«Gettate la maschera, siete dei troschisti»
Gli storici hanno raccontato gli ultimi due anni di guerra in Italia spostando il punto di osservazione verso il Nord man mano che le truppe alleate risalivano la penisola incalzando la Wehrmacht. Ciò li ha portati a trascurare il fatto che al Sud fosse già scoppiato il dopoguerra.9
Nella Napoli maleodorante e ulcerata di Curzio Malaparte e Norman Lewis maturano le vicende che spingeranno verso la militanza comunista il giovane Napolitano, figlio della borghesia liberale, nato e cresciuto nel cuore della città altolocata, che ha avuto la possibilità di finire il liceo a Padova e si è iscritto a giurisprudenza.
I Napolitano sono soliti trascorrere l’estate a Capri dove, nel 1944, decidono di svernare per temperare le durezze della vita quotidiana.10 Dopo l’armistizio dell’8 settembre con gli angloamericani, a Capri i soldati italiani non sbandano. Anzi, guidati dal colonnello Marsiglia, convincono i tedeschi a ritirarsi. Capri è libera. I Napolitano pure. Liberata anche Napoli, Giorgio con il padre Giovanni fa la spola tra la città e villa Renato, la casa con giardino nel centro storico dell’isola dove la madre Carolina si è stabilita con i figli più piccoli, Riccardo e Maria Giacinta. Il fratello più grande, Massimo, è rimasto al Nord, e rientrerà a casa solo dopo la fine della guerra.
Segnati nel corpo e nello spirito dalla prigionia fascista, dal confino, dalla clandestinità o dall’esilio, alcuni professionisti della rivoluzione hanno riaperto, subito dopo la liberazione di Napoli, ben due sedi del Pci. In via Medina c’è la Delegazione comunista per l’Italia meridionale, dove comandano già due uomini di Togliatti, Eugenio Reale e soprattutto Velio Spano, che dirige anche l’edizione semiclandestina de «l’Unità». In via Tommasi 62 c’è invece la federazione del Pci – detta di San Potito per la vicinanza dell’omonimo convento – che funziona come un porto di mare, chiassoso e colorato centro spontaneo di raccolta delle più disparate tensioni non solo politiche ma soprattutto esistenziali e quindi culturali che battono l’aria del tempo nuovo.
Al governo di San Potito ci sono Maurizio Valenzi, che proprio Spano ha richiamato da Tunisi, Salvatore Cacciapuoti, operaio tornitore reduce dalla prigione di Sulmona, e Clemente Maglietta, appena rientrato dal confino fascista a Summonte, in Irpinia. Avvocato della buona borghesia napoletana, Maglietta è un comunista molto speciale: porta ancora il basco della Spagna repubblicana e zoppica vistosamente, ricordo della grave ferita riportata a Teruel durante la ritirata delle Brigate internazionali. Di carattere irruente al limite della brutalità, agita il suo bastone per imporre le sue idee. Ne sanno qualcosa i giovani che affollano le «conferenze del giovedì», dove spiega la Rivoluzione francese insieme a quella russa, insegna a leggere il Che fare? di Lenin ma anche il Marx di Labriola.
Non si tratta di banale propaganda.11 L’invenzione di Maglietta illumina inediti orizzonti e sconosciuti giacimenti intellettuali per sperimentare nuovi metodi, senza trascurare la qualità, per un veloce ricambio dei quadri del Partito comunista. Senza derogare, naturalmente, ai principi fondamentali del comunismo internazionale dominato dall’egemonia sovietica. Perché «quelli di San Potito», ciascuno con le proprie varianti biografiche, sono tutti stalinisti autentici di provata fede. Ma i giovani intellettuali ancora non lo sanno.
Perciò, quando Maglietta convoca l’intera redazione di «Latitudine» a San Potito, tutti si sentono gratificati per l’imprevista attenzione, quasi si trattasse di una laurea sul campo, perché nessuno si aspetta un processo ideologico. E invece dal tavolo del tribunale, forse per bocca di Maglietta, o piuttosto di Valenzi, parte come una condanna il principale capo di imputazione: «Gettate la maschera, siete dei troschisti!».
Napolitano non c’era, ma, come racconta per la prima volta trentacinque anni dopo ricordando l’episodio con Nello Ajello, vicedirettore de «l’Espresso» impegnato a riscrivere la storia dei rapporti fra intellettuali e Pci, quel «duro richiamo» fu «un trauma» anche per lui: l’ignaro diciottenne scopriva che la sua «rivista molto avanzata» era stata considerata un bel «pasticcio decadente», colpevolmente avulsa dalla «drammatica realtà» e, peggio ancora, sorda ai «concreti imperativi del presente». Collazionando e confrontando le memorie di chi c’era, a cominciare dai due antagonisti principali, Valenzi in funzione di inquisitore e Caprara nel ruolo di direttore eretico, si trattò di un processo politico con tutti i crismi. Altro che letteratura decadente! Fu Maglietta a pronunciare il capo d’accusa: ritmando il tempo del dramma con i colpi del suo bastone, urlando con una rabbia intensamente vissuta, puntò il dito sulle citazioni di André Malraux. Poco importava a Maglietta che si trattasse di uno scrittore antinazista, combattente nelle file della resistenza francese contro i tedeschi e il governo collaborazionista di Vichy. Né potevano mondarlo i suoi libri, non La Condition humaine e tanto meno L’Espoir. Per Maglietta, Malraux era stato il grande traditore che durante la guerra di Spagna aveva venduto a Franco l’aviazione repubblicana, era stato amico di Andrés Nin, il capo degli anarchici che avevano complottato contro i comunisti, e infine, pur avendo combattuto contro il maresciallo Pétain, lo aveva fatto dalla parte sbagliata, quella del generale De Gaulle!
Con un colpo di bastone Maglietta chiude la discussione, incurante delle giustificazioni un po’ ingenue di Caprara, che cita come testimone a discolpa Tristan Tzara, ma anche Breton, Picasso e altri surrealisti, tutti comunisti, a cui si dà grande spazio proprio nelle pagine di «Latitudine». Il processo subito da quei giovani intellettuali destinati a diventare importanti comunisti (Caprara addirittura segretario di Togliatti) è ben sintetizzato da una battuta di Curzio Malaparte, informatissimo: «So che avete provato i rigori del Sant’Uffizio comunista. Maglietta e i suoi sono i peggiori».12