Pittori sempre giovani
L’Italia è un Paese per vecchi, nel quale un ministro può permettersi di dare del “bamboccione” ai tanti giovani che, senza lavoro, vivono ancora in famiglia. Ma chi erano e cosa facevano i ventottenni del Rinascimento? Prendiamo l’esempio di tre ragazzi nati negli anni ottanta del Quattrocento: Raffaello, Sebastiano del Piombo e Correggio.
Raffaello, caro agli dèi
Cominciamo dai ritratti di Raffaello, compreso ovviamente quello della sua favorita romana, la Fornarina. È un mistero che non sono mai riuscito a spiegarmi. È del 1518-1519, e nel 1520 l’artista muore appena trentasettenne e senza colpa, come Mozart. Lei è la sua amante, con quel sorriso da furbetta e quel corpo impossibile di porcellana, irreale.
Come è diversa rispetto al ritratto quasi contemporaneo di Baldassar Castiglione, il quale è invece prorompente di realtà sublimata. Negli occhi, nella fronte, nella barba, nelle vesti, anche lui enigmatico quanto lo erano già stati gli uomini ritratti fra Urbino e Toscana: metafisici, reali e irreali al contempo. Nella sostanza, un mondo che non poteva esistere se non nella sua dimensione platonica. Come pure La dama con liocorno, del 1505-1507, dove il sorriso proviene ancora dalla collaborazione con il Perugino, suo maestro, ma diventa un mistero di freddezza, quanto gli occhi cerulei, tutti cesellati secondo un modello ideale. La medesima attenzione la ritroviamo nel rubino appeso al collo. Nel complesso, un’algida e sublime perversione di Raffaello.

Raffaello, La Fornarina, 1518-1519, olio su tavola, cm 85x60, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini

Raffaello, La dama con liocorno, 1505-1507, tela su tavola, cm 67x56, Roma, Galleria Borghese

Raffaello, Ritratto di Baldassar Castiglione, 1514-1515, olio su tela, cm 82x67, Parigi, Musée du Louvre
La “visione” del cavaliere è quasi più un oggetto che un dipinto. I colori provengono dalle più raffinate velature, il paesaggio è improbabile quanto perfetto.

Raffaello, Il sogno del cavaliere, 1504 ca, olio su tavola, cm 17,1x17,3, Londra, The National Gallery
Il sogno del cavaliere del 1504 è quasi più un oggetto che un dipinto. Tutto appare intagliato, anche i colori che provengono dalle più raffinate velature, il paesaggio improbabile quanto perfetto.
È contemporaneo di quell’altro cesello architettonico che è lo Sposalizio della Vergine di Brera, a Milano. Un riassunto visivo di un Quattrocento amante degli ori incisi, delle maioliche dipinte, delle miniature da collezione, quel Quattrocento condannato al rogo da Savonarola prima che ci finisse lui stesso.
Raffaello è molto noto, eppure ci si può ancora ragionare. È figlio di pittore, Giovanni Santi, e si forma a Perugia dal Perugino. Cresce nella raffinata corte di Urbino, dove si legge, si conversa, si discute, si scrive. Un mondo sofisticato dove per la prima volta la figura dell’artista sta mutando: non più mero artigiano, ma partecipe diretto e protagonista del mondo degli intellettuali. Alla corte di Guidobaldo da Montefeltro lavora con il padre. Nel Palazzo Ducale, oggi Galleria Nazionale delle Marche, rimane misteriosa, silente ed eterea La muta, molto più vicina a Piero della Francesca che alle dolcezze del Perugino.
Nel 1504 Raffaello va a Firenze, e a un certo punto cambia ritmo, dimentica Perugino e si misura col classicismo sancito da Botticelli e Ghirlandaio, come si vede per esempio nelle Tre Grazie e nel più tardo Ritratto di Bindo Altoviti.

Raffaello, Sposalizio della Vergine, particolare, 1504, olio su tavola, cm 174x121, Milano, Pinacoteca di Brera
La deposizione del 1507, dipinta di nuovo per Perugia, è così classica da mostrare un san Giovanni con le scarpette romane, così post-fiorentina d’avere imparato a far soffiare il vento nei capelli e da raffigurare acconciature di lusso mediceo e ancora da giocare con il pathos donatelliano dei profili da medaglia. Sono archiviati per sempre i sorrisi leggermente tonti del Perugino, che ritraeva sua moglie all’infinito. Nella formazione di Raffaello, Leonardo non è per niente marginale, poiché tornando in Toscana da Milano si fa portatore di un nuovo approccio alla pittura di paesaggio.

Raffaello, La muta, 1507-1508, olio su tavola, cm 64x48, Urbino, Galleria Nazionale delle Marche

Raffaello, Tre Grazie, 1503-1504, olio su tavola, cm 17x17, Chantilly, Musée Condé

Raffaello, Ritratto di Bindo Altoviti, 1512-1515, olio su tavola, cm 59,7x43,8, Washington, National Gallery of Art
La Vergine delle rocce, influenzando innegabilmente il gusto di Raffaello. Le assonanze e le contaminazioni si possono vedere sia nel quadro del Louvre, La Vergine con il Bambino e san Giovanni Battista, conosciuta anche come La belle jardinière, prototipo delle dolcezze del mondo, con chiesa gotica sullo sfondo, sia nel notissimo Cristo benedicente della Pinacoteca Tosio Martinengo, a Brescia, dove è evidente l’analogia del gesto col San Giovanni Battista di Leonardo.

Raffaello, La deposizione (Pala Baglioni), 1507, olio su tavola, cm 184x176, Roma, Galleria Borghese
Estremamente interessante il raffronto della produzione fiorentina raffaellesca con il dipinto l’Adorazione del Bambino, di Fra Bartolomeo, il domenicano al quale viene affidata una nuova pittura religiosa, dopo la catastrofe distruttiva di Savonarola. Rovina del mondo antico che la cristianità risana, ma anche rovina vera che è quella di Roma sullo sfondo.
Curiosa la piccola Madonna Esterházy, del 1508; è come se Raffaello sapesse già quello che sarà tra poco il suo mestiere ufficiale, perché chiude il paesaggio con una serie di rovine romane. È l’anno nel quale Raffaello viene chiamato a Roma da papa Giulio II, forse un po’ stufo del cervellotico Michelangelo e di troppo Bramante. Lo assume come scrittore di Brevi apostolici e gli fa fare una carriera rapidissima, fino al massimo della sovrintendenza, alla cui carica verrà nominato da Leone X nel 1515, responsabile delle collezioni antiche e gran maestro delle scelte architettoniche.

Raffaello, La belle jardinière, 1507, olio su tavola, cm 122x80, Parigi, Musée du Louvre

Leonardo, La Vergine delle rocce, 1495-1508 ca, olio su tavola, cm 189,5x120, Londra, The National Gallery
È di quegli anni anche il ritrovamento della statua antica del Laocoonte, che rivela finalmente i segreti della muscolatura dell’antichità. Raffaello da dolce diventa muscolare. Ma rimane maniaco dei miti letterari cari agli umanisti fiorentini. Sarà il più furbo dei toscani a Roma, il banchiere senese Agostino Chigi, a portarlo via al papa, nel 1511, per farlo lavorare nella sua villa oltre il Tevere, oggi nel centro di Roma e chiamata, per via dei proprietari successivi, “la Farnesina”. Lì dipinge ad affresco la Galatea, una storia narrata da un altro toscano, Angelo Poliziano, amico di Lorenzo de’ Medici e già ispiratore della Nascita di Venere del Botticelli. È il trionfo dell’Umanesimo chic. Polifemo ama Galatea e come gli altri tritoni vorrebbe stringerla in un abbraccio mitologico e palestrato ma lei, indifferente e con i capelli al vento, si lascia trascinare dai suoi due delfini su una bellissima conchiglia-pedalò, sotto i cieli dove gli amorini mirano con attenzione al cuore.

Leonardo, San Giovanni Battista, 1510-1515, olio su tavola, cm 69x57, Parigi, Musée du Louvre

Raffaello, Cristo benedicente, 1504-1506, olio su tavola, cm 30x25, Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo

Raffaello, Madonna Esterházy, 1508, tempera e olio su tavola, cm 28,5x21,5, Budapest, Szépmu˝vészeti Múzeum

Fra Bartolomeo, Adorazione del Bambino, 1499 ca, tempera su tavola, ø cm 89, Roma, Galleria Borghese

Raffaello, Trionfo di Galatea, 1512, affresco, Roma, Villa Farnesina
Competizioni vaticane
Nel 1509 Raffaello è all’apice della sua carriera e sarà incaricato di affrescare le Stanze Vaticane. L’inizio della sua carriera a Roma è forse legato alla migliore delle tradizioni italiane, la raccomandazione: fu infatti qui che lo volle, fortemente lo volle, quel tipo di bel carattere ch’era Giulio II, il papa che amava l’armatura a cavallo per riconquistare i territori pontifici quanto amava le arti per le quali aveva scelto nientemeno che Bramante come consigliere e Michelangelo come vittima. Raffaello aveva allora alcune caratteristiche assai intriganti. La prima era la sua giovine età, venticinque anni, combinata con una formazione innovativa del ruolo. Da poco, infatti, era mutata radicalmente la figura dell’artista rinascimentale. Se agli albori del rinnovamento, nel cuore del Quattrocento, l’artista visivo, come ben voleva ancora la Scolastica imperante, era uomo di arti “meccaniche” e come tale sottoposto al pensiero superiore dell’uomo di lettere, dell’umanista e del politico, a cavallo del secolo nuovo avviene una curiosa mutazione. L’artista protagonista si fa aristocratico, per formazione e talvolta pure per nascita.

Raffaello, Parnaso, 1511, affresco, Città del Vaticano, Musei Vaticani, Stanza della Segnatura
Leonardo è figlio d’un funzionario di rilievo della Repubblica fiorentina e per questo motivo verrà raccomandato direttamente dal Magnifico per andare a lavorare presso l’amico Ludovico il Moro, a Milano. Michelangelo, figlio del podestà di Chiusi, era in tal senso il suo opposto ed ebbe addirittura la fortuna di formarsi in quelle scuole dei Giardini medicei dove venivano educati alla letteratura i futuri papi Leone X, figlio del Magnifico, e Clemente VII, suo cugino, assieme al giovane Alessandro Farnese, mandato lì per allontanarlo dagli intrighi e dalla galera di Castel Sant’Angelo, lui che diventerà successivamente papa Paolo III. Senza queste buone relazioni d’adolescenza, la libertà di Michelangelo nei confronti del papato, e forse pure i suoi capricci, non sarebbero mai stati tollerati. Il caso Raffaello Sanzio non è dissimile. Come abbiamo detto, si trova un babbo che lo fa crescere in una corte della quale non è solo pittore ufficiale ma pure intellettuale di punta con la sua Cronaca rimata del 1492. In fondo, avere scelto loro tre come tartarughe ninja non fu idea del tutto sbagliata: rappresentano il prototipo dell’artista moderno, guai e follie compresi.
Ecco perché il primo incarico di Raffaello a Roma, già notissimo per capolavori compiuti nell’Italia tosco-umbra, è quello di scrittore di Brevi apostolici con corrispondente cospicua remunerazione. Si trova ad avere un “posto” burocratico affidatogli da Giulio II, che si farà ancora più articolato in una serie di incarichi paralleli dopo l’elezione di Leone X nel 1513, fra i quali il non minore è quello di Sovrintendente alle Antichità Romane. Sarà lui a continuare il progetto della pianta di San Pietro dopo la morte di Bramante. Architetto, scrittore, burocrate, pittore, tutto concorre a fare di lui l’eccellente, il giovane, il ricchissimo. L’opposto del contorto Michelangelo che, negli stessi anni, steso sulla schiena, dipinge le volte della Sistina, e che lui va a sbirciare per copiarlo e abbandonare lo stile dolce alla Perugino per farne uno nuovo, più muscolato. Curiosa la competizione fra due figli di buona famiglia, appartenenti alla medesima generazione ma con biografie sì diverse che l’uno andrà a morire in giovane età come Mozart, e l’altro quasi novantenne. Michelangelo sempre sofferente del non avere la medesima facilità e felicità del completare che rese famoso il più noto dei fiorentini a Roma, il Botticelli; Raffaello che sin dall’inizio è principe dei pittori, e pure della mondanità. Raffaello con la Fornarina e tante altre, Michelangelo con la misteriosa Vittoria Colonna che lo avvicina ad ambienti non lontani dalla Riforma.

Raffaello, Parnaso, particolare con Orazio

Michelangelo, Profeta Ezechiele, 1511 ca, affresco, Città del Vaticano, Musei Vaticani, Cappella Sistina

Antonio Canova, Paolina Borghese, particolare, 1805-1808, marmo, cm 160x200, Roma, Galleria Borghese

Raffaello, Parnaso, particolare con Calliope, 1511, affresco, Città del Vaticano, Musei Vaticani, Stanza della Segnatura

Raffaello e aiuti, Incendio di Borgo, 1514 ca, affresco, Città del Vaticano, Musei Vaticani, Stanza dell’Incendio

Sandro Botticelli, Punizione dei ribelli, 1480-1482, affresco, Città del Vaticano, Musei Vaticani, Cappella Sistina
Ed è questo, forse, pure il motivo per il quale l’uno dipinge il soffitto e l’altro la ben più comoda parete degli stessi uffici dove opera, quella Stanza della Segnatura dove ai documenti vaticani viene apposto il sigillo e dove si articola la biblioteca. Giulio II, che non tollerava neanche da lontano l’idea di soggiornare nei luoghi criminali del suo predecessore Borgia, aveva cambiato le destinazioni degli appartamenti e aveva all’uopo chiamato una scuderia intera composta da Signorelli, Perugino, Lotto, il Sodoma, Bramantino e Peruzzi. Ma si sa che il papa Della Rovere, da buon Generale dei francescani, non scherzava affatto: a tutto il gruppo sostituisce il giovanotto e gli fa pittare sopra le opere preesistenti di Bartolomeo della Gatta e Piero della Francesca. Allora andavano così le cose; si decideva in fretta.
Nel Parnaso, riprende già Raffaello la contorsione muscolata di Michelangelo nelle due figure che abbracciano la finestra, inventa un Dante che da allora si fa iconografia ufficiale e definitiva, e gioca con profili pittorici che sembrano uscire da bassorilievi antichi anche se quella sua attenzione alla pittura di profilo aveva già raggiunto l’apice nella Deposizione ancora dipinta a Perugia, quando tradisce le boccucce fini alla Perugino che lo avevano ossessionato. Eccole qua le muse dell’antichità che tornano protagoniste attorno ad Apollo. Quanto influenzeranno, tre secoli dopo, Calliope ed Erato i profili di David e le fantasie di Ingres! Fra trecento anni, Calliope diventerà la Paolina Borghese di Canova e la Madame Récamier di David. Saffo e Orazio sono invece innegabilmente presi in prestito da Michelangelo, non solo nella loro fisicità più palestrata, ma pure nel cangiante della veste del poeta.
Raffaello è in quegli anni ciò che sarà Picasso quattro secoli dopo e come lui avrebbe potuto dire: “Je ne cherche pas, je trouve”, nel senso che assorbiva tutto ciò che poteva trovare; e, così come aveva assorbito il sorriso del Perugino, assorbe la confusione della scena di Botticelli, giù nella Sistina, per farne la confusione dell’Incendio di Borgo, ma di quell’effeminato di Botticelli non copia la forma dei corpi. Questi li riprende direttamente dal toscano impegnato sui trabattelli della Sistina. E, come per farsi perdonare, forse è Michelangelo che raffigura nella Scuola di Atene, in versione ironicamente pre-platonica come Eraclito o forse Democrito, ma sostanzialmente contorto e arrovellato nel proprio pensiero; tra l’altro lo pone lì ad affresco già finito: non è presente nel cartone preparatorio che si comprerà un secolo dopo il cardinal Borromeo per l’Ambrosiana a Milano. E poi, per evitare ai posteri ogni ipotesi di confusione, gli mette gli stivali cinquecenteschi e non i calzari antichi o i piedi nudi degli altri personaggi. Per quanto concerne le sottili grisaille che corrono sotto le esplosioni cromatiche, quanto devono queste all’opera di Luca Signorelli a Orvieto, dove fugacemente passò scendendo a Roma! Ma il tutto si riassume in una formidabile riconversione estetica che lo porterà alla fine della sua mutazione, al culmine d’un esperimento troncato − in piena gloria e mentre preparava i fasti della rinnovata Farnesina − certo non dagli eccessi amorosi che gli attribuiva l’invidioso Vasari ma forse solo da una banale malattia o forse dalla volontà degli dèi che chiamano presto chi a loro è caro.

Raffaello, La scuola di Atene, particolare, 1509, affresco, Città del Vaticano, Musei Vaticani, Stanza della Segnatura

Raffaello, La scuola di Atene, intero, 1509, affresco, Città del Vaticano, Musei Vaticani, Stanza della Segnatura
Il “romantico” Sebastiano
Ben diversa la sorte e la storia del veneziano Sebastiano Luciani, detto del Piombo, due anni più giovane di Raffaello. Arriva a Roma nel 1511, ventiseienne, chiamato dal banchiere Agostino Chigi, e per lui lavorerà fuori dall’ambiente papale.
Degli stessi anni è il Ritratto del cardinale Ferry Carondelet e del suo segretario, legato papale di Massimiliano I, inviato in Italia dalla principessa Margherita d’Austria come ambasciatore per le Fiandre. L’impostazione sa ancora molto di Venezia: il tappeto d’oriente che andava di moda a casa sua, l’ordine delle colonne, il paesaggio.

Sebastiano del Piombo, Polifemo, 1512 ca, affresco, Roma, Villa Farnesina
Potente il ritratto del militare: armatura leggermente fuori moda e grinta di un’Italia in costante movimento. Sarà sicuramente piaciuto al committente. Si tratta di opere che fanno capire molto dell’artista.
Arrivato a Roma con più talento che fortuna, si trova a misurarsi con il trionfante urbinate in casa Chigi, nella Villa Farnesina appena oltre il Tevere. È amico e assistente di Michelangelo, cosa che forse un po’ lo reprime, ma gli assicura una buona serie di commissioni.
Appena precedente all’arrivo di Sebastiano a Roma è il potente capolavoro il Giudizio di Salomone, una dichiarazione d’intenti e di talento: prospettive architettoniche con un gruppo che vuole competere con la Scuola d’Atene di Raffaello; personaggi che fra poco verranno disposti in modo analogo dal coetaneo Tiziano a Venezia, nella Pala Pesaro.
Sebastiano del Piombo è curioso anticipatore del pathos che sarà di moda dopo la metà del secolo, con gli orizzonti crepuscolari. Ermetico, quasi romantico, nel Cristo che porta la croce e anche nella Flagellazione. Magistrale nella Pietà di Viterbo.

Sebastiano del Piombo, Ritratto virile in armatura, 1512 ca, olio su tela, cm 87,6x66,7, Hartford, Wadsworth Atheneum Museum of Art

Sebastiano del Piombo, Ritratto del cardinale Ferry Carondelet e del suo segretario, 1510-1512 ca, olio su tavola, cm 112,5x87, Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza
Genialmente precursore ancora, perché alcuni dei suoi personaggi sembrano già pronti per una galleria ottocentesca di ritratti. Come sarà stato felice Anton Francesco degli Albizzi, ritratto in posa determinata e retorica. E come sarà stato contento anche Andrea Doria di apparire così severo e potente sopra il fregio antiquariale che raffigura l’antico rostro della nave romana.
Quello di Sebastiano è un successo crescente in una Roma calante, quando si fa sentire il peso della pittura del nord e si può ormai essere geni anche in provincia: è amato dagli acquirenti, ma poi dimenticato dalla storia e riscoperto di recente.

Sebastiano del Piombo (?), Giudizio di Salomone, 1508-1509, olio su tela, cm 208x318, Kingston Lacy, National Trust

Sebastiano del Piombo, Ritratto di Anton Francesco degli Albizzi, 1525, olio su tela, cm 134x98, Houston, The Museum of Fine Arts

Sebastiano del Piombo, Ritratto di Andrea Doria, 1526, olio su tela, cm 153x107, Genova, Palazzo del Principe

Sebastiano del Piombo (copia da), Flagellazione, 1536-1540, olio su tavola, cm 95x73, Dresda, Gemäldegalerie

Sebastiano del Piombo, Cristo che porta la croce, 1516, olio su tela, cm 12x100, Madrid, Museo Nacional del Prado

Sebastiano del Piombo, Pietà, 1515-1516, olio su tavola, cm 260x225, Viterbo, Museo Civico
I ritmi precisi del Correggio l’emiliano
Antonio Allegri detto il Correggio è il terzo ragazzo della generazione anni ottanta. È nato a Correggio, appunto, in provincia di Reggio Emilia, nel 1489. Anche lui a venticinque anni è già artista maturo, ma fra i tre è l’unico che non ha lavorato a Roma, dove però è probabilmente stato agli inizi del Cinquecento. In questo momento storico non si poteva sfuggire al confronto con l’antico, che a Roma era più sentito che altrove.
È significativo confrontare il Martirio dei santi Placido, Flavia, Eutichio e Vittorino del Correggio, del 1524, con la Deposizione di Raffaello, del 1507. Il movimento in Raffaello rimane antiquariale, come quello che si può scorgere guardando i grandi marmi antichi romani. Quello di Correggio è tutta un’altra cosa: pare sempre influenzato da un curioso vento che agita tutti i suoi personaggi. Nella Madonna del latte, capolavoro oggi a Budapest, compare la stessa movimentazione, come soffiata.

Correggio, Martirio dei santi Placido, Flavia, Eutichio e Vittorino, 1524 ca, olio su tela, cm 160x185, Parma, Galleria Nazionale
Nel Noli me tangere, del 1525, inserisce quella che sarà una sua cifra perenne, una concezione incredibilmente geometrica e tesa delle composizioni. In tutti i suoi quadri dal gusto fresco ci sarà sempre una linea trasversale precisa, una manina che esce e la rompe, un piedino che la riequilibra. Sembra un pensiero analogo a quello di Kandinskij all’inizio del XX secolo.
Correggio imprime ai suoi lavori un ritmo inconfondibile, un movimento perfetto tondo con punti di equilibrio densi di significato.
Nella Venere e Cupido spiati da un satiro sono tutti disposti ancora una volta secondo ritmi precisissimi: il satiro che li guarda e gira per un verso, lei per il verso opposto e il Cupido addormentato è come un piccolo contrappunto nella stessa direzione, in un perfetto rapporto tra geometria, composizione e musica. E il gioco del movimento continua nell’Educazione di Cupido della National Gallery di Londra.

Correggio, Noli me tangere, 1525, olio su tavola, cm 130x103, Madrid, Museo Nacional del Prado

Correggio, Madonna del latte, 1524 ca, olio su tavola, cm 68,5x57, Budapest, Szépmu˝vészeti Múzeum

Correggio, Venere e Cupido spiati da un satiro, 1524-1527 ca, olio su tela, cm 188x125, Parigi, Musée du Louvre
La sua Testa di Cristo viene dalla lezione veneta imparata anche da Sebastiano del Piombo, il rapporto con l’elegante ordine raffaellesco è totalmente svanito, nascono altre eleganze, che provengono dalla cultura del nord.
Solo nel ritratto Correggio tenta un inutile dialogo con la cultura estetica perfetta, quasi neoplatonica, di Raffaello; i personaggi diventano di cera o di porcellana.
Il Ritratto di gentildonna ha un’importanza particolare: è aulico quanto lo deve essere, perché raffigura la protettrice di provincia: Veronica Gambara, principessa di Correggio, vedova governante il mini stato dal 1518, nonché protettrice nelle sue terre dell’arte e degli artisti. Poetessa amica di Bembo, del Bandello, dell’Ariosto, dell’Aretino è apprezzata, due secoli dopo, da un altro conte provinciale di buon successo letterario: Giacomo Leopardi. Così scrive lei, già come nell’Ottocento, intimamente preromantica: “Occhi lucenti e belli Com’esser può che in un medesmo istante Nascan da voi nove sì forme e tante?”.

Correggio, Testa di Cristo, 1530 ca, olio su tavola, cm 28,6x23,5, Los Angeles, J. Paul Getty Museum

Correggio, Ritratto di gentildonna, 1518 ca, olio su tela, cm 103x87,5, San Pietroburgo, Museo Statale dell’Ermitage

Correggio, Educazione di Cupido, 1525, olio su tela, cm 155,6x91,4, Londra, The National Gallery
Nel frattempo il mito era emigrato alla corte di Francia dove, a Fontainebleau, Rosso Fiorentino lo trasporta fra gli stucchi e risolve la questione facendo cacciare al putto l’avida serva. Primaticcio ne realizza un affresco, rendendolo leggermente più gotico. Anni dopo, Rembrandt riprende il tema, ma essendo egli sempre afflitto da questioni di danaro, si limita a una luce dorata, la sua nota specialità. Ma attenzione a credere che in terra fiamminga abbiano copiato gli italiani: sono loro da sempre stati concorrenti commerciali delle nostre repubbliche. Infatti il primo a correre in una direzione aurea della copula è il noto Mabuse, il Jan Gossaert, nel 1527, e nel 1603 Hendrick Goltzius riprende con buon stile il tema lasciando alla vecchia il saggio compito di raccogliere le monetine della fecondazione per riporle in un salvadanaio. Bisogna aspettare la maestria di Gustav Klimt per ritrovare una pioggia di monete d’oro, questa volta sconcertanti nella loro precisione direzionale, ma va tenuto conto che nel frattempo era intervenuto il pensiero di Sigmund Freud a chiarire il significato erotico dei miti. Vi è un’ultima considerazione, poco seria ma inevitabile: Danae per i milanesi si pronuncia danée, il che non viene ovviamente dal denarus latino, ma non tutti lo sanno.

Rembrandt, Danae, 1636, olio su tela, cm 185x202,5, San Pietroburgo, Museo Statale dell’Ermitage
Ecco il motivo per il quale, talvolta, i brianzoli pensano che col danaro si possano ingravidare le fanciulle.

Francesco Primaticcio, Danae, 1533-1540, affresco, Fontainebleau, Galleria di Francesco I

Mabuse, Danae, 1527, olio su tavola, cm 114,3x95,4, Monaco, Alte Pinakothek

Hendrick Goltzius, Danae dormiente, 1603, olio su tela, cm 173,3x200, Los Angeles, Los Angeles County Museum of Art

Gustav Klimt, Danae, 1907, olio su tela, cm 77x83, Vienna, Collezione privata
Amante del suo piccolo contado e solo di quello, fedelissima al marito defunto. “Salve mia cara patria, e tu, felice, Tanto amato dal ciel, ricco paese.”
Perché in quella provincia era già avvenuta l’emancipazione dal potere centrale e quella delle donne: Isabella d’Este, la cognata Lucrezia Borgia, e addirittura la badessa di Parma.
Il gusto della badessa Giovanna
Gli appartamenti della badessa Giovanna Piacenza nel Monastero di San Paolo a Parma sono un campione perfetto per analizzare l’evoluzione del gusto in questo primo ventennio del Cinquecento, di cui è un esempio potentissimo il soffitto della camera affrescata dal pittore parmigiano Alessandro Araldi.
Un gioco infinito della mente più che della qualità pittorica, dove si riassumono tutti i temi possibili, in un modo abbastanza particolare perché è come se qui si tentasse di concentrare tutto ciò che era successo nel Quattrocento. Il centro della stanza apre sui cieli esattamente come nel meglio di Mantegna, le grottesche sono quelle che vanno di moda ormai ovunque e sono anche particolarmente ironiche, i putti sono seduti così scomodamente e preoccupati sulle chimere, da far sorridere. E il tutto contiene un’infilata di cicli narrativi posti l’uno sopra l’altro dove giocano tutte le follie di allora.
Un cocktail curioso fra Antico, Nuovo Testamento e immagini alla Torquato Tasso. La scena della chiamata di Pietro somiglia un po’ alla famosa immagine di Raffaello e la strage degli innocenti sembra invece tornare indietro di mezzo secolo, in direzione della battaglia degli uomini nudi.
Invece i moniti per le monache, nelle lunette, sono ancora più curiosi: la Caritas mi colpisce non solo perché afferma il diritto di porgere il seno al povero disperato con i ferri autentici ai piedi, ma perché tutta la scena si svolge all’interno di un paesaggio che sembra molto più moderno dell’epoca, tutto come nel grande Quattrocento, l’unicorno e il trionfo in versione monacale.
Un’esaltazione perenne dell’horror vacui che corrisponde in pieno all’esaltazione culturale di quegli anni, ma che si conclude in questa stanza con un porticato dipinto dal quale scorgiamo spazi lontani e infiniti.

Alessandro Araldi, Volta delle grottesche, 1514 ca, affresco, Parma, Monastero di San Paolo, Appartamento della badessa, Camera delle Grottesche
Tra la camera dell’Araldi e quella del Correggio vi sono appena cinque anni di distanza, ma cambia il mondo, si passa dalla super-decorazione alla iper-pittura.
Non si è cancellata la tradizione quattrocentesca della passione assoluta per la verzura al soffitto, ma il tutto vuole avere un gioco unitario e ogni elemento esiste in quanto è economico a quell’altro.
I lunotti che descrivono i quattro elementi – acqua, terra, aria e fuoco – come tutto il resto della stanza decorata a fregio, si pongono sopra delle doppie teste di ariete le quali reggono un drappo sottilissimo nel quale, con naturalezza e morbidezza totali, sono appoggiati gli oggetti che agli elementi si riferiscono. Il piatto d’oro per i frutti della terra è poggiato perfettamente e incide meno nel tessuto della grande brocca dell’acqua. In questo mondo dove si tratta di far combaciare l’antichità e il cristianesimo è naturale che siano presenti Saturno, Giove e le Parche, ed è comprensibile che le Parche siano rappresentate sopra una tenda che contiene la scure che taglia la vita. Ultima a destra è la dea romana, la Rea Silvia, almeno che non si tratti di Ino con un Bacco bambinetto.

Correggio, particolare della decorazione della Camera della Badessa, 1519, affresco, Parma, Monastero di San Paolo
Sopra, i putti giocano appassionatamente con i cani, compiendo anche piccole carognerie, come legargli la bocca. Si preparano tutti questi putti ovviamente alla caccia con Diana, rappresentata con il suo carro con le frecce sopra al camino in una versione molto meno salmodica da Antico Testamento di quella della stanza di cinque anni prima. È compiuta la rivoluzione emiliana del Rinascimento.

Correggio, particolare della decorazione della Camera della Badessa

Correggio, particolare della decorazione della Camera della Badessa