Lo scontro con la Procura di Palermo
A guidare la squadra c’è proprio Napolitano, grande conoscitore dei meccanismi più profondi che regolano la fisiologia dei palazzi del potere. Poi vengono il segretario generale Donato Marra, il capo della segreteria Carlo Guelfi, il consigliere giuridico Salvatore Sechi, il consigliere diplomatico Carlo Stefanini, il consigliere culturale Louis Godart, il potente addetto militare Rolando Mosca Moschini e l’unico altro comunista del gruppo, Pasquale Cascella, già giornalista de «l’Unità», che dirige l’ufficio stampa e comunicazione. Ma il ruolo di «consigliere del principe» Napolitano lo aveva affidato a Loris D’Ambrosio, magistrato e professore, che aveva insegnato alla Luiss, aveva diretto l’Ufficio studi per gli affari penali ed era stato collaboratore di Giovanni Falcone al ministero di Grazia e giustizia fino al giorno della strage di Capaci. Per carattere, ma anche per i doveri legati al compito di consigliere giuridico, D’Ambrosio lavorava in rigorosa e laboriosa riservatezza. Quando, suo malgrado, si era trovato al centro della scena, nel ruolo di capro espiatorio della più furibonda delle disfide mai combattuta fra poteri dello Stato, ne era morto. Un infarto, il 26 luglio 2012, a sessantacinque anni. Appena una settimana prima aveva mandato una lettera di dimissioni, respinta, dopo la pubblicazione delle sue telefonate con Nicola Mancino, ex ministro dell’Interno, intercettate durante le indagini sulle presunte trattative fra Stato e mafia. «Ho parlato con il presidente» esordisce D’Ambrosio con Mancino, raccontando la fitta trama di interventi che il Quirinale ha predisposto per evitargli di dover rispondere alle domande dei giudici di Palermo. Viene coinvolto direttamente il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso per capire se non sia possibile sottrarre (il termine giudiziario sarebbe «avocare») l’indagine alla Procura di Palermo. Preoccupa il Quirinale il coinvolgimento diretto dei massimi vertici dello Stato, come raccontano i documenti di tutte le inchieste che si sono succedute sulla «trattativa»: oltre a Mancino, anche il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, il primo ministro Carlo Azeglio Ciampi, e prima di lui Giuliano Amato, il guardasigilli Giovanni Conso… Su tutto aleggia, secondo la procura, l’indicibile sospetto sulla morte di Paolo Borsellino fermamente contrario a coprire la trattativa.
L’affare diventa subito «di Stato». Nel numero di «Panorama» in edicola il 21 giugno, il giornalista Giovanni Fasanella, storico dei retroscena della Repubblica italiana, lascia cadere alla fine di una breve ricostruzione dei fatti una devastante indiscrezione: la Procura di Palermo avrebbe intercettato non solo D’Ambrosio, ma anche lo stesso Napolitano. Non c’è niente di penalmente rilevante, ma le telefonate, che sarebbero addirittura quattro, dovranno essere distrutte. Prima però la Procura di Palermo ritiene di doverle far conoscere alle parti in causa: un modo sicuro e collaudato per farle diventare di dominio pubblico. La maggioranza dei commentatori si schiera a difesa di Napolitano, soprattutto Eugenio Scalfari su «la Repubblica». Ma «il Fatto Quotidiano» di Antonio Padellaro e Marco Travaglio incalza il Colle giorno dopo giorno, senza sbagliare un colpo.
La risposta contro la procura si rivela di grande efficacia fin dal momento in cui viene formulata: il 16 luglio il Quirinale si appella alla Corte costituzionale per sollevare un «conflitto di attribuzione». L’effetto è voluto: se la Corte darà ragione a Napolitano, i magistrati di Palermo saranno costretti a distruggere i nastri delle intercettazioni, senza farli vedere a nessuno. Infatti la sentenza è a favore del Quirinale. Del resto Napolitano non può avere torto: consulta e Quirinale sono gli organi preposti al ruolo di «custodi della Costituzione» e un conflitto fra loro non è nemmeno pensabile. Insomma: nella domanda posta da Napolitano c’è anche la risposta.
È a partire da questa tesi che Gustavo Zagrebelsky, giurista di grande prestigio e presidente emerito della consulta, critica il Quirinale dalle pagine de «la Repubblica» di venerdì 17 agosto. Sorpresa e disappunto. Nel suo editoriale della domenica Scalfari attacca il giurista elaborando uno speciale teorema del traditore inconsapevole: la ragione di Zagrebelsky è la stessa del nemico. Sull’onda della polemica interviene Travaglio su «il Fatto» smontando a sua volta il teorema scalfariano. Ma tutto ormai è destinato a finire presto. Napolitano ce l’ha fatta. Prima della sentenza definitiva che ordina la distruzione dei nastri il 4 dicembre 2012, un ultimo sussulto arriva dalla copertina di «Panorama» del 5 settembre che annuncia di rivelare almeno la sostanza delle intercettazioni. Promessa delusa: l’articolo di Giovanni Fasanella si basa su indizi e congetture. Napolitano, parlando con Mancino, si sarebbe lasciato andare a giudizi perentori su Antonio Di Pietro e i magistrati di Palermo, ma soprattutto avrebbe esternato tutto il suo disappunto contro Berlusconi, così mal visto dalle «cancellerie» di tutto il mondo, da Barack Obama ad Angela Merkel. Ce ne sarebbe a sufficienza per far gridare al complotto internazionale, proprio nei giorni in cui la macchina del Quirinale è impegnata a seguire da vicino i primi passi del governo di Mario Monti succeduto a Berlusconi in un clima di «stato d’emergenza». Si è almanaccato, fra il serio e il faceto, sulla teoria del colpo di Stato. E si è persino immaginato che Napolitano, sceso dal Colle, potesse capeggiare un governo di salute pubblica. Dicerie. Ombre. Sospetti. Il rispetto delle norme, invece, è stato puntiglioso e ineccepibile. Talvolta sorprendente: l’idea di nominare il professor Mario Monti senatore a vita, un attimo prima di affidargli il paese è stata interpretata come un gesto di grande fantasia del potere presidenziale.
Ai comunisti era sempre sfuggita la possibilità di governare, surrogata da altre forme di egemonia sociale e culturale.