La sensualità della campagna veneta
Dice il topo di città al topo di campagna: “Faresti meglio a lasciare questi posti selvatici e provare le comodità della città. La vita è breve, finché sei in tempo vieni a godere il lusso, l’allegria e la gioia del benessere”. Sono parole anche di Orazio. È questa la morale del mio percorso di rilettura della pittura veneta, che nasce dall’incontro fra la cultura di campagna e quella di città.
Itopi di città di Venezia sono Bartolomeo Vivarini, Carlo Crivelli, Giovanni Bellini, Vittore Carpaccio, Tintoretto e Canaletto, severi e teatrali. I topi della campagna veneta sono invece Cima da Conegliano, Giorgione, Tiziano, Jacopo Bassano e Veronese, portatori d’una sensibilità sensuale dove la natura gioca un ruolo fondamentale. Tutte e due le categorie sono acquatiche, perché il Veneto così vuole (e perché qui anche la polenta è più liquida che in Lombardia). Questa idea della liquidità ci permette di superare la vecchia opposizione tra Firenze e Venezia (disegno contro colore) e di pensare che, se è vero che il colore non ha bisogno di disegno, è pur sempre portatore di segno.
La storia di Venezia cambia sostanzialmente con la caduta di Costantinopoli e la scoperta dell’America. Cambia perché dal mare si comincia a pensare alla terra. E poi, nel 1508, c’è l’ultimo tentativo di reprimere la Serenissima, fatto dalla Lega di Cambrai che mette insieme l’Impero, la Francia e il Papato. Fino a quel momento, la pittura veneziana rappresenta sempre e solo la città, come si può vedere nel grandissimo quadro di Giovanni Mansueti, che racconta episodi della vita di san Marco, dipinto per la Scuola Grande di San Marco. Dopo quel bizzarro pasticcio, Venezia muterà direzione, guarderà definitivamente alla terraferma. Venezia inventa il Veneto e il Veneto cambierà Venezia.
La Venezia ideale di Carpaccio
Per Vittore Carpaccio la questione è sostanzialmente la medesima, ma con alcuni elementi in più. Nei suoi dipinti, come per esempio la Predica di santo Stefano, l’architettura è protagonista della fantasia, il mondo è pieno di gruppi che conversano come succede a Venezia, ma appaiono dei primi elementi naturali. È una natura immaginata, forse anche gli animali lo sono: l’artista non è mai uscito da Venezia. L’unica cosa che è certa è il movimento e la vita delle persone. Tre sono gli elementi che convivono sempre: le architetture, i personaggi che “ciacolano” e quantità infinite di coniglietti, cervi inattesi e uccelli imprevisti. Il massimo di questa sommatoria di elementi si trova nelle Storie di sant’Orsola. Nelle scene, come quella del Ritorno degli ambasciatori in Inghilterra, le architetture vere si sommano a quelle immaginate. Fa parte del ciclo un telero che narra la dipartita dell’ambasciatore d’Inghilterra, che ha appena consegnato la lettera in base alla quale la futura santa sta per sposarsi con il figlio del re di quel paese. Nel caso specifico, racconta una scena che nella Repubblica di allora era quotidiana, perché Venezia era la più potente sede diplomatica mai inventata fino a quel momento. Ogni giorno riceveva ambasciatori da ogni angolo dell’Occidente e ogni giorno arrivavano dispacci dai suoi stessi ambasciatori, sparsi nelle corti d’Europa e del Mediterraneo. Smistamenti rapidi di pergamene ancora oggi conservate a centinaia di migliaia presso la Biblioteca Marciana, cancelleria perenne per un’informazione pilastro del commercio e della politica.
Ma nella pittura del Carpaccio appaiono anche, per la prima volta, i veri protagonisti della vita veneziana: il cane, quello che seguirà i veneziani fino a Canaletto, e la bricola, bella, rotta e naturale. Il mondo urbano e lagunare di Carpaccio sarà contaminato dai “topi di campagna”, ovvero da quei pittori che provengono da ogni angolo dell’entroterra veneto.

Vittore Carpaccio, Predica di santo Stefano, intero, 1514, olio su tela, cm 148x194, Parigi, Musée du Louvre

Vittore Carpaccio, Predica di santo Stefano, particolare, 1514, olio su tela, cm 148x194, Parigi, Musée du Louvre

Vittore Carpaccio, Ritorno degli ambasciatori in Inghilterra, particolare, 1495-1498, olio su tela, cm 297x525, Venezia, Gallerie dell’Accademia
Cima da Conegliano e le nuvole
Occorre allora partire da Conegliano, città di Giovanni Battista Cima. Fu costui un artista molto prolifico, che visse a lungo e vide le sue opere emigrare, così come poi sarebbero emigrati i veneti, nel mondo intero. Un artista in fondo operaio, che ha imparato da Giovanni Bellini un gusto preciso per la pittura, ma che ha anche saputo guardare ovunque attraverso l’Italia.
Quante cose può raccontare un solo quadro, la Sant’Elena del 1495. Lei è innegabilmente veneziana, come lo sono tante veneziane della seconda metà del Quattrocento, raccontate dal Bellini. Ma vi sono qui due elementi che rendono il quadro molto più ancorato alla sua terra d’origine, Conegliano: lo straordinario corpetto della santa, così incredibilmente sexy, ben poco laico ma probabilmente molto bizantino nell’immaginario di chi lo ha dipinto, e la funzione fondamentale del paesaggio a sinistra e a destra della santa, preciso nella sua descrizione con il fiume e le casette agricole.

Cima da Conegliano, Sant’Elena, 1495 ca, olio su tavola, cm 40x32, Washington, National Gallery of Art
Nel Riposo durante la fuga in Egitto del 1496-1498 si ritrova lo stesso corpetto sexy, indossato questa volta da santa Lucia; lo stesso castello in cima alla collina e poi le stesse nuvole venete. Lo stesso castello, lo stesso ingresso nella città, lo stesso ponte sono ancora nella Madonna con il Bambino della National Gallery di Londra, delicatissima, molto domestica e agricola, che guarda il suo bambino con una tenerezza materna disarmante. E ovviamente anche qui non mancano quelle nuvole venete, che continueranno a sopravvivere nella pittura di queste zone fino a Francesco Guardi. Sempre a Londra, alla National Gallery, si conserva un’altra Madonna, del 1505, dove il Bambin Gesù ha questa volta un aspetto meno preoccupato mentre la Vergine è ancor più giovane. Qui torna lo stesso ponte visto prima e finalmente si spiega la sua origine: non esiste da queste parti, probabilmente è la citazione del ponte perfetto di Rimini, quello d’epoca tiberiana che s’inserisce elegantemente e con assoluta naturalezza fra edifici locali invece reali. Ritroviamo altre citazioni qui con le rovine di un tempio antico sopra una città contemporanea. Quanto è cittadina la manica perfettamente lavorata e quanto è deliziosamente agreste il velo della Madonna. Ma vi sono due elementi in più, passo ulteriore: la presenza di un cerbiatto cristologico, lo stesso che troviamo regolarmente in Carpaccio, e il soldato con la lancia in mano che ritroveremo invece nella Tempesta di Giorgione, del tutto simile a quello in versione arcangelo Michele nella Madonna con il Bambino e i santi Andrea e Michele ancora di Cima, grande tela che racconta tutto il riscatto della nascita di Cristo, sull’antichità distrutta. Ovviamente sempre sotto lo stesso paesaggio a lui contemporaneo, ma dove il racconto antiquariale è svolto con estrema sapienza. Sant’Andrea deriva da un’incisione del Mantegna e sempre da lui viene probabilmente molto del gusto per l’antichità, nonché la descrizione precisa e abbondante dei finti marmi. Ma è un’archeologia annusata più che assimilata veramente, dove i dettagli diventano allegramente locali e il famoso bucranio storico diventa una testa di mucca. In fondo non è bucranio, non è taurino, è una pubblicità dei latticini.

Cima da Conegliano, Riposo durante la fuga in Egitto, 1496-1498, tempera e olio su tavola, cm 54x71,5, Lisbona, Museu Gulbenkian – Fundação Calouste Gulbenkian

Cima da Conegliano, Sant’Elena, particolare

Cima da Conegliano, Riposo durante la fuga in Egitto, particolare

Cima da Conegliano, Madonna con il Bambino, 1496-1499, olio su tavola, cm 69x57, Londra, The National Gallery

Cima da Conegliano, Madonna con il Bambino, particolare, Londra, The National Gallery

Cima da Conegliano, Sant’Elena, particolare, Washington, National Gallery of Art

Cima da Conegliano, Madonna con il Bambino, intero, 1505 ca, olio su tavola, cm 53x43,8, Londra, The National Gallery

Cima da Conegliano, Madonna con il Bambino, particolare, 1505 ca, olio su tavola, cm 53x43,8, Londra, The National Gallery

Cima da Conegliano, Madonna con il Bambino, particolare, 1505 ca, olio su tavola, cm 53x43,8, Londra, The National Gallery

Cima da Conegliano, Madonna in trono tra i santi Giacomo apostolo e Girolamo, intero, 1489, olio su tela, cm 214x179, Vicenza, Museo Civico

Cima da Conegliano, Madonna in trono tra i santi Giacomo apostolo e Girolamo, particolare, 1489, olio su tela, cm 214x179, Vicenza, Museo Civico
Certo il contatto con Mantegna è ancora più importante se si pensa che quasi negli stessi anni appaiono le attenzioni per un cielo che si intravede in mezzo alle foglie nella Madonna in trono tra i santi Giacomo apostolo e Girolamo del 1489. Una struttura architettonica perfetta con una passione per la prospettiva centrale, già coltivata nell’Italia centrale di quegli anni, ma che sarà codificata nell’architettura di Sebastiano Serlio pochi anni dopo; l’opera conserva della cultura gotica ormai solo la piccola lucertola, mentre esalta quelle trasparenze nuove che negli stessi anni appaiono a Mantova. Un dipinto perfettamente rinascimentale nella sua concezione architettonica e nel suo ordine descrittivo. E ne deve essere stato proprio fiero Cima, del suo lavoro, se lo firma con tanta enfasi in un cartellino centrale proprio sotto la Madonna.

Cima da Conegliano, Madonna con il Bambino e i santi Andrea e Michele, 1505, olio su tela, cm 259x137, Parma, Galleria Nazionale

Giorgione, La tempesta, particolare, 1503-1504, Venezia, Gallerie dell’Accademia

Cima da Conegliano, San Girolamo nel deserto, 1500-1510 ca, olio su tavola, cm 63,5x100,5, Harewood, Harewood House Trust

Cima da Conegliano, Trittico di Navolè, San Martino e il povero, inizio del XVI secolo, olio su tavola, cm 180x90, Vittorio Veneto, Museo d’arte sacra
Va tra l’altro valutato questo suo doppio comportamento, capace di essere talvolta ordinatissimo e talaltra tornando a una sorta di linguaggio dove tutto si accumula e si somma: il San Gerolamo nel deserto è visto contemporaneamente in contemplazione e mentre studia. Il luogo dove studia viene ripetuto una seconda volta, col leone famoso fedelissimo. Tutto compreso in un gioco di horror vacui totale, con lucertoloni e serpenti, uno sparviero dall’occhio attento sulla punta del ramo, una piccola scena agricola, mentre tutto sembra composto da una sovrapposizione di paesaggini come in un collage. Non è una situazione reale: la lucertola è in lotta con il serpentello, il serpente è preoccupato perché il martin pescatore fra poco lo beccherà. Ritroviamo qui il cervo cristologico, e poi un contadino con l’asinello, le due pernici dalle zampe rosse che si dicono essere simbolo della tentazione, il rapace simbolo dell’orgoglio dal quale guarire.
Il Trittico di Navolè è un dialogo con tutta la realtà visiva che si sta articolando nell’Italia del primo Cinquecento e dove ritrovo dei dettagli attraenti, come i cuoi rossi del cavaliere San Martino, al centro, allora molto di moda, e degli altri che appartengono invece proprio al suo modo di concepire. Quella precisione come intagliata delle facce è un elemento che si ritrova parecchie volte in Cima.
Il Veneto povero è innegabilmente magro, scarno, come quell’incredulo san Tommaso, nel dipinto delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, che infila il dito nella piaga di Gesù. Ed è scarno anche il San Rocco del Polittico di Olera, dipinto in modo eccellente, che mostra la sua piaga alzando la camicia.

Cima da Conegliano, Polittico di Olera, San Rocco, 1489 ca, olio su tavola, Olera, Chiesa parrocchiale
Venezia inventa il Veneto e il Veneto cambierà Venezia.
I misteri di Giorgione
Da Castelfranco Veneto viene un altro grande di cui abbiamo pochissime opere certe, ma in quelle poche si concentra un mito: Giorgione. Castelfranco è una fortezza voluta da Treviso per difendersi da Padova nel Duecento, franco il castello perché era libero da vincoli e da tasse, ma anche forse perché ha lasciato crescere una mentalità molto libera e libertaria. Lì, nella chiesa del piccolo borgo, si conserva una delle sue opere migliori: la Pala di Castelfranco, del 1505. Accanto alla chiesa, nella casa-museo che porta il suo nome, Giorgione lascia un fregio molto significativo, perché apre gli occhi su quel mondo curiosissimo, misto di astronomia e di astrologia, di matematica e di predizioni, secondo le inclinazioni mentali del matematico, medico e astrologo Giovan Battista Abioso che nel 1496 speculava sulla fine del mondo, e dove lo spirito scientifico si combina con l’origine sua campana. Mentre il Veneto, in contatto con quel mondo, entra in una dimensione che la pittura di allora non aveva ancora conosciuto: la dimensione dell’immaginario, quella dimensione molto napoletana in cui lo spirito scientifico si mescola con la fantasia, come si combinerà cent’anni dopo nella testa di Tommaso Campanella. Una dimensione che porta nel mondo del probabile e della surrealtà.
Molto probabilmente Giorgione è il primo incrocio tra un’esperienza primordiale, leggermente naïf, e uno sviluppo immediatamente successivo consapevole e surrealista.
Le tre età dell’uomo, del 1500-1501, sono emblematiche perché partono da un’iniziazione numerica, la più sofisticata di tutte: quella della musica. In fondo, cosa si dicono quegli altri due nel Doppio ritratto del 1502-1503, lui con il baffo già sviluppato e l’altro con il baffo sporgente, enigmatici e ambigui, con le puntine d’oro che cadono dal cappello e un’arancia selvatica in mano? E cosa bisbigliano quei due nel Ritratto di guerriero, lui così apparente e l’altro nascosto nell’ombra, che gli posa una mano sul braccio come per fermarlo? Tutti si sussurrano misteri arcani, che già apparivano nel primo Giorgione.

Giorgione, Fregio delle arti liberali e meccaniche, particolare, 1502-1503 ca, affresco, Castelfranco Veneto, Museo Casa di Giorgione
Il Saturno in esilio del 1498, è triste e appunto saturnino, sotto un ombrello protettivo che a noi appare come una abatjour. Un offerente gli porge, per fargli sopportar la tristezza, un vassoio di fiori recisi, appena tagliati con delle forbici che tiene ancora infilate nella cintura. Riappare ancora una volta la musica in un mondo come fatato, dove ritrovo il cervo di sempre, accanto al pavone naturalmente, insieme con un leopardo che è molto meno improbabile del previsto perché nel 1402 ne arrivarono due a Venezia, mandati al seguito dell’ambasciata del Negus. Trovo poi un corvo o uno sparviero, trasformato in gazza. Ma attenzione, gazza è e non è. Tutto qui è il suo mistero, perché punta col becco in un foro della roccia dove prende forma l’ipotesi di un san Gerolamo, il quale anche lui è e non è. E poi ipotesi di paradisi terrestri improbabili, analoghi a quelli che in quegli stessi anni sta scrivendo e descrivendo Francesco Colonna nel suo Hypnerotomachia Poliphili.

Giorgione, Le tre età dell’uomo, 1500-1501, olio su tavola, cm 62x77, Firenze, Galleria Palatina di Palazzo Pitti

Giorgione, Ritratto di guerriero, 1509 ca, olio su tela, cm 72x56,5, Vienna, Kunsthistorisches Museum

Giorgione, Doppio ritratto (Ludovisi), 1502-1503, olio su tela, cm 77x66,5, Roma, Museo di Palazzo Venezia

Giorgione, Saturno in esilio, intero, 1498 ca, olio su tavola, cm 59x49, Londra, The National Gallery

Giorgione, Saturno in esilio, particolare, 1498 ca, olio su tavola, cm 59x49, Londra, The National Gallery

Francesco Colonna, Hypnerotomachia Poliphili, Corteo con ninfe, drago e putti, 1499, xilografia, Venezia, Biblioteca Marciana
In fondo, sin dagli esordi, in Giorgione tutto è e non è. Tutto è vero ed è fantasia, tutto è forse molto più fantasia che vero.
E ricompaiono anche nel Giudizio di Salomone alcuni elementi stabili: la torre espressiva che forse ci sorride, ma anche no; i paesaggi incredibili che sono un cocktail di campagna e di Venezia; scene con personaggi vestiti a loro volta in modo particolarmente bizzarro. Come lo sono pure i tre personaggi curiosissimi nel Concerto, del 1508, anche se a mio parere non cantano affatto. Il barbuto è silenzioso, il personaggio centrale forse urla o canta. Ma è straordinaria nella sua deformità la posizione del personaggio di sinistra che pare uscire già dalla mano di Gustave Doré.
Diventa possibile così accettare con entusiasmo l’attribuzione recente del Cristo portacroce della Scuola Grande di San Rocco a Venezia, dove lo stesso dialogo s’instaura tra il Cristo e un bizzarrissimo barbuto, che potrebbe sembrare un magistrato spagnolo lasciato libero di correre per l’Europa. In secondo piano ancora due figure enigmatiche, simili a leonardesche caricature.
A questo punto mi permetto di smontare le mille interpretazioni sorte intorno alla Tempesta, del 1503-1504: quadro mitico, un ciclone nell’ambito del dipingere. Possiamo cominciare qui a definire alcuni punti certi: è assolutamente sicuro che quel fulmine in lontananza non si sta abbattendo sulle Twin Towers di New York, i misterismi non esistono, esiste solo un’anticipazione formidabile del dibattito che nel XX secolo opporrà la metafisica di Giorgio de Chirico al mondo onirico di André Breton.

Giorgione (o Tiziano), Cristo portacroce, 1510 ca, olio su tela, cm 70x100, Venezia, Scuola Grande di San Rocco

Giorgione, Concerto (Sansone deriso), particolare, 1508 ca, olio su tela, cm 86x70, Collezione privata

Giorgione, Giudizio di Salomone, 1495-1498, olio su tavola, cm 89x72, Firenze, Galleria degli Uffizi
Forse così riusciamo finalmente a capire un po’ meglio il Tramonto della National Gallery di Londra. Questo quadro è a sua volta incredibilmente bizzarro: diviso in due da un albero, come se l’albero fosse l’elemento principale. Con un san Giorgio inatteso che infilza il drago, mentre Filottete si fa curare il piede da Lemno, ma potrebbe anche essere soltanto un passeggiatore che si è slogato la caviglia. Comunque sia, le figure vivono in un paesaggio delicato e mentale, dove in fondo si scorge un mare dal colore verde e cupo, che mostra però altri aspetti inquietanti come a destra la roccia dalle sembianze di una capra in meditazione, mentre sulla sinistra la roccia si fa volto misterioso e orrendo. Una dimensione a mio parere nient’affatto simbolica, come sempre si crede, ma puramente onirica. Giorgione suona anche il manifesto d’una nuova sensualità con la Venere di Dresda; lo suona a quattro mani con un suo giovane socio che viene dalla montagna, il cadorino Tiziano.

Giorgione, La tempesta, 1503-1504, olio su tela, cm 82x73, Venezia, Gallerie dell’Accademia

Giorgione, Tramonto, 1506-1510, olio su tela, cm 73,3x91,4, Londra, The National Gallery
Jacopo Bassano, il vate dei piedi sporchi
Bassano del Grappa è la città del Ponte degli alpini sul fiume Brenta – quante volte l’hanno distrutto! (L’ultima volta è successo durante la Seconda guerra mondiale ed è poi stato ricostruito, pare, secondo i disegni di Palladio). Ed è anche la città di Jacopo da Ponte, figlio di padre pittore, Francesco, un po’ rustico però non privo di una forte capacità espressiva e con un’attenzione tipicamente artigianale ai dettagli concreti.
A trent’anni Jacopo è pittore maturo. Lo conferma la Sant’Orsola del 1542, dove già è chiara la sua personalità. Neanche lontanamente è afflitto da manie intellettuali dell’epoca, ma sicuramente è attento alla realtà che vive e che riporta con una precisione abbastanza commovente. La fanciulla martire è rustega, come le sue origini. Sono commoventi le unghie dei suoi piedi, di chi il sandalo lo porta poco, la sega da legno che per quanto leggermente scrostata è esattamente identica a quelle che si usavano fino a vent’anni fa da queste parti e lascia apparire sulla sua dentatura i puntini bianchi del legno strappato.

Jacopo Bassano, Sant’Orsola tra i santi Valentino e Giuseppe, particolare, 1542, olio su tela, cm 168x106, Bassano del Grappa, Museo Civico

Jacopo Bassano, Sant’Orsola tra i santi Valentino e Giuseppe, intero, 1542, olio su tela, cm 168x106, Bassano del Grappa, Museo Civico
Il Riposo durante la fuga in Egitto è del 1547. Cinquant’anni dopo sarà comprato dal cardinal Federico Borromeo, che in lui trova una serie di virtù estetiche assolutamente fondamentali. Ed è per quel periodo forse uno dei dipinti più potentemente realisti. Ma è anche un compendio di micro-contraddizioni: la Madonna è già manierista, come se avesse dialogato con i colori dei fiorentini o forse con El Greco, se però il suo comportamento è aulico, la sua faccina è agreste. Il Bambino Gesù è proprio un puteo di quelli classici. San Giuseppe è realmente preoccupato. E la sua condizione umile è rappresentata dai singoli dettagli, in modo formidabile nella precisione delle calze e dei calzari. E questi tre personaggi che non dovrebbero avere nulla a che fare in realtà con la fuga in Egitto, perché è una fuga da miserabili quindi senza servitù appresso, però tengono un asino dal muso perfetto e con la corda della musina arrotolata intorno all’orecchio per renderlo obbediente. Un’attenzione precisa alla vita degli animali. Chissà se possedere due cani, che appaiono costantemente, era per lui un segno di sudditanza alla psiche di Tiziano, che non concepiva mai un quadro senza un cagnetto. I cani li ritrovo esattamente in un dipinto del 1548 da poco acquistato dal Louvre.

Jacopo Bassano, Riposo durante la fuga in Egitto, intero, 1547, olio su tela, cm 118x158, Milano, Pinacoteca Ambrosiana

Jacopo Bassano, Riposo durante la fuga in Egitto, particolare, 1547, olio su tela, cm 118x158, Milano, Pinacoteca Ambrosiana
Stessa Madonna, medesimo fanciullo rubicondo con il ciuffetto in testa, ammirato da un vegliardo chic, li incontriamo nell ’Adorazione dei Magi. Il vecchio, uno dei magi, indossa qui un vestito di sontuosa qualità, però è ritratto in una posizione assolutamente popolare, in ginocchio. E lascia apparire un paio di stivali in vacchetta rovesciata e con l’attaccatura degli speroni identica a quella che si usa ancora oggi. L’asino sulla sinistra sembra annusare l’oro, e in realtà il vero centro del quadro è proprio il vecchio genuflesso. A tal proposito Jacopo pare aver avuto qui un pentimento etico: ha ridato centralità al Gesù con una sorta di illuminazione stellare che lo colpisce. Si capisce che non ha mai visto un cammello, ma di vecchi in ginocchio che giocano affettuosamente con i bambini ne ha visti tantissimi. Perché di anziani lui se ne intende, se aveva ritratto in questo modo Pietro Bembo, pelo bianco per pelo bianco, un po’ come se fosse concorrente degli altri grandi ritratti che in quegli anni Tiziano fa dei letterati.

Jacopo Bassano, Due bracchi legati al tronco di un albero, 1548-1550, olio su tela, cm 61x80, Parigi, Musée du Louvre

Jacopo Bassano, Adorazione dei Magi, 1568 ca, olio su tela, cm 94x130, Birmingham, The Barber Institute of Fine Arts

Jacopo Bassano, Discesa dello Spirito Santo, particolare, 1559 ca, olio su tela, cm 311,5x172,5, Bassano del Grappa, Museo Civico

Jacopo Bassano, Discesa dello Spirito Santo, intero, 1559 ca, olio su tela, cm 311,5x172,5, Bassano del Grappa, Museo Civico
Nella Discesa dello Spirito Santo anche la Madonna è vecchia, come sta invecchiando lui stesso. Jacopo Bassano si intende di vita quotidiana, di dettagli materiali ma soprattutto di piedi sporchi. Ho visto in lui i piedi più sporchi della storia della pittura dei piedi sporchi. È la dichiarazione di libertà di una popolazione di campagna che vive a piedi nudi e contesta profondamente la Venezia delle ciabatte. E tutto ciò lo fa assimilando al meglio la grande lezione di un Tiziano che sta diventando impressionista, dove non conta più il disegno ma solo la materia che va a formare l’immagine, e dove i contrasti tra i colori possono essere totali.
Con Jacopo Bassano si verifica un fatto molto curioso: il manierismo diventa espressionismo, e i colori rosa, forse provenienti da Firenze, assieme agli azzurri dei fondi, forse provenienti dai primi tentativi di Giorgione, generano un cromatismo che El Greco porterà in Spagna.
San Valentino battezza santa Lucilla riassume perfettamente l’itinerario d’una maturità raggiunta e di una qualità tecnica ormai totalmente dominata. Il cagnetto di Tiziano è tranquillo, la lezione è assimilata. La capacità di dipingere le stoffe è insuperabile, sia nell’argentato della santa che si fa battezzare, sia nel moiré della manica del paggetto. La croce è quella di casa, cioè quella di Bassano. Ma ciò che mi commuove in fondo sono i dettagli della quotidianità: una sedia con una impagliatura come quelle che si trovano in giro ancora da queste parti, le forbici, il cestino dei lavori che ogni buona fanciulla per diventar santa deve necessariamente praticare e, piccola nota conclusiva e centrale del dipinto intero, la mela.
Il codice linguistico diventerà stabile nelle opere successive, nella raffigurazione esaltatoria del mondo contadino e dei suoi animali domestici. In un Veneto di lavoratori, che piacerà alla Controriforma nascente, Bassano si trasformerà da artista pop in artista di traino, a tal punto che i suoi figli, ormai alla terza generazione di pittori, sicuramente meno bravi di lui, saranno ormai signori sanciti, artisti-artigiani con una vera professione in mano.

Jacopo Bassano, Ritratto di Pietro Bembo cardinale, 1545, olio su tela, cm 57x45, Budapest, Szépművészeti Múzeum

Jacopo Bassano, San Valentino battezza santa Lucilla, 1575 ca, olio su tela, cm 183,5x129,5, Bassano del Grappa, Museo Civico
Il Veronese, lusso e seduzione
Analizziamo infine il caso di Paolo Caliari detto il Veronese, perché viene da Verona. Viene dalla terraferma anche questo “topo”, con la sua idea di maschi convinti e seri anche quando diventano santi, con le carni morbide e biancastre delle sue femmine che si sostengono sempre il seno. Non per nasconderlo ma per porgerlo languidamente, come in questo capolavoro autentico, Venere e Marte con Cupido, la dea dell’amore e il dio della guerra, infedeli, affogati in un lusso satrapico e veneziano. Veronese il tema mitologico di Venere e Marte lo celebrerà tante volte, ma in questo caso ancora una volta in modo straordinario. Le perle di lei e la pettinatura sono realizzate con piccoli colpetti leggeri di biacca, la stessa che ritroviamo nella pittura liquida che definisce le tende.
Una passione per il segno che diventerà una cifra regolare della pittura veneta e che probabilmente è il vero contrappunto alla passione veneta per il colore. Perché per loro in realtà non è tanto il disegno che conta, quanto l’atmosfera, e l’atmosfera nasce dalla materia-colore. Mentre i fiorentini, da neoplatonici quali sono, ritengono che tutto derivi dall’idea, i veneti pensano che tutto dipenda da una matrice comune forse più materiale. E con un piccolo e nervosissimo tocco di pennello la materia la inventano, come in questa garza bianca, che sempre secondo i dettami scopre un seno di Europa.

Veronese, Venere e Marte con Cupido, intero, 1575 ca, olio su tela, cm 47x47, Torino, Galleria Sabauda
La mitologia e l’antichità forniscono gli esempi, come nella splendida Lucrezia. In Giuditta e Oloferne tutto è sensuale, anche la faccia da contadina della protagonista. La storia complessivamente si riassume alla perfezione nel bellissimo trittico: Atteone che osserva Diana e le ninfe al bagno, Atalanta riceve la testa del cinghiale, Giove con Venere del Museum of Fine Arts di Boston. Ultimo punto evolutivo della Tempesta di Giorgione, la terraferma, il Veneto, è ormai un’arcadia erotica, dove la vita si svolge secondo i migliori parametri del Rinascimento diventato manierista, passando dalla tavola alla passeggiata intellettuale, e a quell’altra sublime questione… Però sempre sotto il segno della materia e del colore.

Veronese, Venere e Marte con Cupido, particolare, 1575 ca, olio su tela, cm 47x47, Torino, Galleria Sabauda

Veronese, Il ratto di Europa, 1575-1580, olio su tela, cm 240x307, Venezia, Palazzo Ducale

Veronese, Atalanta e Meleagro, 1562-1565, olio su tela, cm 26x101, Boston, Museum of Fine Arts

Veronese, Atteone e Diana con le ninfe, 1562-1565, olio su tela, cm 25,7x101, Boston, Museum of Fine Arts

Veronese, Venere e Giove, 1562-1565, olio su tela, cm 27x101, Boston, Museum of Fine Arts
Con Veronese il lusso veneziano si trasferisce in campagna, dove, nelle ville palladiane, troverà l’opportunità dell’esaltazione massima, ed emuli infiniti del suo gusto e del suo fare.

Veronese, Giuditta e Oloferne, 1580 ca, olio su tela, cm 195x176, Genova, Palazzo Rosso

Veronese, Lucrezia romana, 1585, olio su tela, cm 109x90,2, Vienna, Kunsthistorisches Museum