Duccio di Buoninsegna
Fra classico e moderno
Il 9 giugno 1311 veniva solennemente portata nella cattedrale di Siena la Maestà, opera di Duccio di Buoninsegna, alla quale l’artista senese aveva lavorato per tre anni sin dall’incarico ricevuto nel 1308. Era egli allora pittore cinquantaseienne, consideratissimo nella sua città, a tal punto che la somma erogata per la realizzazione dell’immenso polittico, cornice e pinnacoli gotici compresi, fu rilevantissima, come racconta il cronista contemporaneo Agnolo di Tura, e ammontava a 3000 fiorini. Duccio era assai stimato per la sua capacità artistica ben più, di sicuro, che per la sua correttezza amministrativa, visto che era regolarmente carico di debiti, dovuti, pare, a una personalità indomita e a pratiche fuori norma, come la supposta stregoneria per la quale ebbe da pagare una multa salatissima nel 1302.
Carattere grintoso, il suo, che ne fa un prototipo dell’artista moderno e che gli consentì di rompere con i parametri della pittura della sua epoca. A Cimabue, del quale fu inizialmente discepolo a Firenze, dovette la liberazione dagli stilemi fermi della pittura bizantina che fino a metà del XIII secolo era il paradigma incontrastato. A Siena dovette forse ancor di più, e in particolare alla cattedrale, quella per la quale Giovanni Pisano completò il lavoro del padre Nicola, l’inventore di una nuova lingua della scultura, dove le citazioni della romanità antica rispuntano come ispirazione inattesa. Giovanni fu capomastro della cattedrale dal 1285 al 1296: erano gli anni nei quali Duccio ricevette il primo incarico per realizzare i disegni della grande vetrata in facciata.
Giovanni Pisano, La strage degli innocenti, particolare del pulpito, 1298-1301, marmo, Pistoia, Sant’Andrea
Busto di Federico II di Hohenstaufen, 1245-1250, marmo, Barletta, Museo Civico
Lupa capitolina, bronzo, Roma, Piazza del Campidoglio
La scultura era stata la prima delle arti a rompere la bidimensionalità priva di prospettiva della visione bizantina e le forme primitiviste dell’estetica romanica. La scultura per prima riscoprì l’antichità come esempio da imitare, ed era assai comprensibile: i reperti lapidei che il passato romano aveva tramandato erano allora alla portata di tutti e Siena stessa aveva come simbolo la Lupa con Romolo e Remo. Nella romanità l’arte del XIII secolo ritrovò la pulsione espressiva e il pathos che andarono a cancellare la celeste bidimensionalità di Bisanzio. Siena allora era città concorrente di Firenze, negli affari, nella politica e nelle armi. Se Firenze era guelfa, Siena era ghibellina, ma a modo suo, conservando, appunto, la Lupa di Roma come simbolo e pronta al dialogo con gli stili che venivano dalla Francia di Carlo d’Angiò assieme al gusto gotico della facciata della cattedrale: continuò a sentirsi romana negli anni nei quali il papato si trasferiva ad Avignone.
Siena era un crocevia di merci e di informazioni, uno snodo nevralgico sulla via per Roma e per il vasto Meridione. Ma soprattutto, dopo la sanguinosa battaglia di Montaperti del 1260, Siena divenne la città ghibellina per eccellenza, alleata e influenzata dall’impero e quindi dalla raffinata cultura cortese federiciana che proveniva dal Sud d’Italia. Sei anni dopo, il regno del meridione veniva conquistato da Carlo d’Angiò, fratello di Luigi IX di Francia, il futuro santo, e Siena accolse pure i gusti di Francia.
Duccio di Buoninsegna, Storie della Vergine, 1287-1288, vetri colorati dipinti a grisaglia, cm 560×560, Siena, Museo dell’Opera della Metropolitana
La parola moderno ha una origine incerta. Molti ne discutono. Fra le varie etimologie proponibili la più affascinante è quella che vorrebbe che la parola sia la contrazione di Modus Parisiensis che serviva a definire la nuova calligrafia parigina nata presso la cancelleria di Saint-Denis quando fu introdotta la penna d’oca al posto del pennellino tradizionalmente usato per la scrittura, il che consentì allora una inattesa accelerazione della stesura dei testi. Ciò avvenne all’incirca nella seconda metà dell’XI secolo. Continuava questa calligrafia a convivere con quella ben più antica nata nella cancelleria carolingia due secoli prima, ma si diffuse con velocità in Europa. La sua caratteristica estetica, fatta di punte e di contrasti fra il levare stretto e il calare ben più spesso, ebbe non poca influenza nella formazione del gusto che un giorno verrà chiamato “gotico” e che a sua volta doveva molto alla scoperta dell’architettura ogivale che fu recepita immediatamente dai primi crociati tornati a casa. Il tutto andò a formare un gusto nuovo che si diffuse a raggiera attorno a Parigi.
Il gusto francese esisteva già nell’Italia meridionale per via dei cadetti che correvano verso la gloria in Terrasanta ma spesso si fermavano già nelle terre del Sud dove trovavano l’ulivo, la vigna e i fichi oltre alla possibilità di piccoli feudi che divennero stabili con la presa di potere angioina. Ancora oggi le famiglie del Meridione ne recano le tracce nei loro cognomi. Ecco l’origine dei Del Balzo, storica famiglia del Regno delle Due Sicilie, che provenivano dal piccolo paese fortificato di Les Baux-de-Provence, così come i Brienne per i quali Gualtieri V era nato ancora nella regione dello Champagne nel 1275 a Brienne-le-Château, di cui assunse il titolo di conte per meriti di Crociate, quella alla quale partecipò diventando poi meridionale italiano come conte di Conversano, di Lecce e infine duca d’Atene. Una Brienne, Isabella Jolanda, di un ramo della famiglia Brienne, andò in sposa all’imperatore Federico II nel 1225, portandogli in dote il regno di Gerusalemme. Questa storia assai lontana è giunta fino all’Unità d’Italia dove l’articolo Unico del testo del 17 marzo 1861 recita “Vittorio Emanuele II, re di Sardegna, di Cipro e di Gerusalemme, duca di Savoia, di Genova, ecc., ecc., ecc., Principe di Piemonte, ecc., ecc., […] assume per sé e i suoi successori il titolo di re d’Italia”. I secondi ecc. ecc. corrispondono anche tra l’altro al ducato di Genova. I primi ecc. sono innegabilmente più curiosi e discendono dall’epoca delle Crociate, quando per via di giri assai complicati d’origine francese e gotica, scritti allora sicuramente con la penna d’oca, si stabilì nel Mediterraneo uno sciame di nobili francesi, solitamente cadetti in cerca d’avventura, di gloria e di casato. Era già iniziata questa bizzarra storia quando Guillaume de Champlitte, terzo figlio del conte di Borgogna e nipote del conte di Champagne e come tale cavaliere prode senza terra, se n’andò a combattere nella quarta Crociata e vinse non la Terrasanta, dove non approdò mai, ma il principato di Acaia in Grecia, riprendendo il nome dagli Achei di Omero. Il titolo per matrimoni successivi finì ai signori di Racconigi in Piemonte! L’ultima regina nota di Cipro fu Caterina Cornaro. Le era venuto il titolo, lei figlia del doge di Venezia, per matrimonio con un Lusignano della famiglia dei conti di Angoulême che s’era vista evaporare politicamente nel conflitto fra i Plantageneti e il re di Francia e s’era poi fatta strada sempre nelle Crociate diventando regina di Cipro e di Gerusalemme. Carlotta, sorella di Caterina, ereditò tutto quell’ammasso di titoli, si sposò nel 1459 con Luigi I di Savoia e non avendo avuto figli lasciò gli stemmi a Carlo I di Savoia, dal quale arrivarono fino alla nostra Unità. E tutti quanti erano esteticamente gotici.
Duccio di Buoninsegna, Storie della Vergine, particolari, 1287-1288, vetri colorati dipinti a grisaglia, cm 560×560, Siena, Museo dell’Opera della Metropolitana
Duccio di Buoninsegna, Maestà, particolare, 1308-1311, tempera su tavola, cm 211×426, Siena, Museo dell’Opera della Metropolitana
Giovanni e Andrea Pisano, Statue di personaggi biblici, 1285-1297, marmo, Siena, Museo dell’Opera della Metropolitana
Duccio non ne sapeva forse niente. Ma quando spirava il vento dei commerci con il Meridione, quest’influenza franco-gotica lo coinvolse direttamente, sancita dal fatto che Carlo d’Angiò, fratello di san Luigi di Francia, essendo anche lui alla ricerca d’una corona, s’era conquistato il regno di Napoli strappandolo agli ultimi discendenti di Federico II. E con i commerci, come ben si sa, circolano anche le estetiche. A Siena, costantemente tirata fra guelfi e ghibellini, fra italianità e internazionalismo, il culto francese andava per la maggiore, e la corona che porta in testa la Madonna nel grande tondo di Duccio è identica a quelle della monarchia parigina, così come tutta la passione per le vetrate si ritrova ad avere un’origine assolutamente analoga. Le prime vetrate di somma qualità erano state realizzate in Assisi durante i papati francesi di Clemente IV, al secolo Guy de Foulques (papa dal 1265 al 1268), che fu il promotore dell’avventura italiana di Carlo d’Angiò. Era egli stato eletto dopo la morte di Jacques Pantaléon, nato in Champagne e diventato papa Urbano IV dal 1261 al 1264, e Urbano IV sicuramente aveva scelto questo nome in ricordo di Urbano II, che anche lui veniva dallo Champagne e aveva sul finire dell’XI secolo decretato la prima Crociata. Si concluse assai male la questione quando l’italianissimo Bonifacio VIII, quello che Dante avrebbe voluto all’Inferno, quello che verrà condannato per idolatria e che forse era solo il primo esaltatore del mito politico della personalità, viene preso a sberle e arrestato dagli uomini di Filippo il Bello di Francia per morire subito dopo nel 1303.
Duccio di Buoninsegna, Tentazione di Cristo sulla Montagna, tavoletta dal verso della Maestà, 1308-1311, tempera su tavola, cm 43×46, New York, The Frick Collection
Duccio riassume la complessità delle influenze componendo sensibilità, stile gotico e classicità. Lo fa in una città che ne percepisce immediatamente il significato, a tal punto che la processione inaugurale del polittico diventa una festa della fede e della politica al contempo, così come narra la cronaca di allora: “Ed il giorno che la Maestà fu portata nella cattedrale, tutte le botteghe rimasero chiuse e il vescovo guidò una lunga fila di preti e monaci in solenne processione. Erano accompagnati dagli ufficiali del Comune e da tutta la gente; tutti i cittadini importanti di Siena circondavano la pala con i ceri nelle mani, e le donne e i bambini li seguivano umilmente. Accompagnarono la pala tra i suoni delle campane attraverso la piazza del Campo fino all’interno della cattedrale con profondo rispetto per la preziosa pala. I poveri ricevettero molte elemosine e noi pregammo la Santa Madre di Dio, nostra patrona, affinché nella sua infinita misericordia preservasse la nostra città di Siena dalle sfortune, dai traditori e dai nemici”.
Il Codex Manesse dei primi anni del Trecento documenta assai bene questa mutazione della sensibilità: Federico imperatore vi è rappresentato in atteggiamento inatteso e umano con la seconda sfortunata moglie, la giovanissima Isabella di Brienne, regina di Gerusalemme.
Questa nuova sensibilità non apparteneva solamente alla corte sveva di Sicilia: la medesima mutazione cortese avveniva in Francia come ben lo testimonia il De Amore, testo di Andreas Capellanus scritto alla fine del XII secolo per la corte di Filippo Augusto.