa. «Che si sappia no. Neppure un'amica.»
L'interrogatorio era a dir poco blando, pensò Reilly, noioso come pescare spigole in un lago pescoso, uno dei ventisette interrogatori condotti fino a quel momento a proposito della morte di G.F. Avsienko. Sembrava che tutti si fossero dimenticati che in macchina c'erano altri due esseri umani, ma che probabilmente non erano loro il bersaglio. La faccenda non si stava affatto chiarendo. Quello di cui avevano bisogno era il camion, una qualsiasi prova «fisica». Come gran parte degli agenti dell'FBI, Reilly credeva nel tangibile, in tutto quello che si poteva toccare con mano, da passare a un tribunale e dimostrare che quella era sia la prova che il crimine aveva avuto luogo sia la dimostrazione che a compierlo era stato l'imputato. I testimoni oculari, d'altro canto, mentivano spesso, o quanto meno si facevano facilmente confondere dagli avvocati della difesa, e come conseguenza poliziotti e giurati li ritenevano poco affidabili. Forse sul camion c'erano ancora i residui dell'esplosione, forse erano rimaste delle impronte digitali sull'untuosa carta nella quale i russi avvolgevano le armi, o qualcos'altro... meglio di tutto sarebbe stato un mozzicone di sigaretta fumata dal conducente o dal cecchino, dato che l'FBI era in grado di effettuare l'esame del DNA sulla saliva, uno dei nuovi e migliori trucchetti dell'agenzia (una probabilità di seicento milioni contro uno era qualcosa che la gente non poteva mettere in discussione, neppure gli avvocati della difesa con le loro parcelle milionarie). Uno dei progetti di Reilly era quello di mettere a disposizione della polizia russa la tecnologia per l'analisi del DNA, ma i russi avrebbero dovuto far fronte ai costi di laboratorio, e non sarebbe stato facile sembrava che i russi non avessero mai il denaro per le cose importanti. Tutto quello che avevano al momento erano i resti della parte terminale dell'RPG. Era sorprendente quanta parte di quegli affari sopravvivesse al lancio e all'esplosione. C'era ancora un numero di serie che era stato controllato, benché con ogni probabilità quell'informazione non avrebbe condotto a nulla. Ma bisognava verificare tutto, perché non si sapeva mai che cosa si sarebbe rivelato prezioso e che cosa no, prima di arrivare alla battuta finale, che di solito era di fronte allo scranno di un giudice con dodici persone alla tua destra. Sotto il profilo procedurale, in Russia le cose andavano un po' diversamente, ma l'unica cosa che lui stava cercando di trasmettere ai poliziotti russi con cui era in contatto era che l'obiettivo di ogni indagine doveva essere una condanna. E ci stavano arrivando, per lo più lentamente ma qualcuno più in fretta, e inoltre stavano imparando che ficcare nella gola di un sospetto le sue palle non era una tecnica di interrogatorio efficace. Avevano la Costituzione in Russia, ma ancora la gente non si era abituata a rispettarla. Per certe cose ci voleva tempo. In quel paese, il concetto di norma giuridica era alieno quanto i marziani. Il problema, pensò Reilly, era che nessuno sapeva quanto tempo avessero i russi per mettersi alla pari con il resto del mondo. C'era molto di ammirevole nel paese, soprattutto l'arte. Grazie al suo status diplomatico, Reilly riceveva spesso biglietti omaggio per concerti (che lui amava) e per balletti (che sua moglie amava). In questo campo i russi erano ancora i primi nel mondo, ma per il resto erano tragicamente rimasti indietro. Qualcuno all'ambasciata, uno degli agenti della CIA che avevano vissuto lì prima del crollo dell'Unione Sovietica, assicurava che i miglioramenti erano stati incredibili.
Ma se era così, la situazione che c'era stata prima doveva essere davvero terribile, anche se quasi certamente il Bolscioi era lo stesso di allora.
«E' tutto?» chiese Tanja Bogdanova in sala interrogatori.
«Grazie per essere venuta. Non è escluso che la richiamiamo.»
Lei tirò fuori un biglietto da visita. «Usate questo numero. E' quello del mio cellulare.» Quella era un'altra comodità occidentale disponibile anche a Mosca per chi aveva denaro da spendere, e ovviamente Tanja ne aveva. A interrogarla era stato un giovane sergente della milizia. Si alzò educatamente e andò ad aprirle la porta, tributandole la cortesia che lei si aspettava dagli uomini. Nel caso degli occidentali, quella cortesia era un omaggio al suo aspetto fisico, mentre agli occhi dei suoi connazionali erano gli abiti a rivelare la posizione che lei aveva raggiunto. Reilly guardò negli occhi la ragazza che lasciava la stanza. La sua espressione era quella di un bambino che l'ha appena fatta franca dopo essersi aspettato una punizione. Com'è stupido papà, sembrava proclamare quel sorriso. Era un sorriso che mal si accordava a quel viso d'angelo, ma c'era, e lo si vedeva chiaramente dall'altra parte dello specchio.
«Oleg?»
Oleg si girò. «Sì, Misha?»
«Quella lì è sporca. E' una che gioca.» Lo disse in inglese, ma Provalov conosceva il gergo della polizia.
«Sono d'accordo, ma non abbiamo nulla per trattenerla, ti pare?»
«Penso di no. Però potrebbe essere interessante tenerla d'occhio.»
«Se potessi permettermela, la terrei d'occhio di persona, Mikhail Ivan Reilly grugnì, divertito.
«Sì, non mi stupisce.»
«Però ha un cuore di ghiaccio.»
«Su questo non ci piove», concordò l'agente dell'FBI. E il gioco di cui lei faceva parte era nell'ipotesi migliore sporco, nella peggiore letale.
«Allora, cosa abbiamo?» chiese Ed Foley qualche ora dopo al di là del fiume, da Washington.» «Gornischt12, per il momento», rispose Mary Pat al marito.
«Jack vuole essere tenuto al corrente.»
«Be', riferisci al presidente che stiamo correndo il più velocemente possibile e che tutto quello che abbiamo per ora ci viene dall'addetto legale. E' in buoni rapporti con la polizia locale, ma per il momento pare che neanche loro ne sappiano di più. Forse qualcuno ha tentato di uccidere Sergej Nicolay ma il legale dice che secondo lui il vero bersaglio era Rasputin.»
«Immagino che anche lui avesse la sua quota di nemici», concesse il direttore della Central Intelligence Agency.
«Grazie a tutti voi», concluse il vicepresidente rivolgendosi alla folla radunatasi nello stadio di Ole Miss. Scopo del discorso era annunciare che otto nuovi cacciatorpedinieri sarebbero stati costruiti nel grande porto di Litton, sulla costa del golfo del Mississippi, progetto che significava lavoro e denaro per lo Stato, questioni sempre di grande interesse per il governatore, che ora era in piedi e applaudiva come se la squadra di football di Ole Miss avesse appena annientato il Texas in una partita della Cotton Bowl. Da quelle parti lo sport lo prendevano seriamente. E così la politica, rammentò Robby a se stesso, soffocando un'imprecazione contro quella grossolana professione che somigliava tanto ai baratti nella piazza di un villaggio medievale, tre ottimi maiali per una mucca o giù di lì, e magari buttaci sopra anche un boccale di birra amara. Era così che si governava un paese? Sorrise tra sé scuotendo la testa. Be', si era fatta politica anche in marina, e lui aveva dovuto scalare parecchie cime, ma ce l'aveva fatta, perché era un ufficiale maledettamente in gamba e il miglior pilota di caccia che avesse mai decollato da una portaerei. Ovviamente, sapeva benissimo che tutti i piloti di caccia sul punto di decollare pensavano la stessa cosa... la differenza stava nel fatto che lui lo era davvero. Ci furono le solite strette di mano mentre scendeva dal podio guidato dagli uomini del servizio segreto, ombre scure, minacciose, poi giù per gli scalini e fuori dall'ingresso di servizio fino all'auto, dove un'altra squadra di uomini armati aspettava, gli occhi vigili sempre rivolti all'esterno, come probabilmente facevano i mitraglieri a bordo di un B17 sopra Schweinfurt.
Uno di loro aprì la portiera e Robby salì.
«TOMCAT sta rullando», disse al microfono il capo della squadra di agenti. L'auto puntò verso la superstrada che portava all'aeroporto. Robby si mise sulle ginocchia la cartella che conteneva la copia del discorso.
«Nulla di importante a Washington?»
«Nulla di cui mi abbiano parlato», rispose l'agente. Jackson annuì. C'era della brava gente a prendersi cura di lui. Il capo della squadra, pensava, doveva essere capitano; quanto ai ragazzi, arrivavano probabilmente fino al grado di tenente, ed era così che lui li trattava. Erano subalterni, ma in gamba, professionisti bene addestrati che si meritavano un sorriso e un cenno del capo quando le cose andavano bene, il che succedeva praticamente sempre. Sarebbero stati dei buoni aviatori, quasi tutti... e gli altri probabilmente sarebbero stati degli ottimi marine. L'auto si fermò davanti al VC-20B parcheggiato in un angolo isolato dell'aeroporto. L'aereo era circondato da altri uomini della sicurezza e il conducente fermò l'auto a non più di venti metri dalla scaletta.
«Ci porta lei a casa, signore?» chiese il capo della squadra, sospettando già la risposta.
«Ci puoi scommettere il culo, Sam», rispose sorridendo Robby. La cosa non piacque al capitano dell'USAF che avrebbe dovuto fungere da copilota, e ancor meno piacque al tenente colonnello che avrebbe dovuto essere il primo pilota del Gulf Stream III modificato. Il vicepresidente amava mettersi alla cloche in questo caso una barra di comando doppia mentre il colonnello stava alla radio e monitorava gli strumenti. Per gran parte del tragitto sarebbe stato ovviamente inserito il pilota automatico, ma Jackson era comunque determinato a mettersi ai comandi, e non era facile dirgli di no. Come risultato, il capitano si sarebbe seduto sul retro mentre al colonnello sarebbe toccato il sedile sinistro, e avrebbe dovuto accontentarsi. Che diavolo, pensò quest'ultimo, il vicepresidente aveva sempre delle buone storie da raccontare e, per essere uno della marina, come pilota se la cavava più che bene.
«Cielo sgombro a est», disse Jackson pochi minuti dopo.
«Cielo sgombro a ovest», replicò il pilota.
«Motore uno», disse ancora Jackson, e dopo trenta secondi aggiunse: «Motore due.»
«Sembra tutto a posto, signore», riferì il tenente colonnello dell'USAF. Il G era dotato di motori Rolls-Royce Spey, gli stessi utilizzati un tempo nella versione inglese del caccia F-4 Phantom, ma resi più affidabili.
«Torre di controllo, qui Air Force Two pronto al rollaggio.»
«Qui Torre, pista tre per il rollaggio.»
«Roger, Torre. AF-2 rollaggio sulla tre.» Jackson mollò i freni e lasciò che l'aereo si muovesse. I motori giravano appena, ma consumavano già quantitativi enormi di combustibile. Su una portaerei, rammentò Jackson, avevi sempre un sacco di gente in camicia gialla a darsi da fare per te. Lì dovevi fare affidamento sulla mappa-diagramma fissata al centro della barra di comando, e intanto continuare a guardarti intorno per assicurarti che qualche idiota in Cessna 172 non ti finisse davanti come un carrello abbandonato nel parcheggio di un supermercato. Avevano raggiunto la fine della pista.
«Torre, qui Spade chiede l'autorizzazione al decollo.» Quasi non si accorse di aver usato quel nomignolo.
Una risata, poi: «Questa non è l'Enterprise, Air Force Two, ma ha l'autorizzazione, signore.»
Anche Robby sorrise. «Roger, Torre, AF-2 pronto al decollo.»
«Era questo il suo segnale di chiamata?» chiese il comandante. «"Spade"?»
«Me lo appioppò il mio primo ufficiale quando ero ancora un novellino, e mi è rimasto attaccato.»
Il vicepresidente scosse la testa. «Gesù, sembra che sia passata un'eternità.»
«V-One, signore», disse l'ufficiale dell'aeronautica seduto accanto a lui, e quasi subito aggiunse un «V-R». Senza aumentare il regime, Jackson tirò verso di sé la barra di comando e l'aereo si alzò. Il colonnello fece risalire il carrello mentre Jackson muoveva leggermente la barra a sinistra e a destra, facendo oscillare appena le ali, come per accertarsi che l'aereo fosse disposto a obbedire ai suoi ordini. Di lì a tre minuti, il G procedeva con il pilota automatico, programmato per virare, salire e assestarsi a trentanovemila piedi.
«Noioso, eh?»
«Solo un altro modo di dire "sicuro", signore», replicò l'ufficiale dell'USAF. Razza di dilettanti, pensò Jackson. Nessun pilota di caccia avrebbe mai detto una cosa del genere ad alta voce. Ai tempi in cui volare era... al diavolo, dovette ammettere con se stesso, lui si allacciava sempre la cintura prima di accendere il motore dell'auto e non faceva mai nulla di avventato, neppure a bordo di un caccia. Ma lo offendeva che quell'aereo, non diversamente da quasi tutti i nuovi apparecchi, sbrigasse una parte così grande del lavoro per cui lui era stato addestrato. Era addirittura in grado di atterrare da solo... be', è vero che la marina aveva sistemi simili a bordo dei suoi velivoli, ma nessun pilota della marina li avrebbe mai usati, se non per obbedire a un ordine, circostanza che Robert Jefferson Jackson era sempre riuscito a evitare. Quelle ore di volo sarebbero risultate sul suo giornale di bordo, anche se di fatto lui avrebbe fatto ben poco. A sovrintendere il tutto era un microchip, e la sua funzione era semplicemente quella di intervenire se qualcosa si fosse guastato. Ma non capitava mai. Al diavolo quei maledetti motori. Una volta i turboreattori venivano sostituiti dopo nove, dieci ore di volo. Ora c'erano motori Spey che di ore ne avevano milleduecento. Ce n'era uno con più di tremila ore di volo che la Rolls-Royce voleva indietro. Offriva in cambio un motore nuovo di zecca perché i suoi tecnici volevano smantellare il vecchio e capire che cosa avevano progettato così bene, ma il proprietario, sadicamente quanto prevedibilmente, si rifiutava di separarsene. Il resto della flotta aerea Gulf Stream era altrettanto affidabile e la strumentazione elettronica era delle più all'avanguardia. Jackson abbassò gli occhi sul display del radar meteorologico. Era amichevolmente nero in quel momento, a indicare che probabilmente non avrebbero trovato alcun tipo di turbolenza durante il tragitto. Non esisteva ancora uno strumento in grado di individuare le turbolenze, ma a quell'altezza era raro che se ne verificassero. Comunque fosse, Jackson non soffriva di mal di quota e le sue dita erano a pochi centimetri dalla barra, nel caso capitasse un imprevisto. Di tanto in tanto si scopriva a desiderare che qualcosa accadesse, perché questo gli avrebbe permesso di dimostrare che razza di ottimo pilota era... ma non succedeva mai. Volare era diventata un'attività troppo di routine, dall'epoca della sua infanzia trascorsa sull'F-4N Phantom e della sua giovinezza trascorsa sull'F-14A Tomcat. E forse era meglio così. Sì, pensò, figurarsi.
«Signor vicepresidente?» A parlare era stato il sergente addetto alle comunicazioni. Robby si voltò e vide che la donna aveva in mano un pacco di fogli.
«Sì, sergente?» «La stampante ci ha trasmesso questo.»
Jackson li prese. «Colonnello, prenda lei il comando», disse prima di accingersi a leggere. Era sempre la stessa storia, anche se ogni volta era diversa. I fogli avevano la solita classificazione di riservato. Un tempo gli aveva dato da pensare il fatto che sarebbe bastato mostrare uno di quei fogli alla persona sbagliata per finire dritto filato al Leavenworth Federal Penitentiary a quel tempo, in realtà, si sarebbe trattato della Portsmouth Naval Prison, nel New Hampshire, chiusa di recente ma adesso che era un alto funzionario governativo di Washington, D.C., avrebbe potuto mostrare quasi qualunque cosa a un giornalista del «Washington Post» senza che gli venisse torto un capello. E questo non perché lui fosse al di sopra della legge, ma piuttosto perché era una delle persone che decidevano ciò che la legge significava. In quel caso, ciò che era così maledettamente segreto e urgente era che la CIA non sapeva nulla del probabile attentato alla vita del capo delle spie russe, il che significava che a Washington nessun altro lo sapeva...
3. PROBLEMI CON I RICCHI
Si trattava di commercio, non esattamente l'argomento preferito del presidente, ma a quel livello qualsiasi argomento diventava così tortuoso che anche quelli con cui si aveva maggior dimestichezza risultavano nella migliore delle ipotesi sconosciuti, nella peggiore alieni.
«George», fece Ryan rivolto al suo segretario del Tesoro, George Winston.
«Signor Pres...?»
«Maledizione, George!» Il presidente quasi rischiò di rovesciare il caffè.
«Okay», l'altro fu pronto ad adeguarsi. «difficile fare una simile modifica... Jack.»
Ryan stava cominciando a stancarsi delle bardature che si accompagnavano alla sua carica, e la regola era che nella Sala Ovale lui era Jack, almeno nella cerchia dei più intimi, e Winston era uno di loro. Dopo tutto, aveva scherzato Ryan qualche volta, dopo aver lasciato quella prigione di marmo ed essere tornato a New York, con ogni probabilità si sarebbe trovato a lavorare per Trader com'era noto al servizio segreto. Una volta scaduto il suo mandato (una prospettiva per cui Jack si prostrava davanti a Dio ogni sera, o almeno così si diceva) si sarebbe trovato nella posizione di dover cercare un impiego remunerativo da qualche parte, e il mondo degli affari gli ammiccava con aria allettante. Ryan, rammentò Winston, aveva dimostrato di possedere un talento insolito in quel campo. Il suo ultimo sforzo era stato una società californiana, la Silicon Alchemy, solo una delle tante società di informatica, ma l'unica a cui Ryan si fosse dimostrato interessato. Si era mosso con tanta abilità che il suo pacchetto azionario in SALC (il simbolo che compariva sul grande tabellone) ora valeva un po' più di ottanta milioni di dollari, il che faceva di Ryan il presidente americano più ricco della storia. Una circostanza, quella, che il suo astuto capo del personale, Harnold van Damm, non pubblicizzava davanti ai media, che avevano la tendenza a considerare ogni ricco come un signore della rapina, fatta naturalmente eccezione per i proprietari di giornali e stazioni televisive che, era logico, erano il meglio del meglio. Nulla di tutto questo era arrivato all'opinione pubblica, neppure alla comunità dei grandi finanzieri di Wall Street, il che era già sorprendente. Se mai fosse tornato a lavorare a Wall Street, il prestigio di cui Ryan godeva sarebbe stato sufficiente a fargli guadagnare anche mentre dormiva nel suo letto. E questo, Wilson non aveva alcuna difficoltà ad ammetterlo, era qualcosa di assolutamente meritato, e al diavolo quello che pensavano i segugi dei media.
«Si tratta della Cina?» chiese Jack.
«Proprio così, capo.»
«Capo» era un termine che Ryan poteva reggere, ed era così che il servizio segreto che faceva parte del Ministero del Tesoro di Winston identificava l'uomo che si era giurato di proteggere.
«Hanno un piccolo problema di contanti e si rivolgono a noi.»
«Quanto piccolo?» chiese POTUS.
«Credo che si possa calcolare intorno ai settanta miliardi di dollari su base annuale.»
«Il che, dico io, è denaro vero.»
George Winston annuì. «Qualunque cosa cominci con "m" è già abbastanza grosso, e questo è un po' più di sei "m" al mese.»
«Per spenderli come?»
«Non ne sono sicuro, ma ha molto a che fare con la questione militare. Le industrie di armi francesi lavorano parecchio con loro, da quando gli inglesi hanno sabotato l'accordo sui motori jet proposto dalla Rolls-Royce. Il presidente annuì.
«Sì, fu Basil a convincere Mary Pat.» Si riferiva a Sir Basil Charleston, capo del servizio segreto inglese, a volte definito (erroneamente) M16. Basil era un vecchio amico di Ryan, dai tempi in cui lui lavorava nella CIA.
«E' stata una presa di posizione straordinaria, direi.»
«Sembra che i nostri amici di Parigi non la pensino nello stesso modo.»
«Come al solito», ammise Ryan. Una strana dicotomia caratterizzava i loro rapporti con la Francia. Per certe cose, i francesi non erano tanto alleati quanto fratelli di sangue, mentre in altre erano meno di semplici soci, e Ryan aveva qualche difficoltà a capire quale fosse la logica che li spingeva a cambiare idea con tanta facilità. Be', pensò, è per questo che ho un dipartimento di Stato...
«Dunque tu pensi che la Repubblica Popolare Cinese stia di nuovo rafforzando le proprie forze armate?»
«Così parrebbe, anche se non sembra che stia facendo la stessa cosa con la marina, il che è un grande sollievo per i nostri amici di Taiwan.»
Quella era stata una delle prime iniziative prese dal presidente Ryan in politica estera, dopo la conclusione delle ostilità con la defunta repubblica islamica, ora restituita alle nazioni di Iran e Iraq, che quanto meno erano in pace tra loro. Il vero motivo del riconoscimento di Taiwan non era mai stato reso noto. Era parso abbastanza chiaro a Ryan e al suo segretario di Stato, Scott Adler, che la Repubblica Popolare Cinese aveva giocato un ruolo nella seconda guerra del Golfo Persico, e probabilmente anche nel precedente conflitto con il Giappone. Ma perché, esattamente? Be', alcuni nella CIA pensavano che la Cina mirasse ai ricchi giacimenti minerari della Siberia orientale circostanza suggerita dalle intercettazioni e dagli accessi alla posta elettronica degli industriali giapponesi, che avevano modificato i percorsi della nazione fino a metterla in una non del tutto scoperta rotta di collisione con l'America. Si parlava della Siberia come dell'«area di risorsa settentrionale», per analogia con l'«area di risorsa meridionale», definizione coniata dalla precedente generazione di strateghi giapponesi per indicare l'Asia minore. Questo accadeva durante un altro conflitto, passato alla storia come Seconda guerra mondiale. In ogni caso, la complicità della Repubblica Popolare Cinese con i nemici degli americani si era meritata una contromossa, avevano stabilito Ryan e Adler e, inoltre, la Repubblica Cinese di Taiwan era una democrazia, con funzionari governativi eletti dal popolo, e questa era una circostanza che l'America non poteva non rispettare.
«Sai, sarebbe stato meglio se avessero cominciato a darsi da fare con la marina e minacciato Taiwan. Prevenire una mossa simile ci sarebbe più facile...»
«Lo credi davvero?» chiese il ministro del Tesoro, interrompendolo.
«I russi lo credono.»
«Allora è per questo che stanno vendendo tutto quell'hardware ai cinesi?» domandò Winston.
«Ma non ha senso.»
«George, non c'è nulla che obblighi il mondo ad avere senso.» Questo era uno degli aforismi preferiti di Ryan. «E' una delle prime cose che impari quando sei nei servizi. Indovina chi era il socio commerciale numero uno della Germania, nel 1938.»
Winston aveva già capito. «La Francia?»
«Proprio così», annuì Ryan. «E poi nel '40 e nel '41 fecero un sacco di affari con i russi. Non funzionò troppo bene neanche in quel caso, ti pare?»
«E pensare che tutti mi hanno sempre detto che il commercio esercita una funzione moderatrice», commentò il ministro.
«Forse è così tra la gente, ma ricorda che i governi non hanno principi quanto interessi... almeno i più primitivi, quelli che non hanno ancora elaborato...»
«Come la Repubblica Popolare Cinese?»
Questa volta toccò a Ryan assentire. «Sì, George, proprio come quei piccoli bastardi di Pechino. Governano una nazione di un miliardo di persone, ma lo fanno come se fossero dei nuovi Caligola. E nessuno gli ha mai detto che hanno il dovere di badare agli interessi del popolo che governano... Be', forse questo non è vero», concesse Ryan, sentendosi generoso. «Hanno questo grande, meraviglioso modello teorico, promulgato da Karl Marx, rivisto e corretto da Lenin e quindi applicato nel loro paese da un grassoccio, pervertito sessuale di nome Mao.»
«Oh? Pervertito?13»
«Sì.» Ryan alzò gli occhi. «Abbiamo tutte le informazioni a Langley. A Mao piacevano le vergini, e più giovani erano, meglio era. Forse gli piaceva vedere la paura in quei loro occhietti verginali questo è quello che penserebbe uno dei nostri strizzacervelli non tanto il sesso come potere quanto lo stupro. Be', immagino che avrebbe potuto andare anche peggio... almeno quelle erano ragazze, e la loro cultura è storicamente più liberale della nostra quando si tratta di certe faccende.»
Ryan scosse la testa. «Dovresti vedere le relazioni che mi arrivano ogni volta che un dignitario straniero viene in visita, quello che non sappiamo sulle loro abitudini personali.»
George ridacchiò. «Il punto è, voglio davvero saperlo?»
«Probabilmente no. A volte vorrei non saperlo neppure io. Si mettono a sedere qui, proprio in questo ufficio, e sono tutto fascino e affari, e tu passi tutta la riunione a cercare corna e zoccoli.» Il che, naturalmente, poteva costituire una distrazione, ma di norma si pensava che quando le poste in gioco erano alte, più si sapeva del tizio seduto dall'altra parte del tavolo, meglio era, e questo anche se ti faceva venire voglia di vomitare durante la cerimonia di benvenuto sul Prato Sud della Casa Bianca. Ma questo significava essere presidente, ricordò Ryan a se stesso. Gli uomini combattevano come tigri per arrivarci, e lo facevano di nuovo quando arrivava il momento di andarsene. Era o non era il suo lavoro, proteggere il suo paese da quei ratti che volevano infilarsi là dove il formaggio era più buono? Scosse la testa. Quanti dubbi. Non se ne andavano mai e, anzi, si facevano sempre più incombenti. Com'era strano che lui comprendesse e ricordasse alla perfezione ogni piccolo passo che lo aveva portato in quell'ufficio e al tempo stesso si chiedesse mille volte al giorno come diavolo era finito lì... e come diavolo ne sarebbe uscito. Ma che diamine, questa volta non aveva scuse. Si era o non si era candidato per la presidenza? Se così la si poteva chiamare, tra parentesi Arnie van Damm non lo faceva, ma certamente poteva farlo lui, perché aveva ottemperato ai requisiti costituzionali, circostanza su cui più o meno tutti gli studiosi della legge avevano concordato, e di cui avevano parlato ad nauseam 14praticamente su tutte le maggiori reti televisive. Be', pensò ancora Jack, non è che allora ne guardassi molta di TV. Ma alla fine tutto si riduceva a una cosa soltanto: le persone con cui avevi a che fare nella tua funzione di presidente erano spesso individui che non avresti mai invitato a casa tua, e non era certo questione di mancanza di buone maniere o di fascino che, perversamente, quasi sempre possedevano in abbondanza. Una delle cose che Arnie aveva detto all'inizio a Jack era che il primo requisito per fare il politico era semplicemente la capacità di essere piacevole con le persone che disprezzavi, e di fare affari con loro come se si fosse amici per la pelle.
«Allora, che cosa sappiamo dei nostri amici cinesi?» chiese Winston. «Per il momento, voglio dire.»
«Non molto. Ci stiamo lavorando. L'agenzia ha ancora parecchio da fare, anche se ci siamo messi all'opera. Riceviamo ancora delle intercettazioni. Il loro sistema telefonico non è granché e troppo spesso usano i cellulari senza farli criptare. Alcuni di loro sono uomini molto autorevoli, George, ma di loro non sappiamo nulla di troppo scandaloso. Diciamo che in parecchi casi ci sono segretarie che sono molto, molto vicine ai propri capi.»
Il ministro del Tesoro mise insieme una risatina. «Be', questo succede un po' dappertutto, non solo a Pechino.»
«Anche a Wall Street?» indagò Jack, inarcando ostentatamente un sopracciglio.
«Non lo so per certo, signore, ma qualche voce è arrivata al mio orecchio.» Winston era felice di quella piccola diversione.
Ed è successo perfino qui, rammentò Ryan, in questa stanza. Da allora ovviamente avevano cambiato il tappeto e anche tutti i mobili, fatta eccezione per la scrivania presidenziale. Uno dei problemi di quella carica erano i pesi che ti riversava sulle spalle chi ti aveva preceduto. Si dice che la gente ha la memoria corta, ma non è poi così vero. Non quando sentivi i mormorii e le risatine, accompagnate da occhiate allusive e di tanto in tanto da un gesto che ti faceva sentire sporco. Tutto quello che potevi fare era cercare di vivere la tua vita nel modo migliore, ma il massimo che potevi augurarti era che gli altri pensassero che eri troppo in gamba per farti beccare, perché lo facevano tutti, giusto? Uno dei problemi del vivere in un paese libero era che chiunque al di fuori di quel palazzo-prigione poteva pensare e dire qualunque cosa volesse. E a differenza di tutti gli altri, Ryan non aveva neppure il diritto di prendere a pugni chiunque dicesse qualcosa su di lui e non fosse disposto a rimangiarselo. Non sembrava giusto, ma all'atto pratico la cosa avrebbe costretto Ryan a visitare un sacco di bar e a rompere un sacco di nocche guadagnandoci davvero poco. E mandare poliziotti o marine armati a sbrigare la faccenda non era esattamente un uso corretto del potere che la sua carica gli conferiva. Jack sapeva di essere troppo suscettibile per quel posto. Di solito i politici professionisti avevano una pelle che avrebbe fatto la felicità di un rinoceronte, perché consapevoli che molte cose gli sarebbero state buttate addosso, alcune vere, altre no. Lavorando per ispessire quella pelle, diminuivano il dolore, fino a quando la gente si stufava di tagliargli i panni addosso, o almeno così diceva la teoria. Forse per alcuni funzionava davvero. O forse quei bastardi non avevano coscienza. Ma Ryan una coscienza l'aveva. Quella era una scelta che aveva fatto parecchio tempo addietro: voleva potersi ancora guardare allo specchio una volta al giorno, di solito quando si radeva, e sapeva che quando la faccia che vedi riflessa non ti piace, non c'è più molto da fare al riguardo.
«Okay, torniamo ai nostri cinesi, George», disse in tono autoritario. «Stanno cercando di ravvivare il loro commercio... a senso unico, però. Scoraggiano i cittadini dal comprare americano, ma tutto quello che possono vendere, lo vendono. Comprese, immagino, alcune delle giovani vergini di Mao.»
«Cosa abbiamo a dimostrarlo?»
«Jack, io sto attento ai risultati. Ho amici in vari ambienti che smuovono le acque e parlano alla gente mentre ci bevono assieme. Spesso quello che apprendono vengono a riferirlo a me. Sai, molti cinesi reagiscono stranamente all'alcol. Per loro un bicchiere è come cinque o sei per noi, e un secondo... be', per loro un secondo è come se noi ingollassimo una bottiglia di Jack Daniel's, ma alcuni dei più scemi continuano a farlo, magari perché vogliono mostrarsi ospitali, chissà. Comunque, quando succede, be', gli si scioglie la lingua, capisci? E' un pezzo che succede, ma di recente Mark Gant ha messo insieme un piccolo programma. Dirigenti di alto livello che vanno in certi posti speciali. Ora sono io a occuparmi del servizio segreto, giusto? E il servizio segreto si è specializzato in crimini di natura economica, mi segui? Molti miei vecchi amici sanno chi sono e che cosa faccio ora; collaborano volentieri ed è così che riesco a mettere insieme un sacco di materiale interessante. La maggior parte va ai miei capi, dall'altra parte della strada.»
«Sono impressionato, George. Ne hai parlato alla CIA?»
«Immagino che avrei potuto, ma avevo paura che si incazzassero. Sai, questioni di controllo...»
Ryan alzò gli occhi al cielo. «Non Ed Foley. Lui è un professionista vero e la burocrazia di Langley non lo ha ancora messo fuori combattimento. Fallo venire da te a colazione. Non gli dispiacerà sapere quello che stai facendo. Lo stesso vale per Mary Pat. Lei gestisce la direzione operativa. E' una vera cowgirl, e anche a lei stanno a cuore soprattutto i risultati.»
«Prendo nota. Sai, Jack, è sorprendente a quanta gente si sciolga la lingua, nelle circostanze giuste.»
«Come sei riuscito a fare tutti quei soldi a Wall Street, George?» chiese Ryan.
«Forse sapendo un po' più del tizio che sta di là della strada», replicò Winston.
«Per me funziona nello stesso modo. Okay, se i nostri piccoli amici andranno avanti su questa strada, noi cosa faremo?»
«Jack no, in questo caso dev'essere Signor Presidente ormai sono parecchi anni che finanziamo l'espansione industriale cinese. Ci vendono delle merci, noi paghiamo in contanti, e quelli o si tengono il denaro per i loro scopi sui mercati monetari internazionali, oppure acquistano merci da altri paesi, spesso prodotti che potrebbero tranquillamente comprare da noi, ma a un prezzo più alto. Il motivo per cui tutto questo è chiamato "commercio" è che, almeno in teoria, consiste nello scambiare qualcosa di tuo con qualcosa che ha un altro, un po' come fanno i ragazzini con le figurine dei giocatori di baseball, ci sei? Solo che loro non giocano sempre nello stesso modo. Quello che a volte fanno è vendere sotto costo alcuni prodotti per avere in cambio dollari, e li vendono per meno di quanto li venderebbero ai loro stessi cittadini. Ora, questa tecnicamente è una violazione a un paio di norme dello statuto federale. D'accordo», concesse Winston con una stretta di spalle, «è uno statuto che applichiamo in modo quanto meno selettivo, ma le regole ci sono, e questa è la legge. Mettici sopra anche il Trade Reform Act che abbiamo approvato pochi anni fa per via di quei giochetti che facevano i giapponesi, e...»
«Ricordo, George. Cominciò con una piccola sparatoria in cui morirono alcune persone», osservò seccamente POTUS. Peggio ancora, forse proprio allora era cominciato il processo che aveva portato Ryan in quella stanza.
L'altro annuì. «Vero, ma è pur sempre la legge, e non un decreto di confisca da applicarsi solo ai danni del Giappone. Jack, se applicassimo alla Cina le stesse leggi commerciali che essa applica a noi, be', questo ostacolerebbe parecchio i loro conti esteri. Sarebbe una cattiva cosa? No, non con lo squilibrio commerciale che abbiamo con loro al momento. Sai, Jack, se cominciassero a costruire automobili e con quelle facessero lo stesso giochetto che stanno facendo con tutto il resto, il nostro disavanzo commerciale crescerebbe a dismisura, e francamente io sono stanco di dover finanziare il loro sviluppo economico, che poi gli serve a comprarsi gli equipaggiamenti pesanti in Giappone e in Europa. Se vogliono commerciare con gli Stati Uniti d'America bene, ma che sia un commercio. Possiamo farcela in qualunque iniqua guerra di commercio con qualsiasi paese, perché gli operai americani sono in grado di produrre almeno quanto alcuni paesi esteri, e più di tanti altri. Ma se gli permettiamo di barare, quelli ci fregano, Jack, e farmi imbrogliare non mi piace né qui né intorno a un tavolo da gioco. E qui la posta in gioco è di parecchio più alta.»
«Ti ascolto, George, ma neppure vogliamo puntargli una pistola alla testa, giusto? Non si fa con una nazione-stato, soprattutto con una grande nazione-stato... a meno che non ci siano motivi più che validi. La nostra economia tira piuttosto bene, non è così? Possiamo permetterci un po' di magnanimità.»
«Forse, Jack. Quello che stavo pensando era un piccolo, amichevole incoraggiamento da parte nostra, non esattamente una pistola puntata. Quella è sempre nella fondina. La pistola è ciò che contraddistingue la nazione più favorita, e loro lo sanno, e noi sappiamo che loro lo sanno. Applichiamo il Trade Reform Act con tutti gli altri, e si dà il caso che io pensi che l'idea che sta dietro alla legge sia fondamentalmente valida. E' stata usata con buoni risultati come una mazza da mostrare a un sacco di paesi, mai con la Repubblica Popolare Cinese. Perché?»
POTUS si strinse nelle spalle, chiaramente imbarazzato. «Forse perché non ne abbiamo ancora avuto la possibilità, e prima di me troppa gente in questa città alla Repubblica Popolare voleva solo baciare il culo.»
«Resta un cattivo sapore in bocca quando lo si fa, vero presidente?»
«Può essere», concesse Jack. «Okay, voglio che tu ne parli con Scott Adler. Gli ambasciatori lavorano tutti per lui.»
«Chi abbiamo a Pechino?» «Carl Hitch. Un ufficiale di carriera, cinquant'anni e rotti, si suppone molto in gamba, e questo è il suo ultimo incarico prima della pensione.»
«Una ricompensa per tutti gli anni passati a reggere cappotti?»
Ryan annuì. «Qualcosa del genere, immagino. Non ne sono del tutto sicuro. Non era il mio settore, quello.» La CIA, pensò ma non aggiunse, era più che abbastanza.
L'ufficio era molto più bello, pensò Bart Mancuso. E le spalline dell'uniforme d'ordinanza bianca erano un po' più pesanti ora, con le quattro stelle anziché le due che si era guadagnato come COMSUBPAC. Ma quella era storia vecchia. Il suo ex capo, l'ammiraglio Dave Seaton, aveva veleggiato verso il ruolo di Responsabile delle Operazioni Navali, e il presidente... o qualcuno molto vicino a lui... aveva deciso che Mancuso era il tipo giusto per diventare il nuovo comandante in capo nel Pacifico. Ecco perché ora lui lavorava nello stesso ufficio un tempo occupato da Chester Nimitz e da altri ottimi, a volte brillanti, ufficiali della marina. Era un bel salto in avanti da Plebe Summer ad Annapolis, specialmente visto che lui era stato il comandante di una sola nave, la USS Dallas, anche se quel comando si era rivelato piuttosto significativo, con all'attivo due missioni di cui ancora Mancuso non poteva parlare con nessuno. E l'essere stato compagno di navigazione, una volta e per poco tempo, dell'attuale presidente, probabilmente non aveva guastato. Il nuovo lavoro era arrivato accompagnato da una bella casa di rappresentanza, un consistente drappello di marinai e comandanti a occuparsi di lui e di sua moglie (i ragazzi ormai erano tutti al college), i soliti autisti, i soliti alti ufficiali e ora anche guardie armate perché, stranamente, c'erano persone a cui gli ammiragli non piacevano più di tanto. Nelle sue nuove funzioni ora Mancuso rispondeva direttamente al ministro della Difesa, Anthony Brentano, che a sua volta riferiva direttamente al presidente Ryan. In cambio, Mancuso poteva contare su un sacco di facilitazioni. Ora aveva accesso diretto a tutte le sedi dei servizi informativi, compreso il sancta sanctorum, Risorse e Metodi (da dove arrivava l'informazione, come era stata ottenuta), perché in quanto responsabile americano di un quarto della superficie del globo, doveva essere informato di tutto, così da sapere cosa riferire al ministro della Difesa, il quale a sua volta avrebbe reso edotto il presidente dell'opinione, delle intenzioni e dei desideri di CINCPAC. Il Pacifico, pensò Mancuso al termine della prima riunione mattutina, sembrava a posto. Non era sempre stato così, ovviamente, neppure in tempi recenti, quando lui stesso aveva preso parte a un conflitto di dimensioni rispettabili «guerra» era una parola ormai quasi caduta in disuso in osservanza di uno scambio civile con i giapponesi, conflitto che aveva provocato tra le altre cose la perdita di due sottomarini nucleari, distrutti con l'inganno e il tradimento, per come la vedeva Mancuso, benché un osservatore più obiettivo avrebbe forse definito l'accaduto una tattica impiegata da un nemico intelligente ed efficiente. Già in precedenza Mancuso veniva informato dell'ubicazione e delle attività dei vari sottomarini, ma ora gli veniva riferito anche dei movimenti delle portaerei, degli incrociatori e delle navi cisterna, oltre che dei mezzi dei marine e perfino dell'esercito e dell'aeronautica, che tecnicamente dipendevano da lui, comandante in capo di zona. Tutto questo significava che la riunione mattutina si protraeva fino alla terza tazza di caffè, alla fine della quale lui si scopriva a guardare supplichevole il responsabile esecutivo, seduto a pochi passi dalla scrivania. Che diavolo, il suo coordinatore alle informazioni, chiamato J-2, era di fatto un generale dell'esercito a una sola stella che stava compiendo il proprio servizio «associato» e, in tutta sincerità, se la cavava molto bene. Il generale di brigata, che si chiamava Mike Lahr, aveva insegnato scienze politiche a West Point, oltre ad aver ricoperto altri incarichi. Il dover considerare i fattori politici era uno sviluppo nuovo nella carriera di Mancuso, ma si accompagnava all'aumento del territorio da controllare. Naturalmente anche lui aveva prestato il suo servizio «associato» e, almeno in teoria, era al corrente delle competenze e degli orientamenti dei servizi armati fratelli, ma qualsiasi fiducia avesse nutrito al riguardo diminuiva davanti alla responsabilità di dover utilizzare certe forze in modo professionale. Certo, aveva a consigliarlo subordinati che operavano in quegli altri servizi, ma il suo compito non si limitava a fare domande e per Mancuso questo significava che sarebbe dovuto uscire all'aperto e sporcarsi le mani con l'aspetto pratico delle cose, perché era lì che i ragazzi assegnati al suo teatro di zona avrebbero versato il loro sangue se lui non avesse fatto bene il proprio lavoro.
La squadra era una joint venture composta dall'Atlantic Richfield Company, dalla British Petroleum e dalla principale compagnia petrolifera russa. L'ultima delle tre era quella che aveva più esperienza ma minore competenza e i cui metodi erano più arretrati. Ciò non significava che i ricercatori russi fossero degli stupidi, tutt'altro. Due di loro erano ottimi geologi, con competenze teoriche tali da impressionare i colleghi americani e inglesi, e inoltre avevano saputo sfruttare i vantaggi delle più recenti attrezzature da esplorazione non meno rapidamente degli ingegneri che le avevano progettate. Si sapeva da molti anni che quella parte della Siberia orientale era la gemella geologica della regione di North Slope, nel Canada orientale, ed entrambe erano state trasformate in vaste zone di sfruttamento petrolifero dai rispettivi paesi. La parte difficile era stata trasportare in loco l'equipaggiamento necessario a scoprire se quella analogia non fosse solo puramente esteriore. L'impresa si era rivelata un piccolo incubo. Gli impianti di trivellazione, troppo pesanti per essere trasportati con un ponte aereo, erano stati caricati su un treno in partenza dal porto di Vladivostok, avevano impiegato un mese ad attraversare il paese, a nord di Magdagachi, attraverso Auim e Ust Maya, per mettersi finalmente al lavoro a est di Kazachye. Quello che avevano trovato aveva fatto restare a bocca aperta i ricercatori. Da Kazachye, sul fiume Yana, fino a Kolymskaya sul fiume Kolyma, si estendeva un giacimento petrolifero in grado di rivaleggiare con il Golfo Persico. Gli impianti di trivellazione e gli strumenti per la rilevazione sismica avevano indicato una stupefacente progressione di perfette formazioni a cupola sotterranee, alcune delle quali ad appena sessanta metri di profondità, ossia poche decine di metri sotto lo strato di ghiaccio permanente. Perforarle sarebbe stato difficile più o meno come affettare una torta di nozze con una sciabola. Prima delle trivellazioni di prova, non era possibile accertare l'estensione del giacimento più di un centinaio di pozzi, secondo i calcoli dell'ingegnere americano responsabile, ma nessuno di loro aveva mai visto un deposito naturale di petrolio più promettente. Non si trattava di un compito facile, naturalmente. Fatta eccezione per l'Antartide, non c'era sul pianeta una regione dal clima meno attraente. Far arrivare l'attrezzatura di produzione avrebbe richiesto anni di investimenti articolati, la costruzione di campi di aviazione e probabilmente anche di porti per i cargo che soli potevano trasportare le pesanti attrezzature e soltanto, tra l'altro, nella breve stagione estiva necessarie alla costruzione di un oleodotto per fare arrivare il petrolio sul mercato. Probabilmente attraverso Vladivostok, pensavano gli americani. I russi avrebbero potuto acquistarlo direttamente lì, e delle supercisterne lo avrebbero trasportato al di là del Pacifico, forse in Giappone, forse in America o in qualche altro luogo, ovunque il petrolio fosse necessario, il che significava più o meno dappertutto. Quegli acquirenti avrebbero pagato con valuta forte. Sarebbero occorsi anni prima che la Russia potesse mettere insieme il denaro necessario a consentire alle proprie industrie e ai propri consumatori di utilizzare il petrolio, ma, come succede a volte, il denaro ottenuto dalla vendita del greggio siberiano sarebbe stato probabilmente utilizzato per acquistare petrolio da altre parti, da cui fosse più facile trasportarlo nei porti russi e attraverso gli oleodotti russi già esistenti. La differenza monetaria risultante, a fronte della costruzione dell'enorme oleodotto, era trascurabile, e certe decisioni erano spesso prese più per ragioni politiche che economiche. In quello stesso momento, a soli novecentosessanta chilometri di distanza, un'altra squadra geologica si trovava all'estrema punta orientale della catena montuosa dei Sayan. Alcune delle popolazioni seminomadi della zona, che da secoli si guadagnavano da vivere portando al pascolo le renne, avevano consegnato a un ufficio governativo alcune rocce di un giallo splendente. Pochi al mondo ignoravano che cosa significassero quelle rocce, quanto meno nei precedenti trenta secoli, e una squadra di ricerca era stata subito spedita dall'Università di Stato moscovita, che era ancora l'istituto più prestigioso della nazione. La squadra si era spostata in volo, dato che le loro attrezzature erano molto più leggere, e aveva percorso le ultime centinaia di chilometri a cavallo, un anacronismo affascinante per quegli accademici, abituati a fruire dell'ottimo sistema metropolitano di Mosca. La prima cosa che trovarono fu un uomo sull'ottantina che viveva con le sue renne e un fucile per difendersi dai lupi; abitava solo dalla morte della moglie, avvenuta vent'anni prima, ormai dimenticato dai mutevoli governi del suo paese, e della sua esistenza erano al corrente solo pochi negozianti di uno squallido villaggio trenta chilometri più a sud. Il suo stato mentale rifletteva il lungo isolamento. Riusciva a uccidere tre o quattro lupi all'anno, e ne conservava le pelli come avrebbe fatto qualunque altro cacciatore-pastore, ma con una differenza... lui prendeva la pelle non conciata e dopo averla appesantita con delle pietre la collocava nel fiumiciattolo che scorreva accanto alla sua capanna. Nella letteratura occidentale è noto il mito di Giasone e degli Argonauti e della loro eroica ricerca del Vello d'oro. Solo in tempi recenti si era appreso che la leggenda vantava un fondo di verità: gli uomini di una tribù dell'Asia Minore sistemavano in acqua le pelli delle pecore per raccogliere la polvere d'oro che arrivava dai depositi a monte, trasformando le pallide fibre di lana in qualcosa dall'aspetto quasi magico. Lui non era diverso. Le pelli di lupo che i geologi trovarono all'interno della capanna del vecchio a un primo esame apparivano come sculture di maestri rinascimentali, o addirittura di artigiani dell'epoca dei faraoni, poi però i visitatori scoprirono che ciascuna pelle pesava un buon sessanta chilogrammi, e ce n'erano ben trentaquattro! Seduti con il vecchio davanti all'onnipresente bottiglia di vodka, appresero che il suo nome era Pavel Petrovic Gogol, che aveva combattuto contro i fascisti nella grande guerra patriottica come cecchino, e sorprendentemente era stato due volte eroe dell'Unione Sovietica grazie alla sua abilità di tiratore, soprattutto nelle battaglie che si erano combattute intorno a Kiev e a Varsavia. Una nazione più o meno grata gli aveva permesso di tornare alla sua terra avita... Gogol, saltò fuori, discendeva dai russi che nei primi anni del XIX secolo si erano trasferiti in Siberia, e lì era stato dimenticato dai burocrati che non si erano mai interessati più di tanto di sapere da dove venisse la carne di renna mangiata dai locali, né chi incassasse i suoi assegni della pensione per comperare munizioni per il suo vecchio fucile. Pavel Petrovic conosceva il valore dell'oro che aveva trovato, ma non ne aveva mai neanche speso una parte, soddisfatto com'era della sua esistenza solitaria. Il deposito aurifero a pochi chilometri a monte del luogo in cui i lupi facevano la loro ultima nuotata come Pavel Petrovic lo descrisse con un bagliore negli occhi e un sorso di vodka doveva essere degno d'attenzione, forse non meno della scoperta fatta in Sudafrica verso la metà del XIX secolo, e quella si era rivelata la miniera d'oro più ricca nella storia del mondo. L'oro siberiano non era stato scoperto per parecchi motivi, principalmente collegati al clima insostenibile della zona che, in primo luogo, aveva impedito ricerche più approfondite e, in secondo luogo, copriva di ghiaccio i corsi d'acqua per un periodo dell'anno così lungo che della polvere d'oro presente nei letti dei fiumi non ci si era neppure accorti. Entrambe le squadre di ricerca avevano in dotazione telefoni satellitari, il modo più rapido per riferire eventuali scoperte. Lo fecero entrambe, per coincidenza, lo stesso giorno. Il sistema di comunicazione satellitare Iridium che utilizzavano costituiva un enorme passo avanti nel campo delle comunicazioni globali. Mediante un apparecchio facilmente trasportabile era possibile comunicare con la costellazione di satelliti a bassa quota che incrociavano i loro segnali alla velocità della luce (il che significava quasi istantaneamente, ma non del tutto) con mezzi di comunicazione più convenzionali, e da lì con la terra, che era poi il posto dove la maggior parte della gente stava per la gran parte del tempo. Il sistema Iridium era stato concepito per rendere più veloci le comunicazioni mondiali. Tuttavia, non era stato ideato per essere un sistema sicuro. C'erano vari modi di renderlo tale, ma tutti esigevano che fosse l'utente ad attivare le varie procedure di sicurezza. In teoria era possibile rendere commercialmente disponibili i sistemi crittografici da 128 bit, e penetrare in questi era estremamente difficile perfino per le nazioni-stato più sofisticate e i loro servizi ombra... o almeno così dicevano i venditori. Ma era straordinario che fossero in pochi a preoccuparsene.
La loro pigrizia rendeva la vita molto più facile alla National Security Agency di Fort Meade, nel Maryland, tra Baltimora e Washington. Lì, un sistema informatico chiamato ECHELON era programmato per ascoltare qualunque conversazione attraversasse l'etere e individuare certe parole in codice. Buona parte di queste parole erano sostantivi con implicazioni legate alla sicurezza nazionale, ma dalla fine della guerra fredda, l'NSA e altre agenzie avevano cominciato a prestare più attenzione a questioni economiche e alcuni dei termini nuovi erano «petrolio», «deposito», «greggio», «miniera», «oro» e altri, in trentotto lingue diverse. Quando una di queste parole incrociava l'orecchio elettronico di ECHELON, il seguito della conversazione veniva registrato su strumenti elettronici e trascritto e, se necessario, tradotto dai computer. Non era un sistema perfetto ed era difficile che un software cogliesse certe sfumature linguistiche per non parlare della tendenza di molti a borbottare al telefono ma quando si verificava un inconveniente di questo tipo, la conversazione originale veniva rivista da uno dei molti linguisti che lavoravano alle dipendenze della National Security Agency. I due rapporti furono presentati a meno di cinque ore di distanza l'uno dall'altro, e risalirono rapidamente la catena di comando, per diventare una priorità «lampo» SNIE (Special National Intelligence Estimate) destinata a finire sulla scrivania del presidente appena questi avesse terminato la prima colazione, e che sarebbe stata messa lì dal consigliere per la sicurezza nazionale, dottor Benjamin Goodley. Fino a quel momento, i dati sarebbero stati esaminati da una squadra proveniente dal Dipartimento di scienze e tecnologia della Central Intelligence Agency, con l'assistenza di esperti sul libro paga del Petroleum Institute di Washington, alcuni dei quali erano in rapporti più che cordiali con alcune agenzie governative. La valutazione preliminare annunciata con cautela e presentata appunto come tale, preliminare, nel timore che qualcuno potesse venire accusato di essersi sbagliato se un giorno o l'altro si fosse rivelata scorretta utilizzava pochi superlativi scelti con cura.
«Maledizione», commentò il presidente alle otto e dieci del mattino.
«Okay, Ben, di che dimensioni stiamo parlando, esattamente?»
«Non si fida dei nostri tecnici?» chiese il consigliere per la sicurezza nazionale.
«Ben, quando lavoravo sull'altra sponda del fiume non mi è mai capitato di beccarli in errore una sola volta, ma che io sia dannato se non li ho beccati un'infinità di volte a sottovalutare qualcosa.»
Ryan tacque per un istante. «Ma, Gesù, se queste sono cifre prudenti, le implicazioni sono enormi.»
«Signor presidente» Goodley non faceva parte della piccola cerchia di intimi di Ryan «stiamo parlando di miliardi, esattamente quanti nessuno lo sa, ma diciamo duecento miliardi di dollari in valuta forte da guadagnare nei prossimi cinque, sette anni come minimo. Denaro che farebbe loro un gran comodo.»
«E come massimo?»
Goodley si appoggiò all'indietro sulla spalliera della sedia. «Ho dovuto controllare. Un trilione equivale a mille miliardi. E' pura speculazione, naturalmente, ma i tizi del Petroleum Institute che la CIA utilizza, mi hanno detto i ragazzi al di là del fiume che hanno passato la maggior parte del tempo a borbottare "merda secca".»
«Buone notizie per la Russia», commentò Jack sfogliando la stampata sulla SNIE.
«Proprio così, signore.»
«Era ora che avessero un po' di fortuna.» POTUS stava riflettendo ad alta voce. «Okay, ne faccia avere una copia a George Winston. Vogliamo una valutazione di ciò che questo significherà per i nostri amici moscoviti.»
«Pensavo di chiamare certe persone della Atlantic Richfield. C'erano anche loro in esplorazione e immagino che si divideranno i guadagni. Il loro presidente è un certo Sam Sherman. Lo conosce?»
Ryan scosse la testa. «Di nome, ma non ci siamo mai incontrati. Crede che dovrei rimediare?»
«Penso che non guasterebbe.» Ryan annuì. «Okay, forse dirò a Ellen di rintracciarlo.» Ellen Sumter, la segretaria personale del presidente, aveva la sua scrivania a una quindicina di metri di distanza, a destra della porta. «Che altro?»
«Stanno ancora cercando quelli che hanno fatto saltare in aria quel magnaccia a Mosca. Nulla di nuovo, per il momento.»
«Sarebbe carino sapere cosa succede nel mondo, di tanto in tanto, non crede?»
«Potrebbe andare peggio di così», gli ricordò Goodley.
«Giusto.» Ryan gettò sulla scrivania la copia stampata della riunione mattutina. «Altro?»
Goodley scosse la testa. «Ed è così che stanno le cose stamattina, signor presidente.» Con questo, si guadagnò un sorriso.
4. UNA MAGNIFICA OCCASIONE
Poco importava in quale città o paese eri, pensava Mike Reilly, il lavoro di polizia era uguale dappertutto. Parlavi con i testimoni, parlavi con le persone coinvolte, parlavi con la vittima. Ma questa volta la vittima non avrebbe detto alcunché. Avsienko non avrebbe parlato mai più. Il patologo assegnato al caso ebbe a dire che non aveva mai visto un tal casino da quando prestava servizio in Afghanistan. Ma questo era prevedibile. L'RPG era stato concepito per perforare veicoli corazzati e bunker di cemento, ben più resistenti di un'auto privata, anche una così costosa come quella che era stata colpita in Piazza Dzerzinskij. Questo significava che sarebbe stato difficile identificare le varie parti anatomiche. Saltò fuori, tuttavia, che mezza mascella aveva conservato denti a sufficienza per stabilire con un buon grado di certezza che il deceduto era davvero Gregorij Filipovic Avsienko. L'analisi del DNA lo avrebbe confermato in via definitiva (anche il gruppo sanguigno coincideva). Del corpo non era rimasto abbastanza da permettere un'identificazione. La faccia, ad esempio, non esisteva più, e così il braccio sinistro, che un tempo ostentava un tatuaggio. La morte era stata istantanea, riferì il patologo, dopo che i resti furono infilati in un contenitore di plastica che a sua volta finì in una scatola di legno di quercia in vista della probabile cremazione: la milizia moscovita doveva ancora accertare se il defunto aveva parenti e quali disposizioni avrebbero dato. Il tenente Provalov era incline a pensare che avrebbero scelto la cremazione. Era, a modo suo, più rapida e pulita, e certamente risultava più facile e meno costoso trovare un posto per una scatola di legno o un'urna piuttosto che per una bara con un cadavere dentro. Provalov portò il rapporto del patologo al suo collega americano. Non si aspettava che rivelasse qualcosa di interessante, ma una delle cose che aveva imparato frequentando l'FBI era che bisognava verificare tutto nei minimi dettagli, dato che prevedere il modo in cui si sarebbe risolto un caso era un po' come cercare di azzeccare l'esito di una partita quando i giocatori non erano ancora stati scelti. Il funzionamento di una mente criminale era semplicemente troppo casuale perché fosse possibile anticiparlo. E questa era stata la parte facile. L'esame effettuato dal patologo sui resti dell'autista si era rivelato essenzialmente inutile: gli unici dati di qualche interesse erano il gruppo sanguigno e i tipi di tessuti (che avrebbero potuto essere verificati visionando il suo fascicolo ospitato negli archivi dell'esercito, sempre che si fosse riusciti a trovarlo), dato che il corpo era stato dilaniato al punto da impedirne l'identificazione, anche se, perversamente, i documenti di identità erano intatti nel portafoglio, e questo era il motivo per cui l'identità del cadavere era praticamente certa. Lo stesso valeva per la donna, la cui borsa era rimasta intatta sul sedile posteriore il che era molto di più di quanto fosse rimasto del viso e del torace di lei. Reilly guardò le foto delle altre vittime; be', si doveva presumere che fossero adeguatamente somiglianti, si disse. L'autista era un tipo banale, forse di forma fisica leggermente superiore alla media. La donna, un'altra delle costose puttane di cui la polizia aveva una foto, era stata una bellezza, degna di comparire in un filmetto di Hollywood, e certamente abbastanza carina per comparire sul paginone centrale di «Playboy». Be', non più.
«Allora, Misha, ti sei occupato di crimini come questo così tante volte che non ti fanno più effetto?» chiese Provalov.
«Vuoi una risposta onesta?»
Reilly scosse la testa. «Non esattamente. Non ci occupavamo spesso di omicidi, fatta eccezione per quelli che si verificavano su terreni della proprietà dell'agenzia, riserve indiane e basi militari. Ho seguito parecchi sequestri, tuttavia, e a quelli non ci si abitua mai.»
Soprattutto, non aggiunse, dato che negli Stati Uniti i sequestri per denaro comportano la pena di morte. Ora i bambini venivano rapiti a scopo sessuale e quasi sempre uccisi nel giro di appena cinque ore, spesso prima che l'FBI rispondesse a una richiesta di aiuto da parte del dipartimento di polizia locale. Di tutti i crimini su cui Mike Reilly aveva lavorato, quelli erano di gran lunga i peggiori, del tipo che dopo andavi a infilarti nel bar dell'FBI locale ogni divisione ne aveva uno e bevevi molto oltre la misura mentre te ne stavi seduto in silenzio in compagnia di colleghi altrettanto muti e imbronciati, rompendo il silenzio solo per borbottare di tanto in tanto che avresti preso quel bastardo, a qualunque costo. E quasi sempre i bastardi venivano presi, processati e quindi condannati, e i più fortunati finivano nel braccio della morte. Quelli condannati a pene più leggere andavano a far parte della comune popolazione carceraria e lì scoprivano ciò che i rapinatori pensavano a proposito degli stupratori di bambini.
«Ma capisco che cosa vuoi dire, Oleg Gregorijevic. E' l'unica cosa che non è facile spiegare all'uomo della strada.»
L'aspetto peggiore dei luoghi che erano stati teatro di un crimine cruento e delle foto di autopsia era la tristezza, la consapevolezza che la vittima non era stata privata solo della vita, ma anche della dignità. E quelle foto erano particolarmente spaventose. Qualunque bellezza Maria Ivanovna Sablin avesse avuto un tempo, ora era solo un ricordo, conservato soprattutto dagli uomini che avevano pagato per il suo corpo. Chi piangeva una puttana morta? si chiese Reilly. Non i clienti, che sarebbero passati a un'altra senza pensarci troppo. Forse neppure le sue colleghe di quel commercio di carne e desiderio, e qualunque famiglia si fosse lasciata dietro l'avrebbe probabilmente ricordata non come una bambina che aveva finito per prendere una cattiva strada, ma come una persona che si era insozzata, fingendo passione senza provarne più di quanta ne provasse il patologo che aveva fatto a pezzi i suoi organi sul tavolo d'acciaio dell'obitorio cittadino. Era questo che erano le prostitute, si chiese ancora Reilly, le patologhe del sesso? Un crimine senza vittima, dicevano alcuni. Reilly avrebbe voluto che chi lo diceva guardasse quelle foto e vedesse quanto c'era invece della «vittima» nelle donne che vendevano il proprio corpo.
«Altro, Oleg?» domandò poi.
«Continuiamo a parlare con le persone che conoscevano i deceduti.» La risposta fu una stretta di spalle.
«Ha offeso le persone sbagliate», disse l'informatore con un'espressione che esprimeva quanto assurdamente ovvia trovasse la risposta alla domanda precedente. In che altro modo una persona della statura di Avsienko avrebbe potuto trovare la morte in maniera tanto spettacolare?
«E chi sarebbero queste persone?» chiese l'uomo della milizia. Non si aspettava una risposta significativa, ma l'aveva posta lo stesso, perché non si sapeva mai quale sarebbe stata la risposta finché non si era fatta la domanda.
«I suoi colleghi della Sicurezza di Stato», suggerì l'informatore.
«Eh?»
«Chi altro avrebbe potuto ucciderlo in quel modo? Una delle sue ragazze avrebbe usato un coltello. Un rivale d'affari della strada avrebbe usato una pistola o un coltello più grosso, ma un RPG... sia serio, dove diavolo l'avrebbero preso?» Non era il primo a dirlo, naturalmente, benché la polizia locale non ignorasse che armi di ogni tipo avevano lasciato in un modo o nell'altro i depositi di quella che una volta era l'Armata Rossa per arrivare al fiorente mercato delle armi destinate ai criminali.
«Hai qualche nome da farci?» chiese ancora il sergente della milizia.
«Un nome no, ma una faccia sì. E' un tipo alto, robusto, sembra un soldato, capelli rossastri, pelle chiara, qualche lentiggine da ragazzino, occhi verdi.» L'informatore fece una pausa. «Gli amici lo chiamano "il ragazzo" perché sembra molto giovane. Una volta era nella Sicurezza di Stato, ma non era una spia né un cattura spie. Era qualcos'altro, non so bene cosa.»
A quel punto, il sergente della milizia cominciò a prendere appunti con più impegno, i segni della matita più leggibili e molto più scuri sulla pagina gialla.
«Quest'uomo ce l'aveva con Avsienko?»
«Così ho sentito dire.»
«E la ragione del suo rancore?»
«Questo non lo so, ma Gregorij Filipovic aveva un modo tutto suo di offendere gli altri. Era molto abile a trattare con le donne, naturalmente. Per quello aveva un vero dono, che però non applicava ai suoi rapporti con gli uomini. Molti lo giudicavano uno zhopnik, ma naturalmente non lo era. Aveva una donna diversa tutte le sere, e mai una brutta, tuttavia per qualche motivo non andava d'accordo con gli uomini, neppure con quelli della Sicurezza di Stato, per la quale, diceva, era stato una specie di patrimonio nazionale.»
«Era questo che diceva?» Il sergente della milizia cominciava ad annoiarsi di nuovo. Se c'era una cosa che piaceva ai criminali era vantarsi, aveva avuto modo di rendersene conto centinaia di volte.
«Oh, sì. Gregorij Filipovic sostiene di aver fornito amanti a stranieri di ogni tipo, compresi alcuni ministri, e diceva che quelli continuano a fornire informazioni utili alla Madre Russia. Io ci credo», continuò l'informatore, divagando ancora una volta. «Per una settimana con uno di quegli angeli, parlerei alla grande.»
E chi non lo farebbe? si chiese il miliziano con uno sbadiglio. «Insomma, in che modo Avsienko avrebbe offeso questi uomini potenti?»
«Glielo ripeto: non lo so. Parlate con il "ragazzo", forse lui lo sa.»
«Si dice che Gregorij avesse cominciato a importare droga», riprese il poliziotto, gettando l'amo altrove e chiedendosi quali pesci restassero ostinatamente acquattati nelle acque immobili.
L'uomo annuì. «E' vero. Così si diceva. Ma io non ho mai trovato prove al riguardo.»
«Qualcuno invece lo ha fatto?»
Un'alzata di spalle. «Questo lo ignoro. Forse una delle ragazze. Non ho mai capito come lui contasse di distribuire ciò che pensava di importare. Usare le ragazze sarebbe stata una mossa logica, naturalmente, ma pericolosa per loro e per lui, perché le sue puttane non si sarebbero mantenute leali davanti alla minaccia del carcere. Quindi, che cosa ci rimane?» chiese l'informatore, retorico. «Avrebbe dovuto costituire un'organizzazione interamente nuova, e anche questo avrebbe comportato dei rischi, giusto? Quindi sì, credo che stesse pensando di importare droga per ricavarne grosse cifre di denaro, ma Gregorij non era uomo da accettare il carcere, e credo che si stesse limitando a pensarci, magari a parlarne un po', ma non più di tanto. Non credo che avesse preso una decisione in questo senso. Non ritengo probabile che abbia mai importato nulla prima di saltare in aria.»
«Rivali con gli stessi progetti?» chiese ancora il miliziano. «Ci sono persone in grado di trovarti cocaina e altre droghe, ma questo lo sapete già.» Il poliziotto alzò gli occhi. Di fatto, il sergente della milizia non lo sapeva per certo. Aveva sentito voci, mormorii, ma nessuna dichiarazione da parte di informatori di cui si fidasse (per quanto qualunque poliziotto di qualunque città potesse fidarsi davvero degli informatori). Come accadeva spesso, erano girate voci per le strade di Mosca ma, non diversamente dalla maggior parte dei poliziotti moscoviti, lui si aspettava che la droga comparisse prima a Odessa, una città le cui attività criminali risalivano al tempo degli zar e che oggigiorno, con il ritorno al libero commercio con il resto del mondo, tendeva a indirizzare la Russia... be', indirizzava la Russia verso ogni forma di attività illecita. Se a Mosca c'era un attivo traffico di droga, era una faccenda nuova e di portata così limitata che lui ancora non ci si era mai imbattuto. Prese mentalmente nota di verificare con Odessa, per vedere se qualcosa stesse effettivamente succedendo da quelle parti.
«Chi potrebbero essere queste persone?» chiese. Se a Mosca c'era un traffico in via di espansione, tanto valeva cercare di saperne il più possibile.
Il lavoro di Nomuri per la Nippon Electric Company comportava tra le altre cose la vendita di computer e periferiche ad alta tecnologia. Per lui questo significava il governo della Repubblica Popolare Cinese, i cui burocrati di grado più elevato dovevano avere necessariamente il meglio e il nuovo di ogni cosa, dalle auto alle amanti, pagate in ogni caso dal governo, che a sua volta prendeva il denaro dalla gente che i burocrati rappresentavano e proteggevano al meglio delle loro capacità. Come per molti altri prodotti, la Repubblica Popolare Cinese avrebbe potuto acquistare marche americane, ma in questo caso aveva preferito acquistare i computer giapponesi, leggermente meno cari (e meno sofisticati), così come sceglieva di comperare Airbus dagli europei piuttosto che Boeing dagli americani quella era stata una carta giocata pochi anni prima, tanto per dare una lezione agli americani. Per un po' l'America se l'era presa, poi però se n'era dimenticata, così come era solita fare in caso di piccole offese del genere, atteggiamento in netto contrasto con quello della Cina, che invece non dimenticava mai nulla.
Quando il presidente Ryan aveva annunciato il rinnovo del riconoscimento ufficiale americano del governo di Taiwan, le ripercussioni erano rimbombate attraverso i corridoi del governo di Pechino come una scossa di terremoto. Nomuri non viveva lì da tempo sufficiente per capire la gelida collera che quella iniziativa aveva generato, ma le scosse di assestamento erano state abbastanza significative e lui ne aveva udito echi fin dal suo arrivo a Pechino. Le domande che gli venivano rivolte erano talvolta così dirette e perentorie, che si scoprì a chiedersi se la sua copertura non fosse saltata e i suoi interlocutori non l'avessero riconosciuto come un agente operativo «illegale» della CIA nella capitale della Repubblica Popolare Cinese, del tutto privo di una copertura diplomatica. Ma così non era. Quella che percepiva era solo l'eco continua di una collera politica. Paradossalmente, il governo cinese stava cercando di accantonare quella rabbia perché doveva continuare a fare affari con gli Stati Uniti d'America, suo socio numero uno e fonte di grandi quantitativi di denaro in surplus di cui il governo aveva bisogno per fare le cose che Nomuri era stato mandato lì a scoprire. Ed eccolo lì, infatti, nell'anticamera dell'ufficio di uno dei funzionari di più alto grado della nazione.
«Buongiorno», disse rivolgendo un sorriso e un inchino alla segretaria. Lei lavorava per un ministro di nome Fang Gan come Nomuri sapeva, il cui ufficio era lì vicino. La donna era sorprendentemente ben vestita, per essere in un paese in cui la moda si limitava a influenzare il colore dei bottoni da cucire sulla giacca alla Mao che era parte integrante della divisa dei dipendenti governativi civili, così come la lana grigioverde lo era della divisa dei soldati dell'esercito di liberazione popolare.
«Buongiorno», rispose la giovane donna.
«Lei è il signor Nomuri?»
«Sì, e lei è...?»
«Lian Ming.» Un nome interessante, pensò Nomuri. Lian, in mandarino, significa «salice aggraziato». La donna era piccola, come gran parte delle donne cinesi, con un viso vagamente quadrato e gli occhi scuri. Il tratto meno attraente in lei erano i capelli, corti e tagliati secondo la peggiore moda americana degli anni Cinquanta. Con tutto questo, il suo era un viso cinese dei più classici, grandemente apprezzato in un paese tanto legato alla tradizione. Gli occhi, quanto meno, suggerivano intelligenza e istruzione.
«E' qui per discutere di computer e stampanti?» domandò la ragazza in tono neutro, perché aveva assorbito parte del senso di importanza del suo capo, convinto di occupare un posto centrale nell'universo.
«Infatti. Credo che troverete interessanti soprattutto le nuove stampanti ad aghi.»
«E per quale motivo lo crede?» volle sapere Ming.
«Parla inglese?» chiese Nomuri in quella lingua.
«Naturalmente», rispose lei adeguandosi. «E' semplice da spiegare. Se si traslittera il mandarino in inglese, parlo della sillabazione, allora la stampante commuta automaticamente gli ideogrammi mandarini, come si vede qui...» Estrasse un foglio di carta dalla cartelletta di plastica e lo tese alla segretaria. «Stiamo lavorando anche a una stampante laser che avrà un rendimento persino migliore.»
«Ah», fece la segretaria. La qualità dei caratteri era straordinaria, con ogni probabilità all'altezza di quella prodotta dalle mostruose macchine per scrivere che le segretarie dovevano utilizzare per i documenti ufficiali... in caso contrario bisognava tracciare i caratteri a mano e quindi riprodurli con macchine fotocopiatrici, quasi tutte Canon di produzione giapponese. Era un procedimento noioso, che portava via tempo ed era odiato dalle segretarie.
«E per quanto riguarda le variazioni di inflessione?» Domanda intelligente, pensò Nomuri. La lingua cinese dipende in gran parte dalle inflessioni. Il tono con cui una parola viene pronunciata determina il suo significato reale distinguendola tra almeno quattro opzioni diverse, ed è anche un fattore determinante per stabilire quale sarà l'ideogramma scelto.
«I caratteri compaiono sullo schermo del computer nello stesso modo?» domandò ancora la segretaria.
«E' possibile farlo. Basta un clic del mouse», le assicurò Nomuri. «Ma potrebbe esserci qualche problema di software, dato che dovreste pensare simultaneamente in due lingue», volle avvertirla con un sorriso.
Ming rise. «Oh, qui lo facciamo sempre.» I suoi denti avevano un gran bisogno di un buon dentista, notò Nomuri, ma non ce n'erano molti a Pechino, così come non c'erano esperti di specialità mediche borghesi come la chirurgia ricostruttiva. Ciononostante, l'aveva fatta ridere; era già qualcosa.
«Le interesserebbe una dimostrazione pratica?» chiese ancora l'agente sul campo.
«Sicuro, perché no?» Ming sembrò trovare deludente il fatto che lui non potesse farlo al momento.
«Molto bene, ma avrò bisogno dell'autorizzazione per portare di sopra l'hardware. I vostri addetti alla sicurezza, sa.»
Come ho fatto a dimenticarlo? si chiese lei, incassando con un batter di ciglia quel mezzo rimprovero. «Ha l'autorità per farlo o deve consultare un superiore?» Il punto più vulnerabile dei burocrati comunisti era il senso dell'importanza del posto che occupavano. Un sorriso carico di allusioni.
«Oh sì, posso dare l'autorizzazione io stessa.» Sorrise anche lui.
«Eccellente. Potrei essere qui per... diciamo alle dieci.»
«Va bene, all'ingresso principale. La aspetteranno lì.»
«Grazie, compagna Ming15», disse Nomuri con il suo più cortese (breve) inchino alla giovane segretaria e probabilmente amante del ministro per cui lavorava. Era, questo, un aspetto che conteneva alcune interessanti possibilità, ma con lei avrebbe dovuto agire con cautela, nell'interesse di entrambi, pensò mentre aspettava l'ascensore. Era per questo che Langley lo pagava così tanto, senza contare il principesco stipendio della Nippon Electric Company. Di quest'ultimo aveva bisogno per sopravvivere lì in Cina. Il costo della vita era già alto per un cinese, ma diventava stratosferico per uno straniero, perché per gli stranieri tutto era (e doveva essere) speciale. Gli appartamenti erano speciali, e quasi sicuramente pieni di «cimici» e anche il cibo che si acquistava nei negozi speciali era più costoso, ma riguardo a questo Nomuri non aveva obiezioni, dato che probabilmente era anche più sano. La Cina era quello che Nomuri chiamava un «paese da nove metri». Tutto sembrava perfetto, addirittura impressionante, finché si restava a una certa distanza. Dopodiché ti accorgevi che le parti non coincidevano poi così bene. Una realtà, questa, che trovò particolarmente inquietante quando salì in ascensore: vestito come era in abiti occidentali (i cinesi pensavano al Giappone come a un paese occidentale, cosa che avrebbe divertito parecchia gente, in Giappone come in Occidente), era stato immediatamente individuato come un qwi (un diavolo forestiero) prima ancora di guardarlo in faccia. Quando ciò accadde, le espressioni cambiarono, alcune a esprimere semplice curiosità, altre schietta ostilità, perché i cinesi non erano come i giapponesi, non avevano imparato a nascondere i propri sentimenti, o forse non gli importava di farlo, pensò l'agente della CIA dietro la sua migliore faccia da poker. L'aveva imparata a Tokyo, e bene, dato che occupava un così buon posto alla Nippon e non si era mai bruciato sul campo. L'ascensore scendeva senza scosse, ma c'era qualcosa di strano: forse ancora una volta i pezzi non coincidevano perfettamente. Nomuri non aveva mai provato nulla del genere in Giappone: con tutti i loro difetti, i giapponesi erano tecnici di grande competenza. Lo stesso valeva per Taiwan, ma a Taiwan, come in Giappone, il sistema capitalistico ricompensava i meriti con incarichi, profitti e stipendi che incitavano a svolgere un buon lavoro. Questo, la Repubblica Popolare Cinese doveva ancora impararlo. Esportavano molto, ma almeno per il momento si trattava di prodotti molto semplici nel design (come le scarpe da tennis), oppure eseguiti in perfetta conformità con standard stabiliti altrove e poi pedissequamente imitati (come i giochi elettronici). La situazione stava cambiando, naturalmente. Il popolo cinese non era meno intelligente degli altri e neppure il comunismo poteva mantenerlo così a lungo in quello stato di arretratezza. Ciononostante, gli industriali che cominciavano a rinnovarsi e offrire al mondo prodotti genuinamente innovativi erano trattati dal governo come... be', nella migliore delle ipotesi come contadini insolitamente produttivi. Non era una circostanza felice per quegli uomini utili che di tanto in tanto davanti a un bicchiere si chiedevano perché loro, gli unici a produrre ricchezza per la nazione, venissero trattati come... come contadini insolitamente produttivi, da quelli che si consideravano i signori del loro paese e della loro cultura. Mentre si dirigeva verso la sua automobile, Nomuri si chiese per quanto tempo quella situazione si sarebbe trascinata. Quello cinese, Nomuri lo sapeva bene, era un atteggiamento politico ed economico schizofrenico. Prima o poi, gli industriali avrebbero preteso di prendere parte all'attività politica del paese. Forse, anzi senza dubbio, alcune avvisaglie c'erano già state. Se così era, ai più audaci era stato fatto capire che è l'albero più alto quello che viene tagliato più in fretta, che è il pozzo con l'acqua più dolce quello cui si attinge di preferenza, e che chi grida più forte è il primo a essere tacitato. Così, forse gli industriali cinesi stavano aspettando il momento opportuno e intanto si guardavano intorno chiedendosi chi sarebbe stato il primo a correre il rischio, e se sarebbe stato ricompensato con la celebrità, l'onore e la fama di eroe o se, più probabilmente, alla sua famiglia sarebbe stato fatto pagare il proiettile 7,62SYMBOL 215 "Symbol" 1239 necessario per mandarlo all'altro mondo, che Buddha aveva promesso ma di cui il governo negava con disprezzo l'esistenza.
«Dunque non hanno ancora reso pubblica la scoperta», rifletté Ryan ad alta voce. «E' un po' strano.»
Ben Goodley rispose con un cenno affermativo. «Qualche idea del perché non abbiano ancora fatto trapelare nulla?»
«No, signore, a meno che qualcuno non stia pensando di convertirla in denaro, ma come esattamente...» CARDSHARP si strinse nelle spalle.
«Comprare azioni della Atlantic Richfield? O macchinari per gli scavi...»
«O magari acquistare semplicemente delle opzioni di alcuni terreni nella Siberia orientale», suggerì George Winston. «Non che una cosa simile sia mai stata fatta dagli onorevoli servitori del popolo.» Il presidente scoppiò a ridere così forte che dovette posare la tazza. «Certo non in questa amministrazione», sottolineò POTUS. Uno dei vantaggi che i media avevano con il team di Ryan era che molti dei suoi componenti erano magnati, non «uomini che lavoravano». Era come se i media pensassero che il denaro compariva nelle mani di quelle anime fortunate per miracolo o per qualche occulta attività criminale. Mai però grazie al lavoro. Era il più bizzarro dei pregiudizi politici, che la ricchezza non derivasse dal lavoro ma piuttosto da qualcos'altro, che non veniva chiarito ma che puzzava sempre di sospetto.
«Sì, Jack», replicò Winston ridendo a sua volta. «Ne abbiamo quanto basta per poterci comportare onestamente. E comunque chi diavolo ha bisogno di un giacimento petrolifero o di una miniera d'oro?»
«Si è saputo altro riguardo alle loro dimensioni?»
Goodley scosse la testa. «No, signore. Le informazioni iniziali sono ancora valide. Entrambe le scoperte sono di grandissima portata. Soprattutto il petrolio, ma l'oro lo tallona da vicino.»
«Questa faccenda dell'oro avrà pesanti ripercussioni sul mercato», profetizzò il ministro del Tesoro. «In relazione alla velocità con cui verrà resa nota. Potrebbe addirittura portare alla chiusura della miniera che abbiamo in Dakota.»
«Perché?» volle sapere Goodley.
«Se la miniera russa è ricca come i dati sembrano suggerire, potranno produrre oro con costi inferiori del venticinque per cento in confronto ai nostri, e questo a dispetto delle condizioni ambientali. La derivante riduzione del prezzo dell'oro a livello mondiale renderà antieconomico lo sfruttamento della miniera in Dakota.»
Winston si strinse nelle spalle. «Così a quel punto non dovranno far altro che aspettare che il prezzo torni a salire. Probabilmente, dopo l'iniziale frenesia i nostri amici russi rallenteranno la produzione in modo da incassare in maniera, diciamo, più organizzata. Quello che accadrà è che gli altri produttori, soprattutto i sudafricani, si incontreranno con loro per offrire consigli in merito a un'estrazione più efficiente. Di solito, i novellini ascoltano i consigli degli esperti. Per molto tempo i russi hanno coordinato la produzione di diamanti con quelli della De Beers16, ai tempi in cui il paese si chiamava ancora Unione Sovietica. Gli affari sono affari, anche per i comunisti. Allora, è pronto a offrire il nostro aiuto agli amici di Mosca?» chiese TRADER a SWORDMAN.
Ryan scosse la testa. «Non ancora. Non posso fargli sapere che sappiamo. Sergej Nicolay comincerebbe a chiedersi come facciamo a saperlo e probabilmente arriverebbe al SIGINT (Signal Intelligence and Comunications Intelligence) e questo è un modo di raccogliere informazioni che stiamo cercando di mantenere segreto.»
Probabilmente era uno spreco di tempo, Ryan lo sapeva, ma il gioco aveva le sue regole e tutti giocavano rispettandole. Potevano nutrire sospetti sul SIGINT, ma non ne avrebbero mai avuto la certezza. Probabilmente non smetterò mai di essere un «fantasma», riconobbe il presidente con se stesso. Conservare e proteggere i segreti era una delle cose che gli venivano più facili... un po' troppo, lo ammoniva spesso Arnie van Damm. Da un moderno governo democratico ci si aspettava che fosse più aperto, come una tenda strappata di una camera da letto che permette alla gente di guardare dentro ogni volta che lo desidera. Era questo un concetto che Ryan non aveva mai imparato ad apprezzare. Lui era quello che decideva che cosa la gente era autorizzata a conoscere, e quando. Era un punto di vista che seguiva anche quando sapeva di essere nel torto, e questo soltanto perché aveva imparato a servire il governo agli ordini di un ammiraglio di nome James Greer. Le abitudini sono dure a morire.
«Chiamerò Sam Sherman della Atlantic Richfield», propose Winston. «Se si apre con me, allora capiremo che la faccenda è alla luce del sole, o quasi.»
«Possiamo fidarci di lui?»
Winston annuì. «Sam gioca secondo le regole. Non possiamo chiedergli di scavalcare il suo consiglio di amministrazione, ma sa quale bandiera deve salutare, Jack.»
«Okay, George, un'indagine discreta.»
«Sì, signore, signor presidente, signore.»
«Maledizione, George!»
«Jack, quando diavolo imparerai a rilassarti un po'?» sdrammatizzò il ministro del Tesoro.
«Il giorno in cui potrò uscire da questo maledetto museo e tornare a essere un uomo libero», replicò Ryan con fare sottomesso. Winston aveva ragione: avrebbe dovuto imparare a mantenere un atteggiamento più rilassato quando era nel suo ufficio. Che saltasse su per un nonnulla non aiutava lui e soprattutto non aiutava il paese. Quel suo atteggiamento, inoltre, lo rendeva vulnerabile alle prese in giro del ministro del Tesoro, e George Winston era una delle persone che si divertiva a farlo... forse perché in definitiva lo aiutava a rilassarsi, pensò ora Ryan.
«George, perché pensi che dovrei rilassarmi in questo lavoro?»
«Perché sei qui per essere efficace, Jack, e tutta questa tensione non ti aiuta di certo. Rimanda la palla, ragazzo; magari scoprirai che per certi versi ti piace.»
«Per esempio?»
«Che diavolo!» Winston si strinse nelle spalle, poi indicò con un cenno la segreteria. «Ci sono un sacco di belle ragazzine, lì dentro.»
«Ora basta», esclamò Ryan iroso. Poi si rilassò e riuscì a mettere insieme un sorriso. «E comunque, sono sposato con un chirurgo. Il minimo errore, e rischio di svegliarmi senza qualcosa di parecchio importante.»
«Sì, immagino che non sarebbe un bene per il paese un presidente senza uccello. La gente potrebbe non rispettarci più.»
Winston si alzò. «Mi sa che devo tornare di là dalla strada, a studiare un qualche modello economico.»
«L'economia funziona?» chiese ancora POTUS. «Mark Gant e io non abbiamo di che lamentarci. Finché il presidente federale lascia inalterato il tasso di sconto, ma immagino che lo farà. L'inflazione è bassa, e non vedo alcuna pressione all'orizzonte.»
«Ben?»
Goodley scorse con gli occhi gli appunti, come se avesse dimenticato qualcosa. «Ci crederesti? Il Vaticano sta per nominare un nunzio papale nella Repubblica Popolare Cinese.»
«Eh?» fece Winston, fermandosi a metà strada.
«Che cosa significa, esattamente?»
«Il nunzio papale è essenzialmente un ambasciatore. La gente dimentica che il Vaticano è uno Stato autonomo, con tutti gli orpelli che si accompagnano al concetto di nazione. Tra queste, la rappresentanza diplomatica. Un nunzio è proprio questo, un ambasciatore e... uno "spettro"», spiegò Ryan.
«Sul serio?» fece Winston.
«George, quelli del Vaticano sono i Servizi Segreti più antichi del mondo. Vecchi di secoli. E, sì, il nunzio raccoglie informazioni e le trasmette alla sua sede... perché con lui la gente parla... a chi rivolgersi se non a un sacerdote? Di fatto, sono così bravi a raccogliere informazioni che di tanto in tanto abbiamo fatto qualche tentativo di intercettare le loro comunicazioni. Negli anni Trenta, un crittografo del dipartimento di Stato diede le dimissioni per questo motivo.»
«Lo facciamo ancora?» questa volta Winston si rivolse a Goodley, il consigliere per la sicurezza nazionale.
Lui guardò Ryan, dal quale ottenne un cenno d'assenso. «Sissignore. A Fort Meade si dà ancora un'occhiata ai loro messaggi. I codici sono un po' vecchio stile, e non abbiamo difficoltà a decodificarli.»
«E i nostri?»
«Quello utilizzato attualmente si chiama TAPDANCE. Le trasposizioni delle lettere sulla cassetta sono casuali, e di conseguenza teoricamente non decodificabili... a meno che qualcuno non ne scomponga e ne riutilizzi un segmento, ma con circa seicentoquarantasette milioni di trasposizioni quotidiane su CD-Rom, non è decisamente probabile.»
«E per quanto riguarda i sistemi telefonici?»
«Lo STU?» Goodley guardò il presidente e ne ricevette in cambio un altro segno d'assenso.
«Con una chiave di cifratura a otto bit generata da un computer. Ci si può entrare, ma c'è bisogno di un computer, dell'algoritmo giusto e di un paio di settimane come minimo, e più breve è il messaggio più è difficile entrarci. I ragazzi di Fort Meade stanno giocando con certe equazioni quantiche, ed evidentemente stanno ottenendo qualche successo, ma se vuole una spiegazione deve andare da qualcun altro. Io non fingo neppure di ascoltare», ammise Goodley. «E' roba talmente lontana per me che neppure riesco a vederla.»
«Sì, parla con il tuo amico Gant», suggerì Ryan. «A quanto pare, ne sa parecchio di computer. Anzi, magari potresti parlargli degli ultimi sviluppi russi. Forse lui sarà in grado di prevedere quali effetti avranno sulla loro economia.»
«Solo se tutti giocano secondo le regole», ricordò Winston. «Se andranno avanti con questa corruzione che sta, che manda in rovina qualsiasi affare, non ci sarà previsione che tenga, Jack.»
«Non possiamo permettere che accada di nuovo, compagno presidente», disse Sergej Nicolay davanti a un bicchiere mezzo vuoto di vodka. Era ancora la migliore del mondo, benché fosse l'unico prodotto russo di cui si poteva dirlo. Un pensiero, questo, che lo costringeva a interrogarsi su quello che la nazione era diventata.
«Che cosa propone, Sergej Nicolay»
«Compagno presidente, queste due scoperte sono un dono del cielo. Utilizzandole correttamente, potremmo trasformare la nostra economia... o almeno cominciare a farlo nel modo adeguato. I guadagni in valuta forte saranno colossali e potremo utilizzare quel denaro per creare le infrastrutture di cui abbiamo bisogno per trasformare effettivamente il paese. Se, voglio dire...» e qui alzò un dito ammonitore «se non permetteremo a pochi ladri di intascare il denaro per versarlo in qualche conto segreto a Ginevra o nel Liechtenstein. Lì non ci servirebbe a nulla, compagno presidente.»
Golovko non aggiunse che alcuni personaggi collocati nei posti giusti avrebbero beneficiato in maniera sostanziale delle nuove scoperte, e neppure che tra quelli ci sarebbe stato lui stesso, nonché il suo presidente. Era troppo chiedere a un uomo di rinunciare a una simile opportunità. L'integrità era una virtù che si riscontrava soprattutto in chi poteva permettersela, e al diavolo la stampa, pensò il funzionario dei Servizi Segreti. Che cosa avevano fatto loro per il suo paese o per qualunque altro? Tutto ciò di cui erano capaci consisteva nel denunciare l'onesto lavoro di alcuni e quello disonesto di altri, mentre di lavoro loro stessi ne facevano ben poco. Per di più, non era forse vero che erano corruttibili come chiunque altro?
«Chi otterrà la concessione per lo sfruttamento delle risorse?» chiese il presidente russo.
«Per quanto riguarda il petrolio, la nostra società di esplorazioni, più la società americana, la Atlantic Richfield. Hanno una certa esperienza nell'estrazione del petrolio in condizioni meteorologiche estreme e i nostri hanno molto da imparare da loro. Proporrei una forma di pagamento basata su onorari, generosi, ma nessuna percentuale sul giacimento stesso. Anche il contratto di esplorazione era di questo tipo, generoso in termini assoluti, ma non parlava di quote sui giacimenti eventualmente scoperti.»
«Per quanto riguarda la miniera d'oro?»
«Ancora più facile. Nessuno straniero ha avuto parte nella scoperta. Il compagno Gogol avrà un interesse, ovviamente, ma è un vecchio senza eredi e, sembra, un uomo di pretese semplici. Stando ai rapporti, a farlo felice basteranno una capanna ben riscaldata e un nuovo fucile da caccia.»
«E il valore di questa iniziativa?»
«Oltre i settanta miliardi. Tutto quello che dovremo fare sarà acquistare attrezzature speciali; le migliori sono prodotte dall'americana Caterpillar.»
«E' proprio necessario, Sergej?»
«Compagno presidente, gli americani sono nostri amici, per certi versi, e non ci farà male restare in buoni rapporti con il loro presidente. Inoltre, le loro attrezzature pesanti non hanno rivali al mondo.»
«Sono migliori di quelle giapponesi?»
«Per i nostri intenti sì, anche se un po' più costose.»
La gente è uguale dappertutto, pensava Golovko. A dispetto dell'istruzione che si riceveva quando lui era giovane, in ciascun uomo sembrava annidarsi un capitalista, sempre alla ricerca dei modi più efficaci per ridurre i costi e aumentare i profitti, spesso al punto da dimenticare nel percorso il quadro generale. Ma che diavolo, lui era lì per questo, giusto?
«E chi vorrà il denaro?» Una risatina, una delle poche che risuonavano in quell'ufficio:
«Compagno presidente, tutti vogliono il denaro. In termini più realistici, diciamo che in prima posizione ci sono le forze armate.»
«Naturalmente», assentì il presidente russo con un sospiro rassegnato.
«E' sempre così. Ora, qualche progresso sull'attentato alla sua auto?» chiese, alzando gli occhi dai documenti che aveva davanti.
Golovko scosse la testa. «Nessuno di rilievo, no. Al momento si pensa che il bersaglio fosse proprio quell'Avsienko e che l'automobile fosse una coincidenza. La milizia sta continuando le indagini.»
«Mi tenga informato, vuole?»
«Naturalmente, compagno presidente.»