Vincent van Gogh, Autoritratto, dedicato a Paul Gauguin, 1888, olio su tela, cm 59,6×48,3, Cambridge MA, Harvard University, Fogg Art Museum
1853~1890
Van Gogh
Un mistico borghese
Vincent van Gogh, nato nel 1853 nel Brabante d’Olanda, rimane tuttora un mito fra i maledetti dell’arte, fra Paul Verlaine, il poeta anche lui venuto al mondo nelle brume francofone di Metz in Lorena nel 1844, e Arthur Rimbaud, nato a Charleville, in Francia, ma a un passo dalla frontiera belga, nel 1854.
Destini diversi e ansie parallele.
Attratti tutti dal sole del Sud, quel meridione francese che è l’opposto delle loro terre di nascita e dove, probabilmente a Marsiglia, Rimbaud muore dopo i suoi mitici e misteriosi traffici africani. Ad Arles succederà il dramma del taglio dell’orecchio di Van Gogh, e non si sa tuttora se si sia trattato di una folle automutilazione oppure se sia stato il risultato della lite per una prostituta con l’altro parigino fuggito al Sud, il suo amico del cuore Paul Gauguin, che immediatamente dopo troverà il sole definitivo e perenne a Tahiti, dove muore forse per essere stato condannato da un poliziotto locale a tre mesi di reclusione.
Mossi tutti dal sole, dal colore giallo cromo che l’industria chimica ha da poco inventato, e che probabilmente ha avvelenato Van Gogh che lo spalmava con le mani, lo stesso giallo della sua casa gialla di Arles in Provenza. Mossi tutti pure da una fortissima passione sociale, quella che Van Gogh scopre nelle militanze giovanili in miniera, Rimbaud cantando i poveri disgraziati, Gauguin denunciando un poliziotto per traffico di schiavi.
Étienne Carjat, Ritratto di Charles Baudelaire, 1863 ca, fotografia, New York, The Metropolitan Museum of Art
Scrive Verlaine una quartina di versi che vale per tutti e quattro:
Je suis l’Empire à la fin de la décadence,
qui regarde passer les grands Barbares blancs
en composant des acrostiches indolents
d’un style d’or où la langueur du soleil danse.
Sono l’Impero alla fine della decadenza
che guarda passare i grandi Barbari bianchi
componendo acrostici indolenti
d’uno stile d’oro dove il languore del sole danza.
Sembra la descrizione degli ultimi dipinti di Van Gogh, quei campi di grano dorato, agitati dal vento sotto un sole ripetuto dall’angoscia della follia dove volano i corvi.
Esistenzialisti ante litteram loro, che nulla hanno a che vedere con la rivoluzione successiva di quel buon borghese meridionale che è Cézanne il quale, benché nato nel 1839, è già cittadino provenzale di Aix-en-Provence, e il sole lo possiede assieme alla conseguente inclinazione formale, a quella passione per la forma che il primo meridionale di successo, Dominique Ingres, aveva celebrato a Parigi scoprendola a Roma. Con Cézanne il creare torna nell’ordine olimpico della calma, quella che per Matisse si risolverà in una nuova visione mediterranea, quando nel 1904 dipinge in Costa Azzurra Luxe, calme et volupté parafrasando la poesia di Baudelaire.
Paul Verlaine, 1880 ca, fotografia
Vincent van Gogh, Teschio con sigaretta, 1886, olio su tela, cm 32,3×24,8, Amsterdam, Van Gogh Museum
Vincent van Gogh, Quattro girasoli appassiti, 1887, olio su tela, cm 60×100, Otterlo, Rijksmuseum Kröller-Muller
Vincent van Gogh, Campo di grano con corvi, 1890, olio su tela, cm 50,5×103, Amsterdam, Van Gogh Museum
I maledetti invece sono tutti condannati a una sorte fatale, tutti alla ricerca di un riscatto impossibile dove l’arte diventa la missione per la salvezza. Gauguin corre verso la mistica pagana di Tahiti dopo avere celebrato quella cristiana durante la sua formazione bretone a Pont-Aven. La salvezza Van Gogh la cerca già nelle miniere del Belgio, quando vi va a fare il predicatore missionario e inizia a scoprire la pittura per narrare la sorte della povera gente, quei miserabili mangiatori di patate, terrei come i tuberi che consumano. Una scelta radicale è la sua: nato figlio di pastore protestante, con uno zio ammiraglio all’Aia, frequenta le migliori scuole della sua terra e impara il francese, il tedesco e l’inglese. A sedici anni va a lavorare nella sede dell’Aia, fondata da suo zio, della prestigiosa ditta internazionale parigina di commercio d’arte Goupil & Cie, e girerà fra le altre sue sedi, quella di Amsterdam, quella di Parigi e poi di Londra. Non tollera il mercato, si licenzia e va a fare il predicatore. Nel 1876 pronuncia il suo primo sermone alla Wesleyan Methodist Church di Richmond. Torna in Olanda e scappa in Belgio a predicare fra i minatori. Rimane un artista intellettuale, contorto e sofferto, informato lettore come appassionato curioso, passa naturalmente dalla Bibbia a Dickens, dal museo alle stampe giapponesi.
La pittura sarà la sua salvezza, la sua condanna, la sua follia.
La beat generation della seconda metà del XX secolo era drammaticamente esistenzialista e rifiutava ogni condiscendenza verso i decori. Gli esistenzialisti della medesima epoca erano altrettanto severi e Jean-Paul Sarte collezionava in una casa straripante di arredi esclusivamente pipe, un po’ come se avesse convissuto con il fantasma di Magritte. E il padre della metafisica Giorgio de Chirico aveva dipinto negli anni Venti una bella natura morta dal titolo J’aime les fruits, je déteste les fleurs. Eppure i padri veri dell’esistenza portata agli estremi, Van Gogh come Gauguin e Redon, andavano pazzi per dipingere vasi di fiori che apparentemente potevano piacere solo alle loro zie. Ma vi è ben di più secondo Baudelaire:
Vincent van Gogh, Il giardino dell’ospedale di Arles, 1889, olio su tela, cm 73×92, Winterthur, Sammlung Oskar Reinhart
Odilon Redon, Gran mazzo di fiori di campo, 1910 ca, pastello su carta, cm 82×60,5, Collezione privata
Les plus rares fleurs | I fiori più rari |
Mêlant leurs odeurs | confonderebbero i loro odori |
Aux vagues senteurs de l’ambre, | ai vaghi sentori dell’ambra, |
[…] | […] |
La splendeur orientale, | lo splendore orientale |
Tout y parlerait | tutto parlerebbe |
À l’âme en secret | nel segreto dell’anima |
Sa douce langue natale. | nella sua dolce lingua natia. |
Vincent van Gogh, Mazzo di fiori in un vaso, 1889-1890 ca, olio su tela, cm 65×54, New York, The Metropolitan Museum of Art
Odilon Redon, Ofelia tra i fiori, 1905-1908 ca, pastello su carta, cm 64×91, Londra, The National Gallery
Winston Churchill, Vaso di tulipani rossi (da Cézanne), 1957, olio su tela, cm 72,1×41,9, Dallas, Dallas Museum of Arts
Vi è in questa pittura un’attenzione mista alla poesia, al decadentismo, al gusto delle stampe giapponesi, alla vita intima e domestica che testimonia una visione del mondo assai particolare, quella dove il garbo della vita privata diventa una sorta di rifugio dai tormenti dell’anima. Avranno loro tutti, forse, solo due emuli pittori nel XX secolo, tutti e due intimi e silenti nella loro vita appartata, Giorgio Morandi e Filippo de Pisis; a meno che non si voglia pagare un tributo particolare a uno dei maggiori intellettuali protagonisti del percorso caotico dell’epoca, sir Winston Churchill.
Questa mutazione del gusto verso l’intimismo è una caratteristica profonda della cultura ottocentesca borghese e mantiene forse viva la pulsione simbolica già inventata dal giovane Novalis nel 1800 nel suo romanzo Heinrich von Ofterdingen quando parla della blaue Blume, il fiore azzurro che potrebbe per alcuni essere il fiordaliso e per altri più probabilmente il Myosotis che tanto colpiva la fantasia bucolica del XIX secolo. Ed è lo spirito che rileva Van Gogh nelle sue diverse declinazioni, da quelle esterne a quelle dei bouquet recisi, quelli dei girasoli che sembrano appartenere già alla poetica di Jacques Brel:
…et ils tournent et ils dansent | …e girano e ballano |
comme des soleils crachés | come stelle alla deriva |
dans le son déchiré | nel suono lacerante |
d’un accordéon rance. | d’una fisarmonica stonata. |