Tangenti a Milano
Sono giorni convulsi, politicamente infidi e storicamente incerti: Tangentopoli svela subito una topografia della corruzione insospettabile, segreta e protetta, abitata da una nomenklatura della politica e dell’economia da anni convinta di poter vivere e prosperare al di sopra di ogni sospetto. Grande è infatti la sorpresa quando, seguendo il filo delle varie corruzioni, i magistrati arrestano i primi politici in senso proprio: sono ex comunisti, ma soprattutto miglioristi. La corrente di Napolitano, sotto la guida di Gianni Cervetti, è sempre stata egemone nel Pci milanese. Lo stesso sindaco in carica, Gianfranco Borghini, insediato a gennaio per volere di Craxi, è un autorevole transfuga del gruppo migliorista.
Quando Mario Chiesa, il «mariuolo», comincia a parlare con i magistrati della Procura di Milano, soprattutto con Antonio Di Pietro, un ex poliziotto particolarmente esperto nel trasformare indizi in confessioni e poi le nuove confessioni in altri indizi, le prime figure che emergono dalla nebbia della corruzione non sono certo di alto rango. Personaggi oscuri, laterali al potere, forse di secondo piano ma cruciali per far funzionare l’economia di Tangentopoli. Come il noto architetto Epifanio Li Calzi, già sindaco di Cesano Boscone e già assessore ai Lavori pubblici di Milano, che si costituisce volontariamente, sospettato di aver gestito le tangenti generate dai lavori per il blocco chirurgico dell’ospedale Sacco. Come Sergio Soave, un sindacalista vice della Lega delle cooperative della Lombardia, accusato di aver movimentato 20 miliardi di tangenti della metropolitana milanese. Come Luigi Mijno Carnevale che, dopo una breve latitanza, si consegna ai magistrati. Comunista e massone, è un oscuro funzionario del Pci che fa parte del consiglio di amministrazione della metropolitana milanese con l’incarico conclamato di raccogliere, distribuire e regolare il flusso tangentizio. Un meccanismo avviato dal 1982, quando anche il Pci migliorista accede al sistema di autofinanziamento attraverso le tangenti sui lavori pubblici, una percentuale fissa del 18,5 per cento da dividere con Psi e Dc. Dal romanzo delle confessioni intrecciate, seguendo il percorso dei soldi neri, i magistrati di Mani pulite arrivano in un battibaleno al vertice politico del sistema.
Gianni Cervetti, deputato del Pds e ministro del cosiddetto governo ombra di Occhetto, figura fra i cinque deputati investiti dalla prima «domanda di autorizzazione a procedere» firmata dal capo della Procura di Milano Francesco Saverio Borrelli, ma ci sono anche i sostituti Antonio Di Pietro e Gherardo Colombo oltre al procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio. Così il 2 giugno lo scandalo dilaga in parlamento, mentre i mezzi d’informazione si fanno portavoce di un sentimento di indignato sconcerto destinato a sedimentare i primi veleni dell’antipolitica nell’opinione pubblica.
C’è una sottile perfidia del destino nella coincidenza che impone a Giorgio Napolitano, come presidente della Camera, di mandare sotto processo per corruzione politica e ricettazione comune un ex protagonista di primo piano del riformismo comunista diventato il perno organizzativo dell’area migliorista. Cervetti, che si era laureato in economia a Mosca, aveva svolto un compito di massima delicatezza fin dal 1975, quando era stato cooptato nella segreteria e incaricato da Berlinguer di sganciare le finanze segrete del partito dall’orbita sovietica.216
Che paradosso: al momento del crollo definitivo in Russia del comunismo «cattivo», in Italia tocca a un comunista «buono», riformista e liberale, assistere quasi impotente alla fine della «Repubblica dei partiti», travolta dalla rivoluzione di Mani pulite: lo sviluppo impetuoso delle indagini, il tabù infranto dei deputati in manette, la centralità del Psi nella vulgata della corruzione politica, la strategia suicida di Craxi, la fuga dalla Dc, le ombre sul Pci che riverberano sul Pds, renderanno via via più difficile, e poi impossibile, la prospettiva di una strategia riformista, fondata sull’assioma del «socialismo europeo», che aveva fatto da architrave a tutta la storia di Napolitano. La politica, malata non solo per la storica incapacità di rinnovamento delle classi dirigenti dei partiti, ma anche per un difetto di immaginazione orientata al futuro, si scopre inadeguata a imporre la sua legittimità. Un dibattito infido si propone all’attenzione del presidente della Camera quando ancora non è trascorso l’anno del suo insediamento: «Parlamento inquisito» uguale «Parlamento delegittimato». La risposta arriva perentoria da un discorso ufficiale a metà di dicembre in Umbria, e poi da Firenze due mesi dopo, durante l’inaugurazione del Seminario di studi e ricerche parlamentari: «Non spetta a nessun singolo personaggio, né della politica né del giornalismo, dire quando il parlamento debba essere sciolto». Seppure in modo implicito, Napolitano si riferisce alle aspre denunce di Eugenio Scalfari su «la Repubblica» contro la legittimità del parlamento.217
Sono molte le tradizioni culturali radicate nella sua storia che spingono Napolitano a mettere in piedi una inedita e tutta personale strategia su cui fondare un nuovo destino politico. Per un amendoliano come lui, la via comunista alle istituzioni intrapresa da Togliatti è la naturale soluzione di fronte ai nodi aggrovigliati dalla crisi di Tangentopoli. Una scelta non solo difficile, ma forse impossibile. Che presto si tinge con i colori della tragedia. Sergio Moroni, deputato socialista che ha trovato nel suicidio, il 2 settembre 1992, la personale risposta alla brutalità di tre avvisi di garanzia, ha scritto prima di morire una lettera al presidente della Camera: «Al centro sta la crisi dei partiti (di tutti i partiti) che devono modificare sostanza e natura del loro ruolo. […] Un grande velo di ipocrisia (condivisa da tutti) ha coperto per lunghi anni i modi di vita dei partiti e i loro sistemi di finanziamento. […] Né mi pare giusto che una vicenda tanto importante e delicata si consumi quotidianamente sulla base di cronache giornalistiche e televisive, a cui è consentito di distruggere immagine e dignità personale […]. Ma quando la parola è flebile, non resta che il gesto».218
Napolitano sa dare il giusto risalto istituzionale alle parole del deputato suicida, durante la commemorazione ufficiale alla Camera, ma le sue risposte di civile circostanza non riescono a smontare la sostanza dello «schema Moroni»: le grandi forme della competizione politica, destra e sinistra, comunismo e socialdemocrazia, Dc e Pci, antitetiche nominalmente, finiscono per sbiadire di fronte alla necessità di mettere da parte ogni fine pur di impossessarsi dei mezzi. Per i miglioristi il primo anno di Tangentopoli è davvero un incubo. Nell’ottobre del 1992 Marco Fumagalli, nuovo segretario della Quercia di Milano che, d’intesa con Occhetto, è impegnato a sottrarre il Pds dalla morsa della procura, interrogato da Di Pietro indirizza le indagini verso il Cir, il Centro di iniziativa riformista diretto da Cervetti. Fuoco amico! Ma anche vendetta incrociata, soprattutto dopo l’infelice battuta del segretario Pds, secondo cui gli arrestati del Pds a Milano erano tutti suoi nemici. E infatti l’insinuazione sollecita la curiosità del sostituto procuratore, interessato a farsi spiegare da dove venga la costosa gestione della rivista «Il Moderno», organo culturale e politico della corrente migliorista. Fra i finanziatori del settimanale, direttamente controllato da Cervetti con la direzione editoriale di Lodovico Festa, che poi passerà a «Il Foglio» di Giuliano Ferrara, si notano sponsor tanto generosi quanto incongrui, fuori luogo insomma. Silvio Berlusconi per esempio, e con lui le sue migliori società: Fininvest, Mediolanum, Publitalia… C’è anche Salvatore Ligresti, dominus del mattone socialista, già arrestato il 16 luglio 1992, e poi il gruppo Torno e il gruppo Aqua, grandi appaltatori di opere pubbliche. Secondo i giudici, nonostante tutto finisca qualche anno dopo con la prescrizione, i mecenati che sostenevano «Il Moderno» non erano spinti da «una valutazione imprenditoriale», ma pensavano solo a «ingraziarsi la componente migliorista del Pci, che in sede locale aveva influenza politica e poteva tornare utile per la loro attività economica».219