Paolo Veronese, Le nozze di Cana, particolare, 1563, olio su tela, cm 666×990, Parigi, Musée du Louvre
Veronese
Sensualità in villa
Era come se la Serenissima Repubblica avesse sentito che gli equilibri del mondo mediterraneo stavano per cambiare definitivamente. Il collasso del mondo bizantino dopo l’assedio del 1453 aveva tolto a Venezia gran parte dell’influenza sull’Oriente, anche se nel 1480 Gentile Bellini si trovava a ritrarre Maometto II, che aveva conquistato Costantinopoli. In realtà, già Venezia sentiva il proprio destino legato più alla penisola d’Italia che alle avventure di mare sin dalla dedizione di Verona ai dogi, che risaliva al 1405 come quella di Padova, e quella di Vicenza l’anno precedente. Era come se la Serenissima si fosse aspettata un mutamento degli equilibri prima che la Storia li facesse precipitare. Nel 1426 anche Brescia diventa “dominio di terraferma” e, due anni dopo, la medesima sorte tocca a Bergamo. I tentativi di tenere sotto controllo i mari, fra vittorie e sconfitte, furono scanditi dalle varie battaglie di Lepanto, dalla prima – drammatica, del 1499 – alla quarta, vittoriosa con tutti gli alleati d’Occidente del 1571, la quale però non era riuscita a ristabilire il dominio sull’Oriente. Il mondo dell’Europa meridionale stava ormai inclinando verso le Americhe. Venezia a sua volta si stava girando, ben oltre la “terra” delle vicinanze lagunari, alla “terraferma” d’Occidente nell’Italia del Nord. Inutilmente le potenze d’Europa e il papato congiunti avevano tentato di fermarne l’avanzata: la battaglia di Agnadello nel 1509, quella della disfatta veneziana e dell’affermazione delle ambizioni francesi di Luigi XII sul ducato di Milano, segnò solo un punto transitorio quanto doloroso di arresto dell’espansione, ma non una mutazione di tendenza. La Serenissima aveva ormai un territorio stabile che ne cambiò il destino, da avventuriera dei mari a organizzatrice delle tenute agricole attorno alle ville della nobiltà. Il sogno politico senatoriale romano che ne aveva forgiato l’etica si trasferiva nella romanità estetica riscoperta nelle architetture di Palladio e dello Scamozzi. E la pittura seguiva l’esempio della politica.
Paolo Veronese, Convito in casa di Levi, 1573, olio su tela, cm 555×1280, Venezia, Gallerie dell’Accademia
Paolo Veronese, La morte di Procri, ante 1584, olio su tela, cm 162×190, Strasburgo, Musée des Beaux-Arts
Se ancora Carpaccio aveva dipinto architetture immaginate all’interno d’una fantasia tardogotica o neoantica e posate sulle isole della laguna, il Veronese, Paolo Caliari, questa medesima passione per l’architettura la riprendeva con parametri neoclassici autenticamente rinascimentali, secondo i dettami stilistici di Palladio. Lavorarono fianco a fianco già nella Villa Barbaro nella campagna di Maser, si ritrovarono sull’isola di San Giorgio e Veronese pose lì il suo capolavoro, Le nozze di Cana, che Napoleone vittorioso non esitò a portarsi a Parigi due secoli e mezzo dopo. Oggi un’eccellente riproduzione, tecnicamente sorprendente, è tornata a prendere il posto dell’opera originale e l’atmosfera che offre al visitatore la fa apparire più autentica di quella posta nella sala del Museo del Louvre.
Il dipinto, oltre a essere una dimostrazione religiosa a uso dei benedettini del monastero più antico della città, è una sorta di manifesto dell’agiatezza veneziana nella seconda metà del Cinquecento. Questa festosa rappresentazione è al contempo un tripudio di architettura e di opulenza vestiaria, di cibo e di vino. A tal punto che il padrone di casa è raffigurato come un moderno sommelier che assaggia in un bel bicchiere soffiato di vetro muranese un vino rosso del quale ammira la tonalità di colore. Tutta la scena appare – all’opposto di ciò che avviene nella pittura del veneziano oriundo contemporaneo Tintoretto – all’aria aperta, come se ci si trovasse in una delle ville di terraferma, come se si stesse dalle parti natali del pittore. E ancora, tutta questa scena si svolge entro un’architettura totalmente palladiana. E in primo piano, sotto la figura di Gesù, suona un’orchestrina, e davanti ancora a tutti nobilmente preludono alla scena due cani. “Cani e nobili veneziani non aprono le porte con le mani” è il detto degli abitanti della laguna: c’è sempre un servo pronto a farlo per conto loro. Ed è sempre ancora un bel cagnone il personaggio in prima fila del Convito in casa di Levi, dipinto dieci anni dopo, dove ancora una volta Gesù è al centro, oltre il cane e prima di una esposizione di architetture. Ricompaiono centrali altri due cani, questa volta intenti a giocare con un gatto, nella Cena in casa di Simone, anche questa volta in una composizione che si articola a cannocchiale attorno all’architettura. E appariranno un secolo dopo un poco più randagi tollerati nei dipinti di Canaletto.
Il Veronese è un esaltatore dei sensi, anzi addirittura della sensualità. Non gli è estranea l’esperienza di Tiziano, l’altro foresto che, assieme al campagnolo Giorgione, aveva portato i lagunari all’aria aperta e aveva fatto scoprire loro il fascino discreto delle Veneri. In Veronese le arti tutte si sommano in un sunto di teatralità e, assieme alle arti, i sensi, dalla musica, alla percezione visiva degli spazi fino all’attenzione tutta agricola per il contenuto dei piatti e dei bicchieri.