Antoon van Dyck, Lord John Stuart e suo fratello Lord Bernard Stuart, 1638 ca, olio su tela, cm 237,5×146,1, Londra, The National Gallery
Van Dyck
Artista fortunato
Esistono diverse tipologie di artisti, da quelli maledetti a quelli benedetti, da quelli impegnati nelle fatiche del creare a quelli fortunati. Antoon van Dyck (pronunciare “fandaijk”) appartiene all’ultima di queste categorie: fortunato di nascita in quanto figlio di una famiglia numerosa e agiata che commercia con Francia e Inghilterra le più opulenti delle sete, fortunato perché trova subito un posto nella sublime bottega del principe dei pittori, Rubens, fortunato perché viene preso a dipingere ventenne presso la corte di Giacomo I Stuart a Londra, fortunato perché quest’impegno è morbido e gli lascia il diritto di una breve licenza che diventa un viaggio di otto anni nell’Italia delle prime esaltazioni barocche. Fortunato ancora, successivamente, quando torna alla corte inglese di Carlo I Stuart come pittore di corte ma dove muore giovane, quarantaduenne. La fortuna non dura all’infinito e otto anni dopo anche il suo patrono e re finirà la carriera sotto la scure della rivoluzione puritana. La sua fortuna è di famiglia, di carriera e di prospettiva: anticipa egli con un inatteso intuito estetico le eleganze britanniche del primo romanticismo ritrattista già quando a quattordici anni esegue quel morbido autoritratto che precede una lunga serie di riflessioni narcisiste che hanno un parallelo solo nell’opera di Rembrandt.
Antoon van Dyck è sicuro di sé sin dai primi passi. Il percorso che Rubens ha compiuto con il lungo soggiorno italiano diventa anche per lui propedeutico. Ancora una volta, la fortuna di essere già presentato dal maestro nelle famiglie di Genova gli consente una entratura successiva a Roma. Gli sarà utilissima la visita nella più ricca delle pinacoteche, quella dei Gonzaga, mantovani, anche loro protettori di Rubens; passa per Milano e Torino dove Emanuele Filiberto di Savoia si fa ritrarre nella più costosa delle armature e nello stile di quel Rubens, che era ancora sobrio quando era in Italia, e il principe lo porta con sé in Sicilia dove è viceré per conto di Filippo II di Spagna. A Torino si lega a Tommaso Francesco di Savoia, il noto principe di Carignano che ritroverà come reggente dei Paesi Bassi del Sud per conto del re di Spagna e che ritrarrà in un capolavoro equestre del 1634. Van Dyck ha imparato la lezione di Rubens e sa che le buone relazioni di mondo sono la base per la libertà pittorica.
Antoon van Dyck, Ritratto del principe Tommaso Francesco di Savoia Carignano a cavallo, 1634, olio su tela, cm 315×236, Torino, Galleria Sabauda
Torna in Inghilterra nel 1632 portandosi appresso come souvenir d’Italia un autoritratto con il girasole. È egli ormai il ritrattista preferito del mondo cattolico, quello dell’Anversa ispanica come dell’Inghilterra stuardiana. Straordinario nella sua enfasi sarà il ritratto equestre del principe di Carignano dove la criniera e la coda del cavallo hanno la stessa morbidezza dei boccoli fluenti del cavaliere, il che corrisponde alla moda d’allora della pettinatura alla chevalier che costringerà Luigi XIII di Francia, mentre sta perdendo i capelli, a inventare quella parrucca che diventerà d’obbligo con il suo successore, il re Sole, e per conseguenza di moda per l’Europa intera. Quanto sono debitori questi ritratti equestri alle splendide statue che Francesco Mochi aveva realizzato in bronzo a Piacenza attorno al 1625 per i due Farnese e dove Alessandro Farnese appare già in quella posizione, eroica quanto quella del cavallo, lui figlio del nipote di papa Paolo III e di Margherita d’Austria, la figlia naturale e legittimata di Carlo V e come tale governatrice dei Paesi Bassi Spagnoli.
Antoon van Dyck, Autoritratto, 1622-1623, olio su tela, cm 116,5×93,5, San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage
Antoon van Dyck, Triplo ritratto di Carlo I, 1653, olio su tela, cm 84,4×99,4, Londra, Royal Collection Trust
Lorenzo Lotto, Triplice ritratto di orefice, 1530-1535, olio su tela, cm 52,1×79,1, Vienna, Kunsthistorisches Museum
Philippe de Champaigne, Triplo ritratto del cardinal de Richelieu, 1642 ca, olio su tela, cm 58,7×72,8, Londra, The National Gallery
Thomas Sully, Madame Jérôme Bonaparte (Elizabeth Patterson), 1805-1810 ca, acquerello su avorio, cm 9,7×8,9, New York, The Metropolitan Museum of Art
Dante Gabriel Rossetti, Rosa triplex (Triplice ritratto di May Morris), 1874, matita, acquerello e guazzo con gomma arabica su carta, cm 77,5×88,3, Collezione privata
La corte d’Inghilterra sarà da quel momento in poi il suo luogo prediletto. Carlo I ha compiuto il più colossale degli acquisti d’arte che la storia moderna fino ad allora avesse potuto documentare. I Gonzaga a Mantova sono a un passo dal fallimento; il duca Vincenzo II è alla disperata ricerca di danaro per coprire le necessità finanziarie di un ducato che da lì a poco verrà schiacciato dai conflitti europei riversati sull’Italia. Il mercante veneziano Daniele Nys trova in Carlo I Stuart l’acquirente ideale e la Celeste Galleria prende la sfortunata via del mare dove alcune opere fondamentali verranno perse in naufragio. Ma ciò che arriva è sufficiente a far germogliare una nuova cultura pittorica e plaude Van Dyck nel trovarsi a disposizione i capolavori che già in Italia aveva conosciuto. Curioso destino dei dipinti: il triplice ritratto di Lorenzo Lotto diventerà il modello del triplice ritratto che Van Dyck fa di Carlo I, quello di Van Dyck diventerà il modello di quello che Philippe de Champaigne farà pochi anni dopo del cardinale di Richelieu, il che verrà ripreso agli inizi del XIX secolo per ritrarre Elizabeth Patterson, l’americana di Baltimora che sposa Jérôme Bonaparte, il fratellino dell’imperatore, e poi ancora una volta, quando il romanticismo si farà acuto nel preraffaellismo, da Dante Gabriel Rossetti per ritrarre la sua bella. I grandi artisti lasciano grandi tracce.