Un notabile comunista
Il 22 dicembre 1994 il governo è costretto a dimettersi. Non è durato nemmeno un anno. Il nuovo primo ministro è Lamberto Dini, già ministro del Tesoro, indicato da Berlusconi e scelto da Scalfaro. Un nuovo ruolo istituzionale in sede parlamentare è richiesto a Napolitano: la presidenza della commissione speciale per la riforma del sistema radiotelevisivo. Il monopolio imperfetto, chiamato duopolio, fra la televisione pubblica e quella privata, era diventato quasi perfetto con la vittoria elettorale di Forza Italia, che aveva consentito a Berlusconi di esercitare un’egemonia politica sulla Rai e di sottomettere il servizio pubblico alle esigenze commerciali delle reti Fininvest. «Rainvest» è il mostruoso neologismo coniato dalla stampa per descrivere il nuovo paradosso italiano, generato dalla mancanza di una legge sul conflitto di interessi.
Ora, con Berlusconi temporaneamente all’opposizione, la commissione di Napolitano viene investita di un compito storico: liberalizzare il mercato della televisione in Italia, da una parte sottraendo la Rai al controllo dei partiti e dall’altra creando un sistema privato plurale e quindi competitivo. Il risultato sarà inversamente proporzionale alle aspettative: un insuccesso. «La commissione […] finì per insabbiarsi nonostante un gran dispendio di energia e di pazienza da parte mia» confessa con amarezza Napolitano nella sua autobiografia. Poche righe in cui non trova spazio il dispetto per la beffa subita. Il suo nome, infatti, era comparso fra quelli dei politici «vicini» alla Fininvest durante il processo celebrato dal Tribunale di Napoli contro Maurizio Japicca, il manager che curava con la consueta spregiudicatezza gli affari televisivi di Berlusconi in Campania. La coincidenza con il processo a Gianni Cervetti aveva contribuito a riaprire le ferite aperte non ancora rimarginate della Tangentopoli milanese. Senza gran costrutto, però. Perché ormai Napolitano non era più un obiettivo sensibile per attaccare il Pds, dopo la dissoluzione della corrente migliorista e la gestione centralista della segreteria D’Alema. Non che il suo ruolo fosse sbiadito. Al contrario, invece, aveva acquisito un nuovo e più autorevole status. Fuori dalle dinamiche del partito, spinto dal cursus istituzionale, Napolitano si era messo a disposizione della politica assumendo un ruolo senza precedenti nelle carriere dei comunisti: era diventato un notabile.
«Notabile» è un termine aulico dell’età democristiana. Di origine dantesca, usato ancora da Ugo Foscolo, è riscoperto nel secondo Novecento da Alcide De Gasperi, che lo adotta nel famoso discorso del 1954 al San Carlo di Napoli: «Gli uomini più ragguardevoli per la loro preparazione, per il loro ufficio o per la loro posizione sociale: i cosiddetti notabili». Per il Pds di D’Alema, che ambisce a realizzare una grande riforma costituzionale del paese, un notabile comunista con il profilo di Napolitano diventa una risorsa di gran pregio politico, la variante perfetta per sciogliere in poche mosse i nodi più ostinati sulla scacchiera della politica. A perfezionare la sua immagine di notabile super partes ci pensa il destino con un colpo beffardo. Nel 1996 i Progressisti non ci sono più. Al loro posto c’è l’Ulivo, l’alleanza contro Berlusconi centrata sul Pds con tutti i partiti della sinistra sotto la guida di un cattolico di centro, Romano Prodi, che vincerà le elezioni del 21 aprile. Mentre assiste all’afflusso dei dati dalla provincia di Napoli dove figura come capolista, Napolitano scopre di non essere stato eletto. Dopo aver partecipato alla vita parlamentare per dieci legislature non sarà più deputato. Però Prodi e Veltroni, nel formare il nuovo governo, scoprono in Napolitano il candidato giusto per occupare la delicata poltrona di ministro dell’Interno. È un altro modo per vincere perdendo, anche se lui avrebbe preferito gli Affari esteri, destinati a Lamberto Dini, già ministro di Berlusconi.