Avvertenza per il lettore.

Un lettore avvertito ne vale probabilmente due, secondo il proverbio francese “Un homme averti en vaut deux”.

Mi sento obbligato sin dall’inizio di questo volume a fare alcune pudiche confessioni al lettore intraprendente. Sono una sorta di versione derubricata del dottor Frankenstein, mi ha inventato una decina di anni fa un curioso ricercatore da laboratorio che si chiama Pasquale D’Alessandro il quale mi proiettò dalla vita domestica in quel globo magico di pesci rossi che è lo schermo televisivo, laddove ho avuto la libertà di fare un po’ ciò che volevo e quindi di intraprendere un viaggio esoterico nel mondo delle arti.

L’esoterismo è affascinante perché è iniziatico, la televisione è formidabile perché permette di evitare la divulgazione, quella pratica diffusissima del prender cose complesse e semplificarle per il volgo, e consente invece di carpire l’attenzione del pubblico per trascinarlo in un viaggio di scoperta e per questo motivo proprio “iniziatico”. La televisione, lo dice la parola stessa, tele-vede, vede da lontano, anche se non sempre guarda lontano. La telecamera è uno strumento ottico di grande fascino perché permette di isolare, di circoscrivere e quindi di rivelare. La rivelazione sta nel veder da vicino ciò che di solito si guarda da lontano.

E il risultato ne è un’immagine dove quel curioso essere, che la pratica televisiva chiama conduttore come se avesse le redini in mano, assume il potere di condurre lo spettatore in luoghi e direzioni da lui volute. Grande privilegio questo, perché consente grande potere. La televisiun, la g’ha la forsa del leun, cantava il protagonista dello spettacolo Jannacci.

L’altro privilegio assoluto fu quello di mettere i guanti bianchi e di consentire al pubblico che seguiva l’operazione di sentirsi egli stesso guantato. Topolino porta i guanti bianchi ma non se ne è mai capito il motivo. Le mie sorelle, Liliane e Yvette, avevano l’obbligo di mettersi i guanti bianchi per salutare la mamma quando uscivano dal collegio dell’Assomption a Colmar; ma erano altri tempi. Io coi guanti bianchi ho avuto il diritto di girar le pagine del Virgilio di Petrarca come della Bibbia di Borso d’Este, ho avuto la fortuna irripetibile di prendere in mano la corona ferrea che Napoleone si mise in testa, ho potuto esaminare da vicino e sotto il naso i camei che furono degli imperatori romani e passarono poi agli zar di tutte le Russie. Per questo privilegio ringrazio Pasquale e il pubblico.

Il percorso, di per sé inconsueto assai, ha lasciato delle tracce, delle memorie, delle immagini, dei testi. È il frutto, pensato una seconda volta, rivisto nella magia della pagina, di questi sedimenti che ha generato il libro che tenete in mano. Buon viaggio. I libri sono come i diamanti, e diamonds are forever, come sostiene l’altro protagonista dello spettacolo James Bond.

Il viaggio non sarà particolarmente faticoso perché è breve. Copre infatti un percorso abbastanza contenuto dell’eredità storica che forma il nostro inconscio collettivo. È quello nel quale nasce, come sostiene brillantemente il mio amico Antonio Paolucci, la lingua visiva che parliamo ancora oggi, quella d’Europa, ma in particolare quella della più densa culla d’Europa che è l’Italia. Da Giotto a Caravaggio giocano tutte le ipotesi che ossessionano la nostra psiche contorta. Vi si ritrova il costante risorgere delle lingue estetiche preesistenti, quella greco-latina per intenderci, e di quelle invece ancorate nel fondo delle nostre viscere indigene, quelle espressioniste che dalle passioni per il sangue degli Etruschi hanno corso fino alle ferite di Caravaggio.

So benissimo che questi temi sanno di consuetudine nel sapere di ognuno, o meglio di chi di più di chi di meno, so che hanno generato tedi infiniti nelle sonnolenze scolastiche, ho quindi intrapreso costantemente una strada diversa, quella che talvolta risveglia l’attenzione anche dell’apatico, la strada che più intimamente attrae i nostri amici più cari, quella del pettegolezzo. Ecco il motivo per il quale questo libro non potrà mai diventare un libro di Storia dell’Arte, con le due auliche maiuscole, ma si limita a essere una iniziazione alle storie delle arti. Ecco il motivo per il quale nutro l’ambizione, forse esagerata, di non annoiare il lettore.

Personalmente ho imparato a guardare le opere d’arte da ragazzo perché mi capitava di venderle. E tutti sanno che nulla è più pericoloso del commercio: occorre procedere con i piedi di piombo, anzi meglio ancora con la scarpa ben allacciata, per evitare le slogature. È lì che imparai a guardare in modo non accademico, anche se non imparai mai bene le regole del commercio. Credo che le opere che il passato ci tramanda richiedano sempre una sommatoria di punti di vista per evitare di vederle solo nella lontananza di un cannocchiale rovesciato. La grande lezione che ci hanno regalato i filosofi della sofistica greca è quella dell’ironia, laddove “eironeia” non ha nulla a che vedere con il ridere, ma corrisponde allo spostamento dell’ottica conseguente a domande trasversali capaci di portare il confronto in una direzione voluta quanto inattesa. È questo procedimento l’unico alternativo a quello severo della deduzione sillogistica. Ora, come tutti sanno, l’arte non vuole razionale deduzione ma mutazione degli intuiti. A questa ginnastica della mente è chiamato il lettore che abbia voglia di una piccola avventura domestica, non pericolosa ovviamente, ma suscettibile di convincenti bizzarrie.

I testi qui contenuti sorgono da una propedeutica televisiva e come tali non hanno l’articolazione dei testi nati per la sola scrittura. Il linguaggio televisivo è icastico, deve essere conciso, è distante assai da quello di una conferenza accademica o di una lezione universitaria. L’editore che è sempre più crudele dello scrittore mi ha spinto a usare questo linguaggio nuovo e a reprimere la mia naturale inclinazione alla pagina infinita che tanto piaceva a Marcel Proust. Proust come Thomas Mann purtroppo non si adattano al fumetto. Mentre la mia vera scuola di formazione, e ho finalmente il coraggio di confessarlo, sono le invettive del capitano Haddock, il compagno fedele di Tintin, quel fumetto che ogni francofono di formazione sente come fondativo della propria sensibilità di globetrotter. Ecco perché ho avuto l’audire di rubare a Hergé, il creatore di Tintin, lo slogan della sua didattica: “Per i giovani dai 7 ai 77 anni”. Non si sentano però esclusi dalla lettura gli adolescenti di 90.