Di osservanza amendoliana
L’industria della memoria ha fatto degli anni Sessanta un mito culturale rassicurante, ricco di opportunità intellettuali ma anche materiali, da Kennedy al Sessantotto, dalla Dolce vita di Fellini agli Apocalittici e integrati di Eco, dal Papa Buono a Mina. Così si tende a dimenticare che cominciarono con i morti di Reggio Emilia durante il governo di Fernando Tambroni e finirono con la strage di piazza Fontana, a Milano, svelando l’esistenza di una rete di poteri paralleli (dal colpo di Stato previsto dal piano Solo alle schedature illegali scoperte dallo scandalo Sifar) radicata nelle strutture del paese.
Alla fine di luglio del 1959, insospettito da un compromettente telegramma cifrato finito per sbaglio sulla sua scrivania, Carmelo Marzano, questore di Roma, scopre la rete occulta della Divisione affari riservati che, all’insaputa dei servizi segreti italiani, lavora per Robert Driscoll, vice della Cia in Italia. Dietro Driscoll c’è Tambroni, ministro dell’Interno di Antonio Segni, che si prepara a diventare primo ministro, a colpi di dossier segreti, in concorrenza con il Sifar del generale Giovanni De Lorenzo, che ha già cominciato la schedatura di massa della classe politica italiana.
Tenendo conto di queste coordinate, si può leggere meglio il rapporto preparato proprio dalla Questura di Roma sul comitato centrale in cui Togliatti, fra il 2 e il 5 marzo 1960, decide di cambiare i connotati del potere dentro il partito su cui esercita un incontrastato dominio ideale. Carmelo Marzano ci ha lasciato un’analisi che non solo regge il confronto con la cronaca del tempo, ma anche con la storia riscritta oggi: «Salta subito agli occhi l’ascesa di Enrico Berlinguer alla presidenza della più importante commissione di lavoro, quella di organizzazione, ma tale fatto non ha sorpreso chi ha seguito da vicino l’attività dei massimi organi dirigenti del partito. Non era, infatti, un mistero che il giovane “pupillo” di Togliatti fosse destinato a “grandi cose”». Il questore fiuta l’aria: si parla di sostituire i vecchi mandarini come Amendola e Ingrao con la nuova leva togliattiana affermatasi politicamente negli anni in cui il Pci è stato sospinto all’opposizione, seppure con un ruolo egemonico. Fra gli uomini nuovi debuttano in segreteria anche Luciano Barca e Anelito Barontini, fedelissimi del segretario. Le voci di dentro raccontano un conflitto intestino insanabile, da cui lo sconfitto Amendola potrà uscire solo abbandonando il partito con fragorose dimissioni. Marzano considera l’ipotesi come altamente improbabile, e con acutezza indica nella rimozione di Edoardo D’Onofrio il senso più segreto della nuova svolta, perché – nell’ottica della nuova «politica del sorriso» avviata da Togliatti dopo la crisi del 1956 – non sarebbe più opportuno tenere uno stalinista di quel calibro in un ruolo di primo piano.93
In quei mesi centrali del 1960, fra i tragici bagliori degli scontri di Genova e dei morti di Reggio Emilia,94 fra l’ascesa e la caduta del governo Tambroni, il cursus politico di Napolitano si gioca tutto nell’ambito dell’osservanza amendoliana. Fra giugno e luglio lascia infatti la commissione meridionale per occuparsi del Lavoro di massa, proprio nell’ambito delle nuove competenze affidate ad Amendola in direzione. Ha potuto ottenere che il fidato Cacciapuoti sia destinato ad affiancare Berlinguer con il ruolo di viceresponsabile dell’Organizzazione. Secondo la vulgata interna, tramandata da Luciano Barca, il «Caccia» non è solo l’occhio di Amendola sul partito ma anche il suo rovescio: «È il custode di tutti i segreti del Pci […], dato che a Napoli nel ’44 è stato membro del primo “ufficio quadri”». In funzione di questa esperienza, sarebbe stato chiamato a sovrintendere alla distruzione dei dossier sui dirigenti del partito raccolti e archiviati da Seniga per Secchia. Nessuno dubita che lo schedario sia stato distrutto, non senza avergli dato prima «una buona sbirciata».
Così si spiega perché Cacciapuoti affianchi Berlinguer tutte le volte che in segreteria si devono fare valutazioni personali. A domanda risponde, ma senza parlare, dando una valutazione mimica sull’affidabilità di ognuno, per evitare di infrangere la nuova regola non scritta, imposta da Luigi Longo, il nuovo segretario, per cui non si fanno pettegolezzi privati. Spiega Barca: «E allora è tutto un movimento di bocca che si storce, di naso che si arriccia, di sopracciglia che salgono e scendono quando insistiamo per capire a che cosa si riferisce il suo giudizio negativo. Quando non investe la politica si tratta in genere di corna».95
Che la situazione di Amendola sia non poco compromessa lo dice un episodio abbastanza marginale ma emblematico: in un rapporto dettagliato e prolisso, anzi confuso, della Questura di Napoli, datato 17 marzo 1960, troviamo Napolitano impegnato con grande trasporto, quasi una rissa, a difendere Amendola, inopinatamente escluso dal direttivo provinciale napoletano: un affronto perpetrato dal segretario della federazione Abdon Alinovi, che applica anche a lui le nuove regole sull’incompatibilità delle cariche.96 Un «calcio dell’asino», come nella favola di Fedro, visto che anche Alinovi sarebbe amendoliano. Come tutti a Napoli. O quasi: in quella stessa, agitatissima riunione si deciderà di trasferire Lapiccirella a Roma. Non è impossibile che proprio in quei giorni si sia fatta strada a Roma l’idea di restituire Napolitano a Napoli. Forse non fu una decisione formale e nemmeno un’ipotesi esplicita, ma in ogni caso qualcosa di più di un pensiero recondito. Che deve essersi tradotto in una scelta politica dopo i tormentati riflessi e i travagli politici provocati in Italia dal XXII congresso del Pcus.