Jan Vermeer, Donna che legge una lettera davanti alla finestra, particolare, 1657 ca, olio su tela, cm 83×64,5, Dresda, Staatliche Kunstsammlungen, Gemäldegalerie
Vermeer
La luce esatta
Vermeer è l’artista della luce perfetta, della luce naturale: non potrebbe egli esistere senza la luce priva di sole che i cieli d’Olanda offrono a paesaggi infiniti e perfettamente percettibili. Non potrebbero i suoi interni vivere senza le finestre che gettano garbatamente questa luce nelle case borghesi della rivoluzione calvinista dei Paesi Bassi. In Vermeer circola sempre un’aria limpida, quella che da queste finestre e da questi cieli proviene. In lui la luce artificiale non è prevista. D’altronde potrebbero le merlettaie o i geografi rovinarsi gli occhi al lume di candela?
Una passione necessaria per la geometria è quella di un popolo di navigatori che appendono in salotto le carte geografiche. Una passione ulteriore per la geometria è quella di questi olandesi inventori di quello che sarà il gioco ufficiale dei britannici, il golf, che dovrebbe etimologicamente provenire dalla parola olandese kolf, la mazzetta che serviva alla propulsione sul ghiaccio usata per spingere la palla in una buca forata come quella utilizzata per la pesca. L’altro discendente della medesima passione per il tempo libero sui canali e le pozze ghiacciate diventerà a sua volta anglosassone e si chiamerà un giorno “hockey”.
L’arte di Vermeer è frutto del pensiero che nei medesimi anni si sviluppa vicino a casa sua. Lui nasce a Delft nel 1632; nello stesso anno ad Amsterdam nasce Baruch Spinoza, a sessanta chilometri di distanza. Poi Spinoza, dopo la “scomunica” dalla sinagoga per eccentricità teologiche nel 1656, a ventiquattro anni, si sposta a venti leghe di distanza da Delft, a Rijnburg, dove per campare farà il tornitore di lenti ottiche.
Jan Vermeer, Veduta di Delft, particolare, 1660 ca, olio su tela, cm 96,5×117,5, L’Aia, Mauritshuis, Koninklijk Kabinet von Schilderijen
Hendrick Avercamp, Paesaggio invernale sul fiume IJssel presso Kampen nei Paesi Bassi, 1615 ca, olio su tavola, cm 53×96,6, Londra, Guildhall Art Gallery
Carel Fabritius, Veduta di Delft con strumento musicale, 1652, olio su tela riportato su tavola, cm 15,5×31,7, Londra, The National Gallery
Sempre nel 1632 René Descartes, il filosofo francese rifugiato in Olanda, scriveva il Traité du monde et de la lumière, forse l’ultimo suo testo matematico e scientifico prima di passare alla speculazione filosofica pura. E Christiaan Huygens, amico suo, scopre nel 1655 Titano, la luna di Saturno, prima di esporre una teoria sulla luce che ne prevede già una ipotesi di materia o di energia, visto che ne teorizza il moto ondulatorio. Tutti si interessavano allora alla luce e all’ottica. È quasi certo che gli strumenti scientifici allora in voga abbiano influito in modo significativo sulla mutazione delle arti visive e abbiano spinto gran parte della scuola olandese di pittura a un’attenzione assai precisa per le regole che ne discendevano. L’ottica è sia luce sia prospettiva. Tutto si fa prospettiva in quel mondo borghese perfetto.
Jan Vermeer, Gentiluomo e dama alla spinetta (Lezione di musica), particolare, 1662 ca, olio su tela, cm 74×64,5, Londra, Royal Collection Trust, Buckingham Palace
Emanuel de Witte, Interno con donna alla spinetta, 1665-1670 ca, olio su tela, cm 77,5×104,5, Rotterdam, Museum Boijmans van Beuningen, in prestito da Institut Collectie Nederland
Pieter de Hooch, Interno olandese con concertino, 1663, olio su tela, cm 100×119, Cleveland, Cleveland Museum of Art
Jan Vermeer, Il concerto, particolare, 1658-1660 ca, olio su tela, cm 72,5×64,7, Boston, Isabella Stewart Gardner Museum
Pieter de Hooch, I giocatori di carte, XVII secolo, olio su tavola, cm 67×77, Parigi, Musée du Louvre
Jan Vermeer, La lettera d’amore, 1669, olio su tela, cm 44×38, Amsterdam, Rijksmuseum
Tre pittori, Vemeer, Pieter de Hooch ed Emanuel de Witte sembrano giocare sulla medesima scena. La musica c’entra sempre, con le armonie parallele della luce e delle specchiature. C’è sempre uno specchio appeso nel quale la scena si riflette. E se manca lo specchio la fanciulla si riflette nella finestra aperta. D’altronde cent’anni dopo, quando Giovanni Sebastiano Bach andrà a comporre le varie declinazioni della sua Arte della fuga, indicherà le diverse possibilità di porre in contrappunto il tema e uno dei percorsi verrà indicato con il nome di spiegelformig (rispecchiato).
Petrus Christus, Un orefice nella sua bottega (Sant’Eligio?), particolare, 1449, olio su tavola, cm 100,1×85,8, New York, The Metropolitan Museum of Art
Quentin Metsys, Il banchiere e sua moglie, particolare, 1514, olio su tavola, cm 70,5×67, Parigi, Musée du Louvre
Le scene avvengono sempre su quei pavimenti bianchi e neri i quali a loro volta assumono ritmi diversi dal medesimo sapore musicale. I pavimenti servono a inventare giochi di perenni geometrie. Le piastrelle di marmo a terra, come in una scacchiera, provengono quelle nere dalle vicine Ardenne e quelle bianche dalla Toscana, dove le navi cariche di stoffe che approdano alla città consorziata di Lucca ripartono appesantite di marmo di Carrara per garantire la linea di galleggiamento. Le infilate delle stanze diventano cannocchiale, inventato ufficialmente in quegli anni da Galileo, ma che già il tedesco Hans Lippershey aveva prodotto a Middelburg, nei Paesi Bassi, dove fu brevettato nel 1608. Ma non è solo la lente d’ingrandimento che ossessiona questi seri borghesi; la medesima attenzione viene già dalle antiche specchiature convesse che appaiono nel Ritratto dei coniugi Arnolfini di Van Eyck ma che tornano in Petrus Christus, in Quentin Metsys e in tanti altri.
In quel mondo borghese perfetto tutto si fa virtù domestica. Eccole quindi le fanciulle intente a suonare la spinetta o a ricamare pizzi. E Vermeer in un certo senso si mette pure lui a ricamare i suoi dipinti, poiché abbandona ogni fascino materico, quello che fece la fortuna di Rembrandt nella generazione precedente, per andare a cercare la vibrazione in una pittura fatta da piccoli colpi di pennello che anticipano in modo miracoloso la pittura puntinista di luce trasparente di Seurat oltre due secoli dopo. Per raggiungere lo scopo si fa maniaco quasi scientifico dei pigmenti usati, con quel blu eccellente che proviene dal trito di lapislazzuli.
Di lui rimane un catalogo ristrettissimo di trentasette opere ed è assai evidente che non ne abbia dipinte molte di più; l’attenzione richiedeva un tempo lungo per la loro realizzazione e, benché il mercato dell’arte fosse allora florido perché ogni buon borghese acquistava, alla sua morte molte erano rimaste nello studio e la moglie le cedette assieme alla casa per coprire i debiti d’un artista che la sua epoca non aveva riconosciuto come creatore di successo.
Verrà egli riscoperto sul finire del XIX secolo, quando la luce, quella naturale degli impressionisti e dei loro successori, tornerà a essere protagonista del vedere. La merlettaia per esempio verrà acquisita dal Louvre nel 1870 quando il museo francese la ricomprerà da Eugène Féral che la aveva appena acquistata all’asta battendo il concorrente Boijmans, l’industriale che fonderà il museo omonimo ma che non se la sentiva, da buon olandese, di spendere così tanto. E Renoir si emoziona e la vorrà considerare il più bel dipinto del mondo.
Jan Vermeer, La merlettaia, 1669 ca, olio su tela riportato su tavola, cm 23,9×20,5, Parigi, Musée du Louvre
Jan Vermeer, Il geografo, 1668 ca, olio su tela, cm 52×45,5, Francoforte, Städelsches Kunstinstitut und Städtische Galerie
Jan Vermeer, Donna in azzurro che legge una lettera, 1663 ca, olio su tela, cm 46,6×39,1, Amsterdam, Rijksmuseum
Il mito comincia a formarsi in opposizione alla pittura aulica degli italiani classici. Nel XX secolo, il secolo della fotografia, diventerà questo mito un assoluto imprescindibile della storia dell’arte.