La morale comunista dell’errore
Con sprezzatura hegeliana, a dispetto della critica di Croce e del «principio di non contraddizione», dobbiamo alla prepo-tenza storicista di Giorgio Amendola l’elaborazione concettuale di una teoria dell’«errore provvidenziale».72 In barba al buonsenso filosofico e storiografico, l’accento manzoniano serve a spiegare la scissione di Livorno del 1921, la nazionalizzazione democratica delle masse, che senza il Pci sarebbe rimasta incompiuta, la Resistenza e il blocco sovietico, da cui il comunismo italiano ha tratto la forza necessaria per difendere appunto la democrazia di tutti e i suoi metodi. Persino i «crimini» di Stalin appaiono provvidenziali, se valutati con il disincanto dello sguardo storicista che ne misura oggettivamente i benefici postumi. Un male teorico può diventare un bene reale se produce effetti virtuosi nella storia. Eppure Amendola, che vedeva in Stalin a Stalingrado l’equivalente storico di Leonida alle Termopili, ha sempre evitato di impantanarsi nel groviglio ungherese, per non trovarsi costretto a giudicare l’uso politico che fece Togliatti dell’invasione sovietica per uscire vittorioso dall’VIII congresso.
A mezzo secolo di distanza, l’Ungheria incarna invece nell’autonarrazione di Napolitano l’immagine del senso di colpa: un peccato laico, una strada sbagliata dalla quale non si può più tornare indietro, un complesso di Edipo o anche un peccato originale per il quale non è prevista redenzione alcuna. Perché fu «un trauma», parola che evoca ferita fisica e disagio psichico, giacché fu «sanguinoso l’intervento militare sovietico per soffocare un moto popolare bollato come controrivoluzionario», e il fatto di averlo giustificato sarà per tutta la vita motivo di profondo disagio, di incontenibile «tormento autocritico».
Non c’è nessuna supponenza storicista. C’è, invece, una contiguità geometrica di parole e idee inconciliabili, di emozioni e suggestioni opposte, di assiomi e congetture incompatibili, che funziona come un sistema di vasi comunicanti in cui tutto trova la linea di equilibrio nella sua plausibilità storica. Per slittamenti impercettibili si passa dalla «denuncia delle aberrazioni e dei crimini di Stalin» all’«incredulo rifiuto» del «culto e del mito» delle «grandi masse», accompagnato però nello stesso tempo da «un senso di liberazione per quel bagno di verità e per quello straordinario impulso al rinnovamento»; si sottolineano i «limiti delle visioni di Krusciov», ma anche «le contraddizioni del Pci».
La tesi al fondo è la stessa di Amendola, che è presentato – in antitesi alle «reticenze di Togliatti» – come portatore sano di un sincero sentimento «democratico». E tuttavia «non esistevano allora le condizioni per una scelta diversa da parte del partito». La teoria dell’«occasione mancata» dal Pci in quell’autunno del 1956 viene stemperata dalla constatazione che, «nell’ottica distorta della “scelta di campo”» e dell’irrinunciabile «necessità di stare “dalla stessa parte della barricata”», si erano trascurate «le grandi questioni di principio», ossia «libertà e democrazia». Napolitano cita Antonio Gramsci e subito dopo Norberto Bobbio, ricordando però che fu Togliatti ad ammettere per primo, proprio al congresso del Pci, «che non fosse giusto etichettare come “borghesi” le libertà conquistate attraverso grandi lotte democratiche». E nel contempo segnala che «molti anni sarebbero dovuti passare perché ci identificassimo pienamente con l’eredità più alta del liberalismo e della democrazia, anziché considerare sacrificabili, dove si pretendesse di edificare il socialismo, o meramente formali, le regole, le garanzie, le procedure della democrazia politica».
Se Napolitano ricorda, senza nascondere un po’ di emozione, la «passione» che animò i firmatari della «lettera dei 101», il famoso manifesto degli intellettuali dissidenti con cui la cultura comunista si convinse di poter incrinare il muro politico dell’obbedienza togliattiana, ecco in dissolvenza palesarsi «l’omaggio» a Paolo Spriano, «pur firmatario», che però non si dimise, e «all’orgoglio e all’accanimento con cui Togliatti si era appassionatamente impegnato nella dura difesa delle sue posizioni in uno scontro politico interno senza precedenti».
Se ogni testo è un indizio sul mistero dell’autore, la forma delle parole di Napolitano, tanto piano e semplice in superficie ma probabilmente frutto di un sotterraneo lavorio interiore, sembra corrispondere al rigore delle sue scelte politiche. Non si possono leggere le autobiografie come romanzi: seppure fosse stato metaforicamente fratricida, il conflitto con Antonio Giolitti non ebbe niente né di biblico né di tragico: «Aveva pronunciato il solo discorso di netto e sostanziale dissenso dalla tribuna dell’VIII congresso, e tra i primi interventi polemici nei suoi confronti c’era stato il mio».73
Nella sua autobiografia, Giolitti non ricorda Napolitano. Misura l’intensità politica e storica del proprio intervento al congresso comunista sulla risposta di Togliatti che, pur senza fare il suo nome, dedica gran parte del discorso di chiusura alle sue critiche.74
Nella narrazione autobiografica di Napolitano, invece, Giolitti figura tutte le volte che si tratti di verificare la strada compiuta sul percorso che deve condurre il protagonista «dal Pci al socialismo europeo». Perché, «nel dare pubblicamente atto ad Antonio Giolitti di avere avuto ragione», Napolitano si attribuisce una funzione etica e un ruolo storico, sia per la consapevolezza di aver commesso l’errore per superiori ragioni ideali, sia per averlo ammesso per ragioni morali, senza bisogno di rinunciare, e tanto meno di rinnegare, una sola riga di tutta la sua biografia politica.75