Il comunista liberale
Le ceneri di Gramsci
«Saremo noi comunisti a salvare l’Italia»: le parole con cui nel 1928 Antonio Gramsci si era difeso di fronte al tribunale speciale del fascismo, campite su uno striscione nell’aula magna del rettorato della Sapienza di Roma, fanno da stemma al V congresso del Pci. Sebbene il numero cardinale non lasci dubbi sulla continuità ideologica con il passato, è un «partito nuovo» che il 29 dicembre 1945 consacra la sua nascita con un congresso di fondazione, il primo per il Pci.
Nuovo, anzi nuovissimo, pure nel nome: il passaggio da Pcd’I a Pci,30 la sostituzione del genitivo «d’Italia» con l’aggettivo «italiano», è il segnale della «svolta», per dare significato pieno a quell’identità nazionale che fino a qualche anno prima sarebbe stata impensabile e di sicuro impraticabile se, nel giugno del 1943, non ci fosse stata la dissoluzione del Comintern, ossia la Terza internazionale. Cozzava con l’ortodossia dominante dell’internazionalismo stalinista, che sospettava Gramsci di simpatie trotskiste già dal 1926, anche l’uso politico dei manoscritti originali dei suoi Quaderni dal carcere, esibiti come una reliquia («le ceneri di Gramsci») in apposite teche di cristallo nei corridoi dell’università, dove i delegati del congresso possono vederli per la prima volta.31
Ci sono passaggi della storia che, con il senno di poi, svelano in trasparenza il senso cinico con cui il Pci riuscì a conquistare quella legittimità democratica che lo avrebbe messo al riparo sia dalla reazione sia dalla rivoluzione. L’idea di «partito nazionale» – attribuita da Togliatti a Gramsci, «il più profondo pensatore che abbia espresso il movimento operaio italiano» – figura come la pietra miliare di una strada nuova ancora tutta da costruire.32
La mano d’opera politica per realizzare l’impresa non manca: gli iscritti al Pci, che nel 1944 erano 401.960, alla fine del 1945 sono diventati 1.770.986. Il successo del partito di massa costruito sulla pedagogia della «svolta» verso la democrazia mette Togliatti al di sopra di dubbi politici e ubbie ideologiche, a Roma come a Mosca. La «nazionalizzazione» delle masse comuniste sarà possibile solo attraverso un processo graduale e ineluttabile di educazione alla legalità politica, un concetto del tutto estraneo alla storia antica dei rivoluzionari leninisti e anche a quella recente dei combattenti partigiani nati nell’illegalità antifascista.
L’inevitabile «resa dei conti» del dopoguerra contro gli ex uomini del regime non può essere giustificata, soprattutto se si propone di trasformare la guerra di liberazione in una rivoluzione di classe.
Per dare tempo a Luigi Longo, il capo carismatico della Resistenza comunista, di «convertire» le frange estremiste del «partito dei partigiani», il gruppo dirigente del Pci ha dovuto far slittare a fine anno il V congresso.