L’occhio lombardo
Nord e sud d’Italia sono davvero così distanti?
Sì, se si pensa alle abitudini alimentari: polenta e spaghetti per esempio sono l’ossimoro italico perfetto, l’accostamento impossibile degli opposti. Un po’ meno, se si guarda alla storia dell’arte e in particolare alla pittura, dove nord e sud si fondono a volte in modo inatteso.
La Brescia di Romanino e Moretto
Per approfondire l’indagine pittorica e studiare quel particolare modo di vedere che chiamerei l’occhio lombardo, partiamo dalla Val Trompia. All’inizio del Quattrocento, in provincia di Brescia, nasce un artista fondamentale: è Vincenzo Foppa, che lavorerà in quell’area e fino a Milano, lasciando una serie di segni che sembrano mescolarsi culturalmente con il Veneto, ma che hanno un’origine arcaica così fortemente gotica da far capire che nel suo sangue scorre il cromosoma longobardo. Venezia ha grande influenza sui suoi territori occupati, ma non riesce a rompere equilibri preesistenti, quelli delle valli, le radici del gusto della Val Trompia con i tromplini, della Val Camonica con i camuni e quelli della Val Brembana, non per nulla antenati di Pacì Paciana, sorta di Robin Hood della bergamasca, brigante idolo delle folle, che hanno una forza propria tanto autonoma da tracciare un percorso preciso nella storia della pittura.
Nel 1516, dopo il sacco francese per mano di Gaston de Foix, quando Brescia torna definitivamente sotto il dominio della Serenissima, sarà modificato il piano urbanistico e Venezia vi manderà i suoi migliori artisti a operare: solo allora si avrà una contaminazione e un cambiamento nel gusto.
La chiesa di San Nazaro e Celso contiene forse il più bel quadro di Moretto, l’Incoronazione della Vergine e santi, con vesti svolazzanti perfette e un san Francesco con le stigmate. E dietro l’altare, il capolavoro di Tiziano giovane, con un Cristo risorto del 1520-1522, che influenza tutti gli artisti locali.

Moretto, Incoronazione della Vergine e santi, 1534, olio su tavola, cm 400x198, Brescia, San Nazaro e Celso
La città conserva una preziosa raccolta di opere del Moretto, nella Pinacoteca Tosio Martinengo (attualmente non visitabile), che permette un’indagine attenta dell’artista. Alessandro Bonvicino, detto il Moretto, si forma alla scuola di Vincenzo Foppa e del Romanino, altro pittore tutto lombardo, assolutamente concreto. Nella Cena in Emmaus di Girolamo di Romano, detto il Romanino appunto, la parte inferiore del dipinto è estremamente rivelatrice con la sua brocca posata realisticamente per terra e una ciotola dimenticata sopra a coprirla, le frange della tovaglia, un tavolo intarsiato con un gusto perfetto e dietro un Cristo che curiosamente ha i calzari. Sulla destra, un piedone che più popolare di così non si potrebbe immaginare. Il giovanotto di servizio è ammiccante ed equivoco.
Brescia in effetti si trova a metà strada fra la Lombardia e Venezia e passa dal cupo di alcuni sentimenti tizianeschi a un senso di realismo perenne, come nelle facce della Natività, dove la Madonna e san Giuseppe non potrebbero essere più locali: una Madonna contadina dal labbro umido e un Giuseppe operaio. Divina è la scena perché divina è la seta del manto della Madonna.

Vincenzo Foppa, I tre crocifissi, 1450 ca, tempera su tavola, cm 68x38, Bergamo, Accademia Carrara

Tiziano, Polittico Averoldi, 1520-1522, olio su tavola, cm 278x253, Brescia, San Nazaro e Celso

Romanino, Cena in Emmaus, 1532-1533, affresco strappato, cm 297x249, Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo
Moretto impara l’arte dal Romanino e in particolare proprio il gusto per le stoffe, come si può vedere nell’Incoronazione della Vergine e santi.
La Cena in Emmaus di Moretto, della metà degli anni venti del Cinquecento, è un vero capolavoro, equilibrato, maturo e ritmato. La composizione ha il rigore di una scena teatrale e riprende il meglio delle lezioni dei suoi anni, quella di Tiziano e di Lorenzo Lotto. Il tavolo è disposto, come nella Cena in Emmaus del Romanino, in modo prospettico, ma con un dettaglio in più: una vera gallina lessa posata su un autentico piatto di peltro, probabilmente già caduto e ammaccatosi, in mano all’unico personaggio vestito alla perfezione, una fanciulla lussuosa nel vestito e assolutamente agreste nella faccia locale.
Questo senso della realtà è bizzarrissimo. Il realismo delle vesti dei due bambini protetti da san Nicola nella Pala Rovelli, muta già il suo senso perché assume piccole valenze romantiche, là dove l’architettura, sullo sfondo, mostra la propria antichità.

Romanino, Natività, particolare, 1525, olio su tela, cm 240x180, Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo

Romanino, Natività, intero, 1525, olio su tela, cm 240x180, Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo

Romanino, Incoronazione della Vergine, particolare, 1545, olio su tela, cm 450x335, Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo
Immagine di un mondo antico che il cristianesimo sta superando con la nascita del Salvatore, nella grande Natività con i pastori, san Gerolamo e un donatore, dove ricompaiono le rovine, segno di un tempo che passa come la scortecciatura degli alberi. Mentre è perfettamente contemporaneo il bacile con l’acqua in ottone tornito, roba da bresciani. E il cesto, al di là del significato liturgico dei panni, con quello rosso che allude alla Passione, preannuncia già il cesto famosissimo che più tardi dipingerà Caravaggio.

Moretto, Cena in Emmaus, 1526, olio su tela, cm 147x305, Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo

Moretto, Pala Rovelli, particolare, 1539, olio su tela, cm 245x193, Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo

Moretto, Natività con i pastori, san Gerolamo e un donatore, particolare, 1550 ca, olio su tela, cm 412x276, Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo
Realismo e pathos: perfettamente realista la croce e pathos totale quello dell’angelo che piange, nel Cristo e l’angelo. E infine scene assolutamente normali lasciano spazio a verismi che riappariranno solo nella pittura del XIX secolo.
Il capolavoro ligneo di Lotto
Spostiamoci di valle e andiamo in Val Brembana. Bergamo Alta ha una stratificazione architettonica densa di qualità che ruota intorno alla cattedrale di Santa Maria Maggiore, con quello che era il suo Battistero, costruito dall’architetto scultore Giovanni da Campione e spostato, all’inizio del XX secolo, dalla sua posizione originaria di fronte al duomo. La Cappella Colleoni, opera rinascimentale di Giovanni Antonio Amadeo, presenta campionari di colonne d’ogni stile, per dimostrare quanto possa il gotico essere internazionale, e statue dal sapore nordeuropeo. Il portone di Santa Maria Maggiore è sempre trecentesco con facce forti, rudi e locali, mentre l’interno è un incontro di materiali d’ogni sorta: il legno, lo stucco, la pittura, la tappezzeria di Bruxelles, nulla a che vedere con il rigore austero della Lombardia milanese. Forse è stata l’influenza veneziana a cambiare il tono, ma probabilmente la questione è molto più profonda e lontana nel tempo. L’interno manierista e poi barocco si annida nell’edificio romanico come la polpa nel guscio d’un frutto e lascia sopravvivere, negli interstizi e nelle torri, l’architettura originaria e le decorazioni medievali, i muri dipinti ad affresco, i cavalieri misteriosi di epoche lontane nei matronei ormai chiusi e le macchine invece necessarie alla movimentazione seicentesca.
Ma il vero capolavoro della chiesa sono le tarsie lignee del coro disegnate da Lorenzo Lotto e realizzate da Giovan Francesco Capoferri, tra il 1524 e il 1532. Un’opera di qualità assoluta, iniziatica, esoterica, misteriosa. I coperchi degli scranni, anch’essi decorati con simboli, ricoprono l’opera definitiva che narra storie dell’Antico Testamento.

Moretto, Cristo e l’angelo, 1550 ca, olio su tela, cm 209x126, Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo

Giovan Francesco Capoferri (su disegno di Lorenzo Lotto), Allegoria del Chaos Magnum, 1524, tarsia lignea, cm 60x50, Bergamo, Santa Maria Maggiore
Una scoperta magnifica: alcuni pannelli, come quello in cui il consigliere vecchio del re Davide uccide quello nuovo, mostrano il racconto biblico inserito in una perfetta architettura rinascimentale. Un dramma antico nel mondo dell’equilibrio perfetto. L’uso sapiente dei legni e le diverse tonalità delle essenze vanno a sostituire gli impasti cromatici della pittura.

Giovanni da Campione, Protiro settentrionale della cattedrale di Santa Maria Maggiore, XIV secolo, Bergamo

Giovanni Antonio Amadeo, particolare della facciata della Cappella Colleoni, 1476, Bergamo

Maestranze lombarde, Fortezza, XIV secolo, marmo, Bergamo, Santa Maria Maggiore, Battistero
La parte forse più commovente è quella della iconostasi, in cui si torna al suo valore etimologico di portatrice di immagine. Uno sportello fantastico è quello con Noè e l’arca, dove Noè si fa indicare la strada da Dio. Gli animali sono in coppia perfetta. Due cavalli e due elefanti. Il toro che segue distratto la vacca. Il cervo e la cerbiatta perché Lotto sta inventando Walt Disney. L’orso e l’orsa stanno giocando. L’asino solitario raglia e viene replicato come in un fumetto mentre raglia una seconda volta tentando di commuovere il cammello, ma rivolgendosi in realtà al gallo, con la sua gallina a fianco. La questione teologica fra maiali e oche rimane quella dell’incontro fra la pecora e il caprone, fra il bene e il male, perché anche il male sale sull’arca e verrà traghettato nel futuro.
Lorenzo Lotto è sicuramente l’inventore europeo del fumetto, ma lo è in modo particolare per i suoi disegni, per i coperchi con le scene allegoriche carichi di significati arcani, di curiosi misteri numerici, di citazioni bibliche, e di citazioni cabalistiche che fra poco dovranno scomparire, perché lui è lontanissimo dallo spirito della Controriforma.
Con queste tarsie Lotto realizza la Cappella Sistina della falegnameria.

Giovan Francesco Capoferri (su disegno di Lorenzo Lotto), Allegoria di Giuseppe venduto dai fratelli, post 1524, tarsia lignea, cm 43,7x40, Bergamo, Santa Maria Maggiore

Giovan Francesco Capoferri (su disegno di Lorenzo Lotto), Allegoria deI pianto di Davide, 1527, tarsia lignea, cm 43,7x40, Bergamo, Santa Maria Maggiore

Giovan Francesco Capoferri (su disegno di Lorenzo Lotto), L’arca di Noè, 1525, tarsia lignea, cm 68x101, Bergamo, Santa Maria Maggiore

Giovan Francesco Capoferri (su disegno di Lorenzo Lotto), Passaggio del Mar Rosso, 1526-1527, tarsia lignea, cm 68x99, Bergamo, Santa Maria Maggiore

Giovan Francesco Capoferri (su disegno di Lorenzo Lotto), Consegna delle tavole della legge a Mosè, 1525, tarsia lignea, cm 41,6x43, Bergamo, Santa Maria Maggiore

Giovan Francesco Capoferri (su disegno di Lorenzo Lotto), Giona e la balena, 1525, tarsia lignea, cm 41,8x43, Bergamo, Santa Maria Maggiore

Giovan Battista Moroni, Cavaliere in rosa, 1560, olio su tela, cm 216x123, Collezione privata
I ritratti bergamaschi di Moroni
Ma Bergamo, città spagnola nella seconda metà del Cinquecento, è tappa fondamentale per indagare anche il pittore che in un certo senso chiude il percorso iniziato nel Quattrocento da Vincenzo Foppa: Giovan Battista Moroni, con il suo famosissimo Cavaliere in rosa, nelle sue sete eccellenti della fine del Cinquecento, in una posa spavalda e con uno sguardo che più bergamasco di così non si potrebbe immaginare. Un grado di realismo che lo trasporta immediatamente fino a oggi. Con il motto ispanico in una Bergamo ispanica: mas el çaguero que el primero. Un incrocio geniale fra realismo, lussi e senso di un’antichità che sopravvive nei suoi ruderi. Un mondo bergamasco molto più colto del previsto, come la poetessa Isotta Brembati, dalle idee lunghe e dal collo corto, sul quale poggia la pelliccia che serve a raccogliere le pulci che cadessero dalla capigliatura, arricchita con la dolce testolina rifatta dal gioielliere in modo da poterla prendere in mano e scuoterla. Sciccheria pari solo al ventaglio di struzzo.

Giovan Battista Moroni, Ritratto di anziana donna in nero, 1572-1573, olio su tela, cm 95x76, Collezione privata

Giovan Battista Moroni, Ritratto di Isotta Brembati, 1552 ca, olio su tela, cm 160x114,9, Collezione privata

Giovan Battista Moroni, Trasfigurazione di Gesù sul Monte Tabor, 1564-1565, olio su tela, cm 200x150, Comun Nuovo, Santissimo Salvatore
Moroni ritrattista diventa anche Moroni pittore nell’ambito della Controriforma, ma con una sua particolare e curiosa schizofrenia: nella Trasfigurazione di Gesù sul Monte Tabor, il mondo reale è al piano di sotto, rimane un mondo oggettivo capito e definito. Il mondo teologico, al piano di sopra, entra in un’area linguistica, dove dell’equilibrio e delle qualità di prima rimangono solo tracce straordinarie nelle vesti.
Ma tutto cambia quando si passa dalla celebrazione alla narrazione evangelica vera e propria; lo si può osservare nell’Ultima Cena, capolavoro assoluto dove tutto torna a posto. Un san Giovanni indigeno, un oste di casa che porta un vino sicuramente locale, che corrisponde a una natura morta assolutamente perfetta, pagnotta compresa, dinnanzi a un Giuda che ha infilata nella cintura la squallida borsa del tradimento. Mentre gli altri apostoli sono seduti con un senso di realismo da copertina della “Domenica del Corriere”, di Walter Molino, dipinti in una qualità di contrasto cromatico fenomenale fra il rosa e l’azzurro del crepuscolo. Un realismo estremamente innovativo anche rispetto ai passi fatti nella Venezia di Tiziano. Il personaggio col baffo, sulla destra, che appoggia il mento sulla mano, potrebbe uscire da una pellicola neorealista degli anni Cinquanta. Ritratti senza tempo.
Ma i temi religiosi espressi secondo i dettami ufficiali del Concilio di Trento, in realtà, non sembrano corrispondere alla vocazione naturale di Moroni; la sua vera specialità continua a rimanere il ritratto, dove rappresenta gentiluomini della sua epoca vestiti di nero, che potrebbero apparire già come in una redingote del XIX secolo, oppure personaggi storici in gorgiera, transepocali, fuori dal tempo, spavaldi e arroganti.

Giovan Battista Moroni, Ultima Cena, particolare, 1567, olio su tela, cm 295x195, Romano di Lombardia, Santa Maria Assunta e Giacomo Maggiore

Giovan Battista Moroni, Ultima Cena, intero, 1567, olio su tela, cm 295x195, Romano di Lombardia, Santa Maria Assunta e Giacomo Maggiore
Caravaggio: talentaccio e caratteraccio
Da questo mondo del realismo proviene un colosso della pittura, Caravaggio. È ormai quasi certo però che Michelangelo Merisi non venga da Caravaggio, come potrebbe risultare dal nome attribuito che è poi quello del luogo d’origine dei genitori, ma da Milano. Qualche anno fa un attento studioso “non accademico”, quindi probabilmente attento sul serio alle cose, ha ritrovato in una chiesa di Milano un atto di battesimo, quindi certificato di nascita, che cita lui e suo padre. Questo legittimerebbe più facilmente il carattere complesso del Merisi, che è quello d’un uomo irascibile come spesso lo sono gli abitanti di Caravaggio, mezzi milanesi e mezzi bergamaschi, uomini di tempra forte come si sa, ma è pure quello contorto e sofferente dei lombardi forgiati dalla Controriforma di san Carlo Borromeo.

Caravaggio, Cena in Emmaus, 1601, olio su tela, cm 141x196,2, Londra, The National Gallery

Caravaggio, Cena in Emmaus, particolare, Londra, The National Gallery
Caravaggio, l’uomo che rivoluziona il modo di vedere e di dipingere alla fine del Cinquecento. Il pittore dal destino maledetto. Caravaggio è realmente un rivoluzionario perché riesce, un po’ per via del caratteraccio, un po’ per via del talentaccio, a rompere con qualsiasi cosa fosse avvenuta prima nelle varie iconografie dell’Italia tardorinascimentale e manierista.
L’evoluzione della pittura è rapidissima fra le due versioni della Cena in Emmaus: la prima dipinta a Roma nel 1601, ancora con tutte le tracce delle sue origini lombarde, ivi compresa la passione per la natura morta, la pagnotta bergamasca e il cestino di frutta cardinalizio. Cinque anni dopo, Caravaggio è appena scappato da Roma, dove ha ferito mortalmente Ranuccio Tomassoni per questioni di donne o di denaro. In fuga dipinge la seconda versione della Cena in Emmaus e del quadro precedente rimangono solo la brocca e la tovaglia bianca poggiata sul tappeto antico che fa Oriente.

Caravaggio, Cena in Emmaus, 1606, olio su tela, cm 141x175, Milano, Pinacoteca di Brera
Sono scomparse le ombre, il Cristo è diventato drammatico, la tavola si è svuotata, il pane è meridionale e si mangia solo erba cotta. La teatralità assoluta e gestuale del Cristo rockstar è sostituita da un Cristo sciamano e l’aneddotica stracciarola è stata sostituita dal pathos.
Una volta a Napoli in realtà il realismo precedente viene totalmente superato e Caravaggio inizia un percorso che è inarrestabile verso la cultura del Barocco.
Nelle Sette opere di misericordia tutto si fa teatro, i piedi e le mani sono finalmente puliti, la carità popolana porge il seno ma è molto più sublimata che realistica, la Vergine e il Bambino sono avvolti nella dolcezza. I due angeli sono in una torsione che è identica a quella che sta realizzando nel marmo negli stessi anni Francesco Mochi per il Duomo di Orvieto. Loro sicuramente non si conoscono, ma c’è nell’aria qualcosa di nuovo e la vecchia separazione tridentina fra la realtà bassa e quella alta si è finalmente unificata in un’opera unica.
D’altra parte, nel Cinquecento, erano molti gli artisti del nord che emigravano verso Napoli in cerca di lavoro: dal bergamasco Cosimo Fanzago a Cesare da Sesto, fino appunto a Caravaggio. Qua era già arrivato, da un secolo ormai, il realismo d’origine nordeuropea, grazie ad artisti come Pietro e Giovanni Alamanno, o all’arrivo dei quadri di Rogier van der Weyden e di Van Eyck. I lombardi vengono dunque a Napoli a studiare, imparano la lezione e la uniscono al loro naturalismo contadino padano.

Caravaggio, Cena in Emmaus, particolare, Milano, Pinacoteca di Brera
Caravaggio è realmente un rivoluzionario perché riesce, un po’ per via del caratteraccio, un po’ per via del talentaccio, a rompere con qualsiasi cosa fosse avvenuta prima nelle varie iconografie dell’Italia tardorinascimentale e manierista.

Caravaggio, Sette opere di misericordia, 1606-1607, olio su tela, intero, cm 390x260, Napoli, Pio Monte della Misericordia
Le Sette opere di misericordia di Caravaggio ha l’atmosfera di un vicolo napoletano dove avviene di tutto: la donna con il bambino in braccio affacciata al balcone, tra le lenzuola stese ad asciugare grazie al vento che soffia in queste stradine strette e scure, perché i raggi del sole non arrivano fin laggiù. Dovunque c’è un gran movimento, tutti sono intenti a fare qualcosa: un uomo beve, la prostituta allatta il vecchio, carcerato e affamato, e dietro l’angolo si avverte la presenza della morte, che qui è di casa tanto quanto la vita.
Cambia la percezione dello spazio in Caravaggio, non più rinascimentale e prospettico, ma costipato, stretto e costretto: ci si soffoca, ma questo succede perché è vissuto, alimentato, raccontato, abitato dalla presenza dell’uomo, dalla nascita alla morte.

Caravaggio, Sette opere di misericordia, 1606-1607, olio su tela, particolare, cm 390x260, Napoli, Pio Monte della Misericordia

Francesco Mochi, Angelo annunciante, 1605-1608, marmo, altezza cm 185, Orvieto, Museo dell’Opera del Duomo
Poi il pittore scappa anche da Napoli e va a Malta dai famosi Cavalieri, che curiosamente cominciano ad apparire come se fossero usciti da un quadro di Moroni, con la spada nella mano e il rosario nell’altra. E con il foro nell’orecchio, a ricordo d’una esistenza molto più avventurosa del previsto. A Malta dipinge alcune opere straordinarie, fra le quali la famosa e terribile Decollazione di san Giovanni Battista, quadro che solo chi ha conosciuto le prigioni per esperienza personale può avere concepito. Poi litiga anche con i Cavalieri ed è costretto a scappare di nuovo, questa volta in Sicilia e ormai inseguito dalle due polizie più potenti del mondo, quella papalina e quella maltese.
La lezione della Decollazione di Malta ormai è stabile, basata su due punti: la grande dimensione e la voglia di non riempire più integralmente lo spazio, che diventa immenso e non misurabile, ma misurato dalle vicende dell’uomo.

Caravaggio, Ritratto di Antonio Martelli, cavaliere di Malta, 1608-1609, olio su tela, cm 118,5x95, Firenze, Galleria Palatina di Palazzo Pitti

Caravaggio, Decollazione di san Giovanni Battista, 1608, olio su tela, cm 361x520, La Valletta, San Giovanni

Caravaggio, Seppellimento di santa Lucia, 1607-1608, olio su tela, cm 408x300, Siracusa, Santa Lucia al Sepolcro
Da Malta parte e in un primo passo, a Siracusa, riprenderà proprio questo concetto compositivo, quando realizza il Seppellimento di santa Lucia. Stessa impostazione userà anche per la Resurrezione di Lazzaro di Messina. Incredibile qui la figura del Cristo: la sua faccia è in ombra, si manifesta attraverso il passaggio della luce. Lo spazio quasi non c’è, è tutto buio e tutto impenetrabile. Si vede bene però il gesto dell’uomo Cristo che allunga il braccio e fa risorgere il morto. E incredibile è pure il degradare dall’alto verso il basso della fisionomia dei volti, la prima donna stupita, la seconda drammaticamente partecipe e sotto il cadavere. Caravaggio ormai non è più un pittore della realtà, è un pittore dell’esistenza.
Questo mondo realista fu totalmente dimenticato all’inizio del XX secolo; nei manuali di storia dell’arte si spiegava che erano tutti artisti di cattivo carattere e di cattivo gusto e che quelli di buon gusto erano quelli come Guido Reni. Poi arrivò Roberto Longhi con una colossale e geniale revisione critica. In realtà cambiava il mondo e si stava guardando la realtà del quotidiano con lo stesso occhio con cui si guardava quella realtà lì.
E poi arrivò, come loro ultimo e sublime discendente, Pier Paolo Pasolini, che riuscì a collegare il nord e il sud e andò come Caravaggio a morire assassinato su una spiaggia.

Caravaggio, Resurrezione di Lazzaro, 1609, olio su tela, cm 380x275, Messina, Museo Regionale