Gustav Klimt, Ritratto di Adele Bloch-Bauer II, particolare, 1912, olio su tela, cm 190×120, Collezione privata
Klimt
La fine dorata dell’impero
La sensazione di vivere sull’orlo dell’abisso era tangibile in quella Vienna imperial regia che correva lentamente verso la fine ingloriosa d’una Storia che apparentemente doveva essere eterna, piazzata nel bel mezzo delle correnti che costituivano l’Europa centrale d’allora, delle mille etnie, delle oltre venti lingue ufficiali o meno, delle religioni disparate o parallele. Era quello il mondo nel quale il professor Sigmund Freud aveva acceso un sigaro alla salute del despota illuminato, il kaiser Franz Joseph, che si era rifiutato di legittimare a sindaco di Vienna il candidato appena eletto Karl Lüger, noto antisemita, sostenendo che per lui imperatore tutti i sudditi pagavano le tasse e quindi erano uguali. Era quello il mondo delle contraddizioni perenni dove, nel 1905, Franz Lehár metteva in scena La vedova allegra e un anno dopo Gustav Mahler componeva i Canti per i fanciulli morti, due anni prima di inventare la formidabile e tesissima orchestrazione del Canto della Terra. È il 1906, l’anno dell’esordio letterario di Musil con I turbamenti del giovane Törless, l’anno nel quale Franz Kafka s’impiega alle Assicurazioni Generali di Trieste. L’anno nel quale Otto Wagner completa la chiesa di San Leopoldo, lui architetto dello Jugendstil che aveva iniziato la carriera con la costruzione della nuova sinagoga di Budapest nel 1872.
Era il mondo viennese un cosmo in costante contraddizione, dove la città era cresciuta su un formidabile e recente piano urbanistico negli anni successivi alla perdita dei possedimenti d’Italia. Se le capitali di Boemia e d’Ungheria, Praga e Budapest stavano sviluppando un proletariato moderno, la vecchia capitale diventava invece la città sempre più amministrativa d’un impero complesso. La storica nobiltà austroungarica, sostanzialmente di provincia, veniva sostituita da una nuova classe borghese, colta e cosmopolita, che spaziava dall’Adriatico al Danubio. Il caso di Adele Bloch-Bauer è in questo senso emblematico. Di famiglia ebraica proveniente da Praga, Ferdinand Bloch (1864-1945), re dello zucchero in un impero pieno di dolcini e di torte, sposa la bellissima Adele nel 1899, figlia del banchiere Moritz Bauer, direttore generale del Wiener Bankverein e presidente della Compagnia delle ferrovie orientali. La signora ha diciassette anni meno del marito e si diverte a dar vita al salotto più sofisticato della città, dove passano i politici socialdemocratici e pure gli intellettuali e gli artisti, da Gustav Mahler, d’origine ebraica, a Richard Strauss, di culto cattolico, allo scrittore Stefan Zweig. Vi s’incontra spesso il pittore preferito dalla padrona di casa, Gustav Klimt, il quale le dedica una serie lunghissima di esaltanti ritratti, usandola talvolta anche come pura modella per incarnare Giuditta.
Franz von Stuck, Il peccato, 1912, olio su tela, cm 88×52, Berlino, Staatliche Museen, Nationalgalerie
Gustav Klimt, Giuditta II (Salomè), 1909, olio su tela, cm 176×46, Venezia, Galleria internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro
Gustav Klimt, Giuditta, 1901, olio e oro su tela, cm 84×42, Vienna, Österreichische Galerie Belvedere
Gustav Klimt, Ritratto di Adele Bloch-Bauer, particolare, 1907, olio, argento e oro su tela, cm 140×140, New York, Neue Galerie New York
Mi piace pensare che vi passassero anche i fratelli Wittgenstein, il filosofo e il pianista, anche loro di origine ebraica, visto che la loro sorella era sempre stata ritratta da Klimt. Perché anche i genitori Wittgenstein tenevano un salotto nel quale approdava il nordico tardoromantico Johannes Brahms, un luterano che non si separò mai dalla Bibbia regalatagli alla nascita e che a Vienna la cattolica morì nel 1896; nelle stesse stanze, sullo stesso pianoforte regolarmente s’esercitavano le mani dell’innovatore Arnold Schönberg, pure lui ebreo ma sposato nella chiesa luterana con la nobildonna Mathilde von Zemlinsky; e accompagnato da quel pianoforte si esibiva il più inatteso dei violoncellisti, Pablo Casals, il catalano girovago.
Gustav Klimt, Margaret Stonborough-Wittgenstein, 1905, olio su tela, cm 179,8×90,5, Monaco, Bayerische Staatsgemäldesammlungen, Neue Pinakothek
Gustav Klimt, Adele Bloch-Bauer, 1903, carboncino su carta, cm 45,3×31,7, New York, Neue Galerie New York
Gustav Klimt, Adele Bloch-Bauer, 1911, matita su carta, cm 56,7×37,2, New York, Neue Galerie New York
Gustav Klimt, Il bacio, 1907-1908, olio su tela, cm 180×180, Vienna, Österreichische Galerie Belvedere
Gustav Klimt, Schizzi per il fregio con L’Albero della vita di Palazzo Stoclet, 1905-1909, acquerello e matita su cartoncino, cm 193,5×115, Vienna, Museum für angewandte Kunst
Era quello un mondo borghese e aristocratico che fu travolto dalla follia populista dell’imbianchino di Mein Kampf, l’Adolfo che non s’era accorto d’avere frequentato da bambino la stessa scuola elementare di Linz dove tre classi prima di lui studiava Ludwig Wittgenstein, il futuro filosofo. Poche opere meglio dell’autobiografia di Zweig Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo narrano questo mondo scomparso. Il libro fu pubblicato nel 1942 a Stoccolma mentre Zweig, fuggito dalla sua patria per colpa delle leggi razziali, si suicidava a Rio de Janeiro.