Non c’è Giotto senza Santo
Quando si parla di Giotto si rischia di cadere nei cliché più consueti della storia dell’arte: la famosa O, la pecorella dipinta da bambino e la prospettiva. Vorrei invece tentare un racconto della sua arte un po’ diverso dal solito, concedendoci di avere come guida d’eccezione il santo Francesco.
Negli ultimi anni si è tornati a parlare frequentemente di Giotto in occasione di grandi eventi che hanno coinvolto due luoghi che conservano alcuni dei suoi massimi capolavori: il restauro della basilica di San Francesco d’Assisi a causa del terremoto, che colpì la zona nel 1997, e il restauro della Cappella degli Scrovegni a Padova, concluso nel 2002.
La nostra storia parte da Montefalco, in Umbria, bel paese allo stato puro, un borgo dell’XI-XII secolo sulle cui mura si trovano ancora le insegne di Federico II, il falco e la doppia aquila.
Nell’ex monastero dei francescani, diventato oggi museo, è conservato il ciclo di affreschi di Benozzo Gozzoli, dal quale inizia la nostra indagine. Perfettamente restaurato, firmato e datato 1452, riprende con precisione i temi di Assisi, quelli della vita di san Francesco e anche alcune caratteristiche della struttura della decorazione.
Fra gli affreschi e gli scranni, a destra e a sinistra dell’altare, c’è un fregio curiosissimo che raffigura i francescani più famosi alla metà del XV secolo, a duecentocinquant’anni dalla fondazione dell’ordine: papa Niccolò IV, Jean de Brienne, l’imperatore di Costantinopoli durante il regno latino del Duecento, i frati e i grandi universitari fra i quali il più famoso John Duns Scoto, oxfordiano chiamato il “dottor Sottile” per aver rovesciato le tesi scolastiche e parigine del domenicano Alberto Magno e del suo allievo Tommaso d’Aquino. Dietro l’altare invece, sopra la porta che immette nel convento, ci sono altre tre figure. Non sono francescani, ma, come riporta la loro didascalia, si tratta di Laureatus Petrarca, Theologus Dantes e Pictorum Eximius Iottus. Per un francescano della metà del Quattrocento Dante, Petrarca e Giotto erano dunque riferimenti così importanti da essere indicati come esempi, o come diremo noi oggi, dei miti.
Per capire che tipo di mito rappresentano questi tre personaggi, dobbiamo analizzare una serie di eventi storici.
Nel 1190, un tedesco annega mentre fa il bagno in un fiume del Medio Oriente: è l’imperatore Federico Barbarossa, che, dopo aver represso per tutta una vita ogni ipotesi comunale nel mondo, aveva intrapreso l’ultima e più improbabile delle sue imprese, la crociata.

Benozzo Gozzoli, San Bonaventura, particolare, 1452, affresco, Montefalco, Museo Civico di San Francesco

Benozzo Gozzoli, Petrarca, Dante e Giotto, particolare, 1452, affresco, Montefalco, Museo Civico di San Francesco
Dieci anni prima si erano già verificati due fatti significativi: a Parigi Filippo II Augusto era diventato re con l’ambizione di trasformare il suo piccolo regno, poco più grande di una provincia, in un vero reame. In quarant’anni ce la farà, Parigi era già una città importantissima, con la seconda università del mondo dopo Bologna, specializzata in teologia e tale per aver generato per clonazione Oxford e Cambridge.
E lì era andato a studiare il giovane conte Lotario dei Conti di Segni da Anagni, che fra poco diventerà papa Innocenzo III, il rinnovatore politico e teocratico del papato a Roma. Per consolidare il suo potere, deve riprendere il controllo di una Chiesa in mano da tempo alla aristocrazia feudale dei vescovi. E per questo si appoggerà su due futuri santi pauperisti che sognerà ognuno come ricostruttore della Chiesa: Domenico di Guzmán dalla Spagna e Francesco da Assisi, i quali dal nulla formeranno due congregazioni destinate a diventare influentissime.

Giotto, Storie di san Francesco, Il sogno di Innocenzo, 1295-1297/1299, affresco, cm 270x230, Assisi, Basilica Superiore di San Francesco
Un’immagine del ciclo di Giotto ad Assisi rende visibile questo concetto: Innocenzo III sogna san Francesco mentre ricostruisce la Chiesa, non per modo di dire ma in senso proprio fisico, mattone per mattone, dove le architetture coloratissime sono quelle di un Medioevo in cui c’erano ancora gli intonaci sui muri.
Inizia il Duecento. Si stanno per inventare le città, la diplomazia e l’intellettuale.

Giotto, Storie di san Francesco, La cacciata dei diavoli da Arezzo, particolare, 1295-1297/1299, affresco, Assisi, Basilica Superiore di San Francesco

Beato Angelico, Crocifissione, particolare con san Domenico, 1438-1446, affresco, Firenze, Convento di San Marco
L’invenzione dell’intellettuale
Come mi diceva l’amico Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani, con formidabile enfasi toscana, gli italiani non sono mai stati grandi come nel periodo che va dal 1270 al 1310. È il momento della rivoluzione culturale, del boom economico; è il momento nel quale nascono in Toscana quelli che inventano la lingua letteraria degli italiani, Dante Alighieri in primis, e Giotto di Bondone che ne inventa la lingua figurativa.
Per capire meglio la questione bisogna fare un salto a Firenze dai domenicani di Santa Maria Novella. Entrando dalla porta laterale, quella d’origine, si trovano due capolavori che da sempre si guardano fra loro per essere visti in contemporanea dal fedele: la Trinità di Masaccio, primo intuito del Rinascimento, dove il Cristo non è altro che l’evoluzione del Crocifisso di Giotto. Qui la lezione anti albigese dei domenicani, contro l’eresia càtara diffusa soprattutto nella Francia meridionale, è seguita con attenzione.

Maestro della Croce delle Oblate, Madonna con il Bambino e due angeli, particolare, 1250-1260 ca, tempera su tavola, cm 130x73, Firenze, Galleria dell’Accademia
I domenicani sostengono la tesi che Cristo è uomo vero, morto vero, verde, con il sangue che scorre, cola sul teschio di Adamo e garantisce la nostra salvezza. È un’autentica rivoluzione rispetto al modo di vedere dell’epoca.
Per verificare lo stato dell’arte nella seconda metà del Duecento possiamo analizzare la Madonna con il Bambino e due angeli del Maestro della Croce delle Oblate che si trova alla Galleria dell’Accademia di Firenze. La figurazione è ancora profondamente bizantina, anche se la scioltezza del disegno e la facilità dell’esecuzione rendono particolarmente evoluta questa lingua. La Madonna è ancora quella dell’icona bizantina replicata all’infinito e gli angeli hanno le ali coloratissime, come d’altronde avviene nei mosaici del Battistero di Firenze, di stretta osservanza bizantina.

Giotto, Crocifisso, 1290-1295, tempera su tavola, cm 578x406, Firenze, Santa Maria Novella

Masaccio, Trinità, 1426-1427 circa, affresco, cm 667x317, Firenze, Santa Maria Novella

Giotto, Crocifisso, particolare

Giotto, Crocifisso, particolare
Gli angeli sono puro colore, pura austerità, come carabinieri dell’Altissimo, tutti con la stessa espressione, come fatta a stampo. Nonostante la forte influenza bizantina, si sentono già i primi segnali di espressività e il primo tentativo di uscire dalla tradizionale bidimensionalità. Come si vede nella Madonna con il Bambino e due angeli, si perde il fondo oro e appaiono per la prima volta dei piccoli dettagli concreti nelle stoffe.
Ma, tornando a parlare di crocifissi, è san Francesco che, con le sue prediche all’inizio del Duecento, sostituisce l’immagine del Christus Triumphans con quella del Christus Patiens. È lui il vero inventore dell’arte moderna.
È un passaggio di cui si accorgono molto bene gli uomini del Trecento e poi del Quattrocento, Cennino Cennini per esempio e Giorgio Vasari più tardi.
Ci sono tre tavole agli Uffizi che, accostate, ci danno un’idea tangibile della rivoluzione in corso nel campo della pittura. La Maestà di Santa Trinita di Cimabue, dove gli angeli occupano tutti gli spazi lasciati dal trono incombente; la Madonna Rucellai di Duccio da Buoninsegna, che alleggerisce il trono con un drappo di seta sostenuto dagli angeli disposti a ritmo regolare; e la Maestà d’Ognissanti di Giotto, dove l’artista crea uno spazio unico, fisico, articolato dall’edicola del trono. Gli angeli gli stanno veramente intorno e la Vergine, imponente, occupa pesante quasi tutto lo spazio.

Duccio di Buoninsegna, Madonna Rucellai, post 1285, tempera su tavola, cm 450x292, Firenze, Galleria degli Uffizi

Cimabue, Maestà di Santa Trinita, 1280-1290, tempera su tavola, cm 385x223, Firenze, Galleria degli Uffizi

Giotto, Madonna d’Ognissanti, 1310-1311, tempera su tavola, cm 325x204, Firenze, Galleria degli Uffizi
L’arte successiva dell’Italia inizia da queste tre tavole. Come disse Cennino Cennini: “Giotto rimutò l’arte del dipingere di greco in latino”. Dalla lingua ormai morta dei bizantini si passa alla nuova lingua dell’Occidente.
È sempre di quegli anni di creatività la tesi di filosofia scolastica di Alberto Magno di Colonia, dottore della Chiesa, che affronta in modo analogo la questione del greco Aristotele: “La nostra intenzione è di rendere comprensibile ai latini la fisica, la metafisica e la matematica”.
Il miracolo di Assisi
Nel complesso basilicale di San Francesco d’Assisi di miracoli ne sono successi tanti e ne succedono ancora, ma a noi qui interessa solo quello che fece cambiare il corso delle arti visive in Occidente durante il XIII secolo.
Itinerario nel mondo dell’arte particolarmente istruttivo, la parte inferiore della basilica fu costruita pochi anni dopo la morte del santo.
Assisi dipende direttamente dalla Santa Sede e di questa seguirà le evoluzioni e le turbolenze: prima la linea teocratica e filo-borghese dei papi di Anagni e, dal 1260 in poi, la linea dei papi francesi. Sono gli anni nei quali Bianca di Castiglia coronò il sogno applicato ai suoi due figli: Luigi diventerà IX e poi santo, ma soprattutto re di una Francia allargata e potente, e il fratello Carlo sarà Carlo I di Angiò, re di Sicilia, di Napoli, di Albania e di Gerusalemme.
Il progetto della Basilica Superiore è sin dall’inizio estremamente ambizioso e porterà a lavorare in Italia una serie di artisti importantissimi, che provengono dal mondo tedesco, francese e inglese. È il momento in cui si afferma il gotico, e questa innovazione chiederà più al colore dei fabbricanti di vetrate, che al colore dei pittori. Ma la fortuna francese durò molto meno del previsto. Nel 1270 re Luigi IX muore di peste a Tunisi; nel 1277 diventa papa Giovanni Gaetano Orsini, con il nome di Niccolò III. E il testimone nel campo delle arti passerà ancora in mani italiane, grazie a Cimabue e a due sue caratteristiche fondamentali: la ricerca dell’espressione e una grande inclinazione appassionata per il mondo dell’architettura.

Vetrata con Storie di Gesù, XIII secolo, vetro e piombo, cm 570x400, Assisi, Basilica Inferiore di San Francesco
Si va avanti per alternanze e torna ancora un papa francese, Simon de Brie, Martino IV, e scoppiano i Vespri Siciliani. Nel 1288 arriva al soglio di Pietro il primo papa francescano, Niccolò IV, nato ad Ascoli. I francescani, allora, hanno più di 1600 monasteri e sono forse più di 100.000 al mondo. I lavori ad Assisi riprendono alla grande. Entra in scena Giotto. Con tutto un nucleo di artisti umbri, toscani, romani, così tanti che si fa fatica a capire chi ha fatto cosa. Con loro avviene una vera rivoluzione e la si trova nei primi dipinti superiori, quelli delle Storie di Isacco, e gli altri che rappresentano i quattro Dottori della Chiesa.

Giotto (?), Volta dei Dottori della Chiesa, 1291-1295, affresco, Assisi, Basilica Superiore di San Francesco
La maturazione dell’immagine è impressionante, l’espressività delle facce ha fatto un salto ulteriore ed epocale, le mani sono diventate delicatissime ed eleganti, i panneggi si articolano e cadono in un modo sublime, l’intera opera sembra pompeiana. In realtà Pompei all’epoca ancora non si conosceva, ma in compenso Giotto aveva già fatto un viaggio a Roma e, con ogni probabilità, conosciuto affreschi e dipinti dal sapore antico, che all’epoca c’erano ma nel frattempo sono spariti.
Più che conoscere l’autore, io vorrei conoscere il movente e il mandante, lo stesso genio della propaganda che decise di mettere fra i Dottori della Chiesa, nelle vele della volta della stessa Basilica, una quantità infinita di dettagli tecnici e precisi della vita quotidiana, cosa fino ad allora completamente esclusa dalla storia della pittura. L’estetica troppo aristocratica mi fa pensare che qui la mano non sia quella di Giotto. I mobili sono straordinari, le cattedre non di legno ma di marmi cosmateschi, il realismo dei dettagli è un fulmine nella storia dell’arte. La penna intinta è sporca di inchiostro e senza piume perché perfettamente tagliata con il coltello sopra la pagina. La costruzione dello scrittoio di legno è precisissima nella sua carpenteria.

Giotto, Storie di san Francesco, La rinuncia ai beni paterni, particolare, 1295-1297/1299, affresco, Assisi, Basilica Superiore di San Francesco

Giotto (?), Volta dei Dottori della Chiesa, particolare con san Gregorio Magno
Il realismo dei dettagli è un fulmine nella storia dell’arte.

Particolare di una colonnina “annodata” del chiostro dell’Abbazia di Santa Maria di Chiaravalle Milanese, XII secolo

Giotto (?), Volta dei Dottori della Chiesa, particolare con sant’Agostino
L’intellettuale diventa protagonista, proprio come farà fra pochi anni il professore di Oxford, francescano, Guglielmo da Ockham, che, chiamato e poi messo agli arresti ad Avignone, scapperà con alcuni suoi colleghi presso Lodovico il Bavaro e gli rivolgerà la frase seguente: “Tu me defendas gladio, ego te defendam calamo”. Io ti difendo da intellettuale: a te la spada, a me la penna. E a Giotto, per cui questa lezione è fondamentale, il pennello.
Nel ciclo conclusivo, quello inferiore, dedicato alla storia del Santo di Assisi, Giotto, che continua a lavorare con i compagni, si forma definitivamente in alcuni riquadri che si possono sicuramente attribuire a lui, dove l’architettura evolve partendo dal paesaggio medioevale e si trasforma in un post-moderno ante litteram. Attinge all’architettura cosmatesca di origine classica, cita antiche e improbabili edicole romane che si articolano anche loro in chiave postmoderna e predechirichiana, indaga le volte della prima Roma e riesce addirittura a trasformare il gotico in neoellenistico.
E poi va alla ricerca dei dettagli materiali, si appassiona alla carpenteria, alla falegnameria. Scopre la fisiognomica e, per la prima volta nella storia della pittura, si vedono i denti. Sicché, negli ultimi riquadri, l’opera è completa e definitiva, ma l’architettura non è inventata e in abstracto, la citazione del tempio si può vedere nella città di Assisi e le bifore sono forse quelle della chiesa.

Giotto, Storie di san Francesco, San Francesco dinanzi al Crocifisso in San Damiano, particolare, 1295-1297/1299, affresco, Assisi, Basilica Superiore di San Francesco

Giotto, Storie di san Francesco, San Francesco dinanzi al Crocifisso in San Damiano, intero, 1295-1297/1299, affresco, Assisi, Basilica Superiore di San Francesco
Giotto esce da Assisi avendo imparato l’oggettualità e dipinge, nel 1310-1311, un dettaglio che a noi può sembrare ovvio: un angelo con un vaso di fiori in mano nella Madonna d’Ognissanti a Firenze. È il primo vaso della storia dell’arte, ma le ali degli angeli sono ancora colorate.
Giotto esce da Assisi avendo imparato l’oggettualità.

Giotto, Storie di san Francesco, La prova del fuoco davanti al sultano, particolare, 1295-1297/1299, affresco, Assisi, Basilica Superiore di San Francesco

Giotto, Storie di san Francesco, La rinuncia ai beni paterni, particolare

Giotto, Storie di san Francesco, La cacciata dei diavoli da Arezzo, particolare

Giotto, Storie di san Francesco, Il dono del mantello, particolare

Giotto, Storie di san Francesco, Il presepe di Greccio, particolare

Giotto, Storie di san Francesco, Il presepe di Greccio, particolare

Giotto, Storie di san Francesco, Il presepe di Greccio, particolare
Giotto a Padova
Il viaggio da Assisi a Padova non è altro che un viaggio da un santo francescano a un altro.
Sant’Antonio da Padova è di Lisbona e frate agostiniano, ha tredici anni in meno di san Francesco e aderisce subito al suo gruppo, di cui diventa il più bravo predicatore proprio a Padova. Muore nel 1231 e, come Francesco, viene fatto santo subito. L’anno dopo si inizia la costruzione della sua Basilica. Le due basiliche di Assisi e di Padova sono i massimi lavori pubblici del papato nel Duecento e battono ancora oggi bandiera vaticana, sono extra territoriali.

Giotto, Veduta della controfacciata della Cappella degli Scrovegni, 1303-1304, affresco, Padova, Cappella degli Scrovegni

Giotto, Enrico Scrovegni presenta il modello della cappella, 1303-1304, affresco, Padova, Cappella degli Scrovegni
Sotto la guida di Ezzelino, Padova ricchissima e comunale lotta contro tutti i comuni vicini e soprattutto è una spina nel fianco dell’oligarchia piratesca di Venezia, colpita per ben due volte dall’interdetto papale, per la presa di Zara e la spartizione di Costantinopoli.
Giotto, dopo i francescani di Assisi, passa per quelli di Rimini e approda a quelli importantissimi di Padova. Qui lavora per la chiesa del Santo, poi per il palazzo della Ragione e infine trova il suo super sponsor privato: Enrico Scrovegni. La Cappella degli Scrovegni viene costruita nel 1300 per il palazzo della famiglia, fra le più potenti della città, mente Giotto la decora fra il 1303 e il 1304. Si dice che Enrico Scrovegni fosse mosso da complesso di colpa, perché suo padre faceva l’usuraio. Credo invece che il suo mecenatismo fosse perfettamente conforme alla politica della sua città e a quella dei francescani.

Giotto, Storie della Vergine, L’angelo annuncia a Gioacchino che è stato esaudito, 1303-1304, affresco, Padova, Cappella degli Scrovegni

Giotto, Storie di Cristo, Le nozze di Cana, particolare, 1303-1304, affresco, Padova, Cappella degli Scrovegni

Giotto, Storie di Cristo, L’adorazione dei Magi, particolare, 1303-1304, affresco, Padova, Cappella degli Scrovegni
Dopo il restauro del 2002, questa opera d’arte complessiva integrata e voluta da un unico uomo è tornata perfettamente leggibile.
E torna anche tutta l’attenzione architettonica, il primo trompe-l’oeil della storia là dove viene a sostituire l’abside che non esiste. Un’architettura dipinta, aperta sull’esterno attraverso una serie di grandi finestre che mostrano la realtà che sta dietro a esse, con un cielo azzurro diffuso dappertutto, che ne costituisce il fondale scenico. L’estetica è la composizione degli opposti. Come la basilica di Assisi, la cappella è antibizantina, ma filo-orientale sin dalla dedica a santa Caterina da Alessandria, la santa protocristiana, quella del monastero sul monte Sinai, e a san Giovanni, l’evangelista più intellettuale del san Marco di Venezia e più orientale. Il Vangelo apocrifo di Giacomo viene usato da Giotto per le storie della Madonna. E nei riquadri della parte inferiore l’arte di Giotto si fa perfetta.
In cosa consiste la rivoluzione di Giotto? Giorgio Vasari riteneva che fosse proprio questo il momento in cui si scoprono gli affetti e le attitudini: l’ira, il pianto, il dispiacere, la gioia, il sorriso, le pulsioni dell’animo, la psicologia e quindi la fisiognomica. Sintetizzando ulteriormente, l’operazione fatta da Giotto è la scoperta del vero: il vero anatomico, il vero fisiognomico, il vero dei colori, delle ombre e delle luci, nella certezza dello spazio misurabile.
La mania per i dettagli da falegname diventa iperrealista, la tecnica delle ombre raggiunge la maturità, appare una linea rossa per delineare il contorno dei visi, i corpi si fanno plastici, l’occhio del cammello anticipa Walt Disney, la profondità dell’architettura diventa un perfetto esercizio assonometrico, il paesaggio diventa quinta, il grido è autentico quanto il dolore e appare la prima lacrima della storia. Altri segni antibizantini, gli angeli per la prima volta perdono la policromia delle ali. “Questo non so se è per un dissenso consapevole rispetto alla tradizione bizantina o se piuttosto, in armonia e in sintonia con la nuova teologia spiritualizzante anche francescana, non ha voluto veramente dare agli angeli il loro significato teologico di puri spiriti di intelligenze incorporee”, commenta Antonio Paolucci. “Neanche Dante fa degli angeli colorati. Gli angeli sono intelligenza di Dio che diventa epifania, manifestazione in qualche modo agli uomini.”

Giotto, Coretto, 1303-1304, affresco, Padova, Cappella degli Scrovegni
Ma c’è un ultimo gesto di questo artista che ci interessa rivelare, forse il più feroce e rivoluzionario rispetto all’opposizione Padova-Venezia, di cui gli storici, magari per imbarazzo, non osano parlare. Giotto ruba agli aristocratici pirati veneziani il Giudizio Universale di Torcello, di circa tre secoli prima. Nella chiesa di Santa Maria Assunta di Torcello si conserva l’opera visiva più importante e forse il riferimento al quale Giotto ha gettato un occhio. Di questo assoluto capolavoro, mosaico che si sviluppa tra l’XI secolo e il XII, notiamo una serie di dettagli del tutto simili: il Cristo è in una mandorla, dai suoi piedi esce un fiume che è il suo stesso sangue e che diventa la fiamma che va ad alimentare l’inferno, dove cucina i sette peccati capitali. La scansione di Padova replica quella di Torcello.

Giotto, Giudizio Universale, 1303-1304, affresco, Padova, Cappella degli Scrovegni

Giotto, Giudizio Universale, particolare con le schiere angeliche

Maestranze veneto-bizantine, Giudizio Universale, particolare, XI-XII secolo, mosaico, Torcello, Santa Maria Assunta

Giotto, Giudizio Universale, particolare con Lucifero e i dannati.
Ma la parte che mi interessa di più nel Giudizio Universale di Giotto è una scoperta fra i dannati dell’Inferno: per la prima volta in Occidente appaiono il sesso e i peli. Il pudore bizantino è cancellato. Si può essere impiccati per la lingua o per il pene, fatti arrosto impalati, essere condannati al voyeurismo eterno, come essere condannati a una eterna impossibile trattativa con la meretrice.
La truculenza delle immagini infernali di Giotto è un dato stabile dell’immaginario medioevale, che si ritrova regolarmente ogni volta che la fantasia ottiene il diritto alla liberazione “psicanalitica” offerta dal tema degli inferi. In Hieronymus Bosch, il geniale inventore d’un riassunto del Medioevo, raggiunge livelli oggettivamente surreali che hanno forti analogie con quelle di Grünewald a Colmar. Rimane il sogno degli incubi punitivi, una sorta di fiume carsico della coscienza cristiana e occidentale europea che prosegue fino ai complessi di colpa irlandesi di Francis Bacon.
Lo stesso anno dell’inizio dei lavori di Giotto alla Cappella degli Scrovegni, crolla ad Anagni il sogno del cesaropapismo: per l’ennesima volta, il potere temporale si dimostra ben più intrigante di quello spirituale. Bonifacio VIII prende lo schiaffo, viene fatto prigioniero dai francesi e muore dopo poco a Roma. E, qualche anno dopo che Giotto ha passato l’ultima pennellata nel 1304, il papato viene trasferito in Francia, nuovo centro del mondo.
Proprio in quegli anni Dante Alighieri incomincia a scrivere l’epos di questa storia e metterà chi all’Inferno, chi in Purgatorio, mentre Petrarca sarà il primo intellettuale sradicato ed europeo.
La storia volta pagina, finisce il Duecento.
Giotto non avrà che epigoni.

Hieronymus Bosch, Trittico del Giudizio Universale, particolari, 1482 ca, olio su tavola, Vienna, Akademie der Bildenden Künste

Hieronymus Bosch, Trittico del Giudizio Universale, particolari, 1482 ca, olio su tavola, Vienna, Akademie der Bildenden Künste

Giotto, Giudizio Universale, particolare con i dannati, 1303-1304, affresco, Padova, Cappella degli Scrovegni