Canaletto, Arrivo dell’ambasciatore francese a Venezia, particolare, 1730 ca, olio su tela, cm 181×260, San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage
Canaletto
La narrazione infinita della laguna
È assai evidente che la vasta quantità di dipinti che Antonio Canal ha dedicato alla sua città di Venezia erano ben raramente destinati ai veneziani, che quelle vedute le vedevano ogni giorno. Chi le comperava era quel pubblico cosmopolita che fra Seicento e Settecento intraprendeva il viaggio nelle meraviglie d’Italia, quello passato alla storia con il nome di Grand Tour e al quale dobbiamo la parola moderna “turismo”. A lui, Canaletto, si deve l’invenzione di quel gran teatro immaginario che è Venezia tuttora; e nel mondo del teatro s’era egli infatti formato, dipingendo i fondali per le opere di Antonio Vivaldi, mestiere che gli aveva insegnato il padre. La scenografia fu l’inizio fortunato d’una carriera che lo portò a Roma a far fondali per l’altro genio della scena ch’era il napoletano Alessandro Scarlatti. Ed è forse questo il motivo per il quale i suoi dipinti successivi hanno una curiosa connotazione, quella d’una cifra costante che sembra collegare con le vedute le loro morbidezze sonore e armoniche.
In realtà a Roma scopre un genere che va di gran moda per le famiglie locali e per i viaggiatori che da quelle parti concludono il giro turistico. È quello del paesaggismo di Giovanni Paolo Pannini e d’un olandese che sta facendo carriera, Gaspar Adriaensz. van Wittel (italianizzato in Gaspare Vanvitelli), e che avrà un figlio, Luigi Vanvitelli, il quale sarà maestro delle nuove architetture progettando la reggia di Caserta. Gaspar a Roma viene soprannominato Gaspare degli Occhiali perché si occupa di ottica come molti fra gli olandesi d’allora e con sé aveva portato una scatola ottica. Per Canaletto la lezione è immediata e in tutta la sua professione ulteriore passerà addirittura dalla camera ottica al prisma ottico, più facile ancora da maneggiare per tracciare le perfette proiezioni dei suoi paesaggi d’architettura lagunare. Il risultato che ottiene è eccezionale. Le architetture sono precise, le prese di vista inconfutabili.
Ma v’è di più nella sua pittura, se la si paragona a quella dei vedutisti suoi contemporanei. In Canaletto permane la sensazione della temperatura dell’aria, del suo grado di umidità, forse addirittura della leggera brezza che quest’aria muove. Nessuna fotografia moderna riesce a restituire una simile sensazione di vero. Chi guarda una fotografia capisce che di fotografia si tratta, chi guarda con lenta partecipazione un dipinto di Canaletto viene carpito da una sensazione ben più ampia, che corrisponde a una sembianza di percezione concreta.
Il segreto consiste nell’abbandono d’ogni libertà gestuale pittorica, quella che rende talvolta la materia così affascinante nel suo successore Francesco Guardi. È invero l’eccezionale semplificazione del segno pittorico che consente a chi guarda una rielaborazione cerebrale automatica dei dati, che porta a impressione di verità, la medesima forse che traspare oltre un secolo dopo dalle pratiche di Monet. I due artisti hanno in comune il senso della luce e la semplicità del segno che la rappresenta.
Canaletto, Arrivo dell’ambasciatore francese a Venezia, 1730 ca, olio su tela, cm 181×260, San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage
Vittore Carpaccio, Storie di sant’Orsola, Incontro della santa con lo sposo, particolare, 1495, tempera su tela, cm 280×611, Venezia, Gallerie dell’Accademia
Canaletto, Regata sul canal Grande, 1740 ca, olio su tela, cm 122,1×182,8, Londra, The National Gallery
Jan van der Heyden, Veduta del Municipio della città di Amsterdam, 1688, olio su tela, cm 73×86, Parigi, Musée du Louvre
Gaspare Vanvitelli, Veduta della Villa Medici a Roma, 1685, olio su tela, cm 29,5×40,5, Firenze, Galleria Palatina di Palazzo Pitti
Camera oscura e camera oscura portatile, tavola IV dall’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert, 1751-1752, incisione, Collezione privata
Camera oscura, 1750 ca, Collezione privata
Le piccole onde in laguna che Canaletto pone con banalità solo apparente e frustrando ogni voglia di pittura espressiva, quella così cara ai suoi predecessori veneziani, sono dipinte con un tale senso di riduzione visiva da evitare ogni confusione estetica nella lettura rielaborativa della mente. E così la sua narrazione diventa reale e quindi infinita; ogni angolo di città o di canale può essere replicato senza noia. Tutto sempre con la languida colonna sonora della musica veneziana dello stesso suo Settecento, nella quale appaiono i personaggi come piccole comparse necessarie, testimonianza del brulicare della vita, la medesima che agita e anima le commedie di Carlo Goldoni e che già animava i dipinti di Carpaccio. In questo suo dipingere splendide cartoline ricordo del viaggio in Italia sta anche la radice della sua immediata fortuna internazionale, quella che spinse il console inglese Smith a spedirne decine nella sua isola e a diffonderne il mito nelle brume britanniche. Aveva il console scoperto a Venezia la sua seconda patria e vi morì quasi novantenne, a riprova che l’aria di laguna e la musica veneziana facevano già allora bene alla salute.