Il custode dell’ortodossia
«La miglior prova della libertà che c’è nel partito è che Antonio Giolitti abbia potuto esprimere il suo dissenso»: inatteso dalla platea dei congressisti, ma perfettamente inserito nella strategia del gruppo dirigente, ecco emergere Giorgio Napolitano. E fin dalle prime parole è chiaro a tutti che il giovane segretario di federazione non parla come segretario di Caserta, ma che a lui, in quanto discepolo di Amendola, è stato affidato il delicato compito di indicare il perimetro dell’ortodossia togliattiana.61
Il clima umano si è fatto gelido, l’atmosfera intellettuale rovente. Il «delegato di Cuneo» Antonio Giolitti ha parlato nel gruppo dei primi dieci relatori, subito dopo Enrico Berlinguer, già segretario nazionale della Fgci, seguito dallo sguardo puntuto e miope di Togliatti, seduto al tavolo della presidenza insieme a Giorgio Amendola con il suo faccione sfrontato sotto la tribuna degli oratori, come tramanda una rara foto dell’Istituto Luce. E si capisce che il passaggio si è fatto stretto. Tutti cercano di capire se e quando sia stata superata da destra la boa del punto di non ritorno. Si sa che Togliatti non è contento per niente di spingere fuori dal partito il «delegato di Cuneo», simbolo della continuità nazionale dell’italocomunismo, nipote del grande Giolitti che si è intestato un’epoca della storia d’Italia, la prima stagione riformista, l’Età giolittiana appunto. Primum vincere: la retorica del potere comunista non può prevedere deroghe su quel punto decisivo e perciò viene applicata nei minimi dettagli. E tutti aspettano di capire quale sarà «il compagno» a cui sarà affidato il compito di rispondere a Giolitti, come vuole la regola inflessibile del centralismo democratico.62
Luciano Barca, allora giornalista de «l’Unità» di Torino, anche lui della nuova leva, destinato ad arrivare alla segreteria già nel 1960, ha lasciato nelle sue memorie una puntuale cronaca di quel momento: «Si fanno parlare alla tribuna i rituali tre compagni che nessuno segue e poi sale alla tribuna Giorgio Napolitano. Bastano le prime parole del suo intervento […] per capire che il designato del “centro” è lui».63 La conferma viene da una voce del tutto diversa, quella del questore di Roma Arturo Musco, che ha cominciato la sua carriera diffamando Gramsci per l’Ovra, la polizia segreta fascista, competente e ben preparato a trovare le parole politicamente più significative per non sfigurare sulla scrivania del ministro Tambroni: «Giorgio Napolitano di Caserta ha polemizzato con Giolitti, cercando di dimostrargli la giustezza della linea politica del partito, anche per quanto riguarda la questione ungherese».64 Il compito viene svolto a puntino. Serviva infatti qualcuno capace di smascherare senza indugi, di fronte a tutto il congresso, il dispositivo eretico e la «doppiezza» di chi non vuole riconoscere che l’intervento sovietico «abbia contribuito in misura decisiva, non già a difendere solo gli interessi militari e strategici dell’Urss, ma a salvare la pace nel mondo».
Con un crescendo di retorica filosovietica, in palese contraddizione con la sua linea politica, toccherà poi ad Amendola lanciare l’anatema del partito contro ogni eresia liberal alla destra del Pci: una prova riflessa che era stato il «grande Giorgio» a scegliere «Giorgio il piccolo». Luciano Barca chiosa con perfidia: «Del resto non è nuovo al compito. Lo ha già assolto a Napoli contro Lapiccirella».