Jean-Antoine Watteau, Scena dalla Commedia dell’Arte con Pierrot, particolare, 1720 ca, olio su tela, cm 63,8×76,2, Washington, National Gallery of Art
Watteau
La malinconia dolce
Nessun altro come lui ha dipinto un mondo che si stava sciogliendo nei meandri della Storia e che si sarebbe trasformato nel fiume della Rivoluzione. Forse per questo sono i suoi personaggi così melanconici, così disperatamente dolci nel loro inarrestabile tentativo di godere una vita che sfugge. Solo una veneziana altrettanto melanconica come Rosalba Carriera, lei testimone dell’altra grande decadenza della Serenissima, lo ha ritratto con quel mezzo sorriso che appare quasi una critica sociale. E negli anni del suo operare gli potrebbe essere di contrappunto solo il genovese Alessandro Magnasco, quando racconta i commedianti “sgarrupati” che festeggiano. Sembrano, infatti, tutti quanti attori delle memorie di Giacomo Casanova, a dimostrazione di quanto la fine di un’epoca possa essere struggente, e commuovere. Il XVIII secolo francese ed europeo fu costantemente contraddittorio, con gli enciclopedisti alla ricerca dei Lumi, Voltaire che difende le cause della libertà del pensiero, Rousseau che pone le basi d’una nuova sensibilità e, all’opposto, una classe nobiliare innegabilmente parassitaria che danza la sua ultima stagione.
Watteau cresce pittore in una Parigi che per certi versi assomiglia all’Europa di oggi: il passato è innegabilmente più fulgido del presente, e l’avvenire appare incerto. La gloria del Re Sole si sta lentamente spegnendo e fra poco inizierà la guerra europea per la successione di Spagna. La decadenza porta all’estetismo sottile tipico di ogni decadentismo. E gli anni successivi della Régence saranno quelli d’un disordine politico che offre un suo parallelo nella dissolvenza dei costumi: la Francia della nobiltà si fa irresponsabilmente allegra nel vuoto di potere stabile, dal 1715 alla maturità di Luigi XV, tredicenne nel 1723. Furono otto anni di malgoverno spensierato affidato al reggente Filippo d’Orléans e a quella curiosa forma di potere passata alla Storia come polisinodia: ogni ministro fu sostituito da un consiglio di reggenza, sotto lo sguardo del cardinale Dubois e del cardinale de Fleury e con l’illusione finanziaria dello scozzese John Law che ebbe la folgorante idea d’inventare la carta moneta per sostituire l’oro evaporato dalle casse di Stato dopo ottant’anni di grandeur e di guerre. La “moneta manovrata”, come verrà poi definita da Joseph Schumpeter in epoca recente, finì in un formidabile fallimento nazionale e Law se ne scappò a Venezia per inventare la prima lotteria. Intanto i commedianti recitavano, i musicisti suonavano e la buona società ballava, mentre l’occhio attento di Watteau ne descriveva i morbidi e morbosi piaceri. Nel 1721 Montesquieu pubblica le Lettres persanes (Lettere persiane), che sono la prima critica politica dell’epoca e uno degli spunti del primo Illuminismo.
Jean-Antoine Watteau, La lezione d’amore, 1716-1717 ca, olio su tavola, cm 43,8×60,9, Stoccolma, Nationalmuseum
Jean-Antoine Watteau, I commedianti francesi, 1720-1721, olio su tela, cm 57,2×73, New York, The Metropolitan Museum of Art
Jean-Antoine Watteau (1684-1721) era coetaneo del sommo musicista Jean-Philippe Rameau (1683-1764) che aveva scoperto il sentimento musicale a Milano esattamente come a Roma lo aveva scoperto Georg Friedrich Händel (1685-1759); erano questi due di poco più giovani di Antonio Vivaldi (1678-1741), che forse per primo elevò la melanconia a protagonista nella musica barocca. E Watteau diventa il narratore dall’occhio critico ma partecipe di questa società, ne racconta le feste bucoliche, quelle delle bergeries dove le contesse fingono d’essere pastorelle in quegli hameaux che piaceranno un giorno alla decadentissima Marie Antoinette nei giardini di Versailles presso il Piccolo Trianon, ma che già la regina dimissionaria Cristina di Svezia aveva concettualmente inventato, quando a Roma aveva favorito la fondazione dell’Accademia dell’Arcadia.
Come la musica, la commedia francese è allora in gran parte influenzata nel suo rinnovamento dalla Commedia dell’Arte veneziana e Fabio Antonio Sticotti vi porta la mutazione dello storico personaggio Zanni nel Pierrot francese, il quale smette le sue astuzie lagunari per innamorarsi con l’occhio languido della luna, quella della quale già Watteau s’era occupato con un simpatico dipinto giovanile che racconta Arlequin empereur dans la lune (Arlecchino imperatore della luna), un viaggio sulla luna che riprende in versione ironica la tradizione utopista inglese del secolo precedente. Innegabilmente, il quadro che riassume tutta l’esperienza iniziata allora con lo scenografo e costumista Claude Gillot, che lo prese a bottega all’inizio della sua carriera, è quel capolavoro del “suo” Pierrot. I protagonisti vi appaiono assenti, leggermente inebetiti nel tentativo di tirare per la corda l’asino al quale si deve l’unico occhio rivolto allo spettatore della scena. Conta molto l’asino nella critica sociale di quegli anni. Inconsapevolmente, nell’anno 1789 quando a Parigi viene presa la Bastiglia, Goya lo raffigura in mezzo a un sabba di streghe e quattro anni dopo, nel fatidico 1793 del Terrore parigino, Füssli, lo svizzero di Zurigo che furoreggia a Londra, lo raffigura in un sabba analogo.
Jean-Antoine Watteau, Arlecchino imperatore della luna, 1707 ca, olio su tela, cm 65×82, Nantes, Musée des Beaux-Arts