Caravaggio, Sette opere di Misericordia, 1607, olio su tela, cm 390×260, Napoli, Pio Monte della Misericordia
1571~1610
Caravaggio
La luce e il teatro
Per niente apprezzato agli inizi del XX secolo, considerato troppo crudo e crudele nei fasti della Belle Époque, Caravaggio, il primo grande trasgressore dei parametri del gusto stabile, l’artista che pone fine alle ultime evoluzioni del manierismo e che getta le basi d’una sensibilità rinnovata, s’è fatto una delle figure più affascinanti della storia delle arti in Italia. Con lui si chiude definitivamente un ciclo durato un secolo e mezzo e che aveva creduto con fermezza nella necessità di modelli preesistenti come riferimenti da interpretare.
Solo da poco è stato scoperto il suo atto di battesimo nella parrocchia di Santo Stefano in Brolo a Milano, il che sfata quella origine agreste della bassa bergamasca alla quale si attribuiva il suo carattere indomito e indomabile e pone invece la sua formazione nell’ambito della città allora centro della Controriforma dominata dalla figura colta e austera al contempo del cardinal Federico Borromeo, quello dei Promessi sposi di Alessandro Manzoni. Cresce egli nella città dove Fede Galizia (1578-1630), rara donna pittrice, porta alla raffinata quintessenza la pittura della natura morta, assieme al suo collega cremonese coetaneo Panfilo Nuvolone.
Sente ancora le bizzarrie d’un Arcimboldo che ha preso la strada verso la capitale dell’impero mentre Milano invece si fa sempre più spagnola, ma di questo vastissimo mondo ispanico è innegabilmente la città più influente. E sente che la sua strada è quella di Roma. Un lombardo impulsivo nella città delle mille tentazioni che sta vivendo il momento della sua più forte mutazione urbanistica. È curioso il rapporto di date: nel luglio 1593 muore l’Arcimboldo a Milano proprio mentre Caravaggio fa fagotto per andare a Roma. Un ciclo si chiude. Ma s’era già chiuso un ciclo mondiale ben più importante: il 1588 segnava la prima implosione del sogno ispanico con il disastro della Invincibile Armata che avrebbe dovuto domare l’Inghilterra e che segnò invece l’inizio della lunga guerra delle Fiandre e il primo passo verso il dilaniarsi della successiva guerra dei Trent’anni. A Roma tutte le tensioni giungevano e si riassumevano.
Fede Galizia, Ritratto di Paolo Morigia, 1596, olio su tela, cm 88×79, Milano, Pinacoteca Ambrosiana
Giuseppe Arcimboldo, Ritratto di Rodolfo II in veste di Vertumno, 1591, olio su tavola, cm 70,5×57,5, Stoccolma, Skoklosters Slott, Styrelsen
Nel 1585, dopo i tredici anni del papato colto e bolognese di Gregorio XIII Boncompagni, quello d’ogni riforma compresa quella del calendario, l’uomo che aveva portato a compimento l’impianto del Quirinale, inizia un periodo di radicale mutazione della città. I cinque anni del papato successivo di Felice Peretti, francescano severo, eletto per durare poco e che fu invece col nome Sisto V forte riformatore e formidabile urbanista, trasformano la città. Urbano VII gli succede per tredici giorni soli nel 1590. Il lombardo Gregorio XIV regna meno d’un anno. Innocenzo IX dura due mesi nel 1591. Roma vive una sostanziale incertezza che verrà sedata da un papa d’origine borghese fiorentina, figlio d’avvocato, Ippolito Aldobrandini, il quale col nome di Clemente VIII (1592-1605) tutto sarà fuorché clemente, anche se fu politico internazionale di straordinaria abilità e ultimo protettore di Torquato Tasso. A lui si deve la nuova edizione dell’Index librorum prohibitorum e durante il suo permanere sul soglio di Pietro, Roma potrà assistere alla pubblica esecuzione nel 1599 dei Cenci, compresa la povera innocente Beatrice, accusati d’avere ucciso il conte loro padre, innegabile e dissoluto mascalzone. Gli studenti dell’Accademia di pittura di San Luca avranno l’opportunità di assistere alla decapitazione, privilegio nobiliare dei malcapitati, e prendere note grafiche che la pittura successiva restituirà con convinto realismo, quello che si ritrova nel getto di sangue della Giuditta e Oloferne dipinta immediatamente dopo.
Artemisia Gentileschi, Giuditta e Oloferne, 1612-1613, olio su tela, cm 158,8×125,5, Napoli, Museo di Capodimonte
E così il secolo si chiuderà mettendo al rogo il 17 febbraio del 1600 il filosofo domenicano Giordano Bruno in Campo de’ Fiori a Roma e poco dopo a Pordenone il mugnaio friulano Domenico Scandella detto Menocchio, colpevole d’avere interpretato in senso popolaresco le Sacre Scritture. Le elezioni papali successive tornano turbolente con l’ultimo Medici al quale il voto del 1° aprile non porterà bene perché defunge il 27 dello stesso mese. E giunge un altro papa avvocato e Borghese, di nome e di fatto, Paolo V al quale si deve la rappacificazione e l’uso dei baffi ben curati che tanto piaceranno sia al maturo Borromeo sia al giovane Bernini. Inizia l’epoca barocca vera e propria, che troverà nel potente papato Ludovisi gli anni della fondazione del De Propaganda Fide e nel lungo papato Barberini il suo apice teatrale ed estetico. Ma Caravaggio aveva già concluso la sua breve esistenza morendo sulla spiaggia dell’Argentario inseguito dalle polizie segrete di mezzo mondo in quel truce 1610 nel quale veniva ucciso Enrico IV di Francia e il suo assassino squartato da quattro cavalli in piazza a Parigi.
Caravaggio, Amore vittorioso, 1602, olio su tela, cm 156×113, Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie
Giovanni Baglione, Amor sacro e amor profano, 1602, olio su tela, cm 240×143, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica, Palazzo Barberini
Orazio Riminaldi, Amore vincitore, 1610-1630, olio su tela, cm 142×112, Firenze, Galleria Palatina di Palazzo Pitti
Dopo di lui la pittura non può più essere quella di prima: la crudeltà è stata sdoganata così come la raffigurazione del volgare. Per Caravaggeschi si intendono solitamente tutti gli artisti d’Italia come d’Europa che da lui imparano il gusto di una luce artificiale e artificiosa, la teatralità. È ovvio, tutti lo sanno, i quadri sono sempre stati dipinti per lo spettatore, ma solo con Caravaggio diventano tali tenendo conto della posizione dello spettatore, il quale li guarda come se fosse a teatro. Ecco perché la luce diventa quella delle fiaccole che allora illuminavano la scena teatrale. A teatro è fondamentale la posizione del pubblico per definire i movimenti di scena.
Me ne accorsi come in una rivelazione la prima volta che ebbi la fortuna di vedere la Conversione di san Paolo con l’esatto punto di vista del committente monsignor Cerasi: il dipinto è collocato nella cappella laterale sinistra di quella somma articolazione delle arti fra Cinque e Seicento che è Santa Maria del Popolo a Roma, anzi il quadro fu composto appositamente per la piccola dimensione di quella porzione dell’edificio ed era concepito per essere visto dall’inginocchiatoio posto dinnanzi all’altare, quindi necessariamente dal basso. Chi lo ha studiato sulla carta stampata d’una riproduzione è sempre stato ingannato da una visione centrale che forma un vortice vuoto nel quale la figura principale è quella del cavallo. Chi si pone nella posizione inginocchiata del committente che prega vede il dipinto deformato da una forte fuga prospettica, nella quale torna vivida in primo piano la figura di san Paolo riverso sulla schiena e illuminato dalla luce della conversione. La conversione non è solo quella di Paolo, ma quella dello spettatore che diventa voyeur della scena e questa mutazione della percezione diventerà un tema ricorrente della pittura barocca, fino allo splendido esempio di Guercino quando rappresenta trent’anni dopo Venere, Marte e Cupido, laddove ancora una volta la luce viene dalle torciere del boccascena, Marte entra dal retroscena e Cupido sta per scoccare una freccia direttamente nell’occhio di chi guarda.
Caravaggio, Conversione di san Paolo, 1601, olio su tela, cm 230×175, Roma, Santa Maria del Popolo, cappella Cerasi
A onore del vero questa scoperta della prospettiva visuale ha la sua origine più antica nella scultura gotica sulle facciate delle cattedrali, e Giovanni Pisano ne assorbe la lezione con maestria nelle prime sculture “classiche” per il Duomo di Siena, lezione che riprende senza esitazione Donatello per quelle della facciata del Duomo di Firenze. Ho spesso suggerito agli amici quando li ho accompagnati a vedere questi due straordinari musei di sedersi per terra in modo da poter contemplare i capolavori sotto la linea prospettica per la quale furono inventati, mentre normalmente il pubblico li ammira frontalmente in quanto così vuole il museo.