L’inizio di Re Giorgio
Paradossi della storiografia: uno studioso affrettato potrebbe dedurne che, quando Napolitano si iscrisse al Pci, nel novembre del 1945, nessuno se ne accorse. In realtà si trattò di una scelta. La sua non fu un’iniziazione anonima: fin dal principio si era trovato nel posto giusto al momento giusto, con gli strumenti di cui poteva disporre un giovane borghese di vent’anni, dotato di buoni studi e ottime frequentazioni intellettuali.
A Napoli più che altrove, la «via italiana» è stata una via culturale: piaceva a Togliatti quel modo nuovo di diventare comunisti, il «culturcomunismo» che per Napolitano fu anche un modo elegante per tenersi, già da allora, lontano da Stalin, con la scusa di poter storicizzare non solo Marx ma anche Lenin. Dopo sessant’anni, intervistato al Quirinale dalla «Frankfurter Allgemeine Zeitung», aveva ricordato di essersi sentito inadeguato – anzi, impreparato – sul piano ideologico: «Entrai nel Pci senza sapere molto di marxismo». Nella sua «leggenda delle origini» quel dubbio è sempre stato presentato come un difetto. Nel lungo periodo invece si sarebbe rivelato la mossa vincente sulla scacchiera politica della sua autobiografia.
Nel passato Napolitano c’è sempre, ma non si nota, non solo per carattere ma anche per una questione di stile, come quei compagni di scuola che nelle fotografie di classe si mettono sempre dietro mimetizzandosi nel gruppo. Una corriva aneddotica, quasi dimenticata ma rivitalizzata dopo la salita al Colle, ha tramandato un’immagine deformata del giovane Napolitano. C’è il ritratto fisiognomico, «Nu guaglione fatt’a viecchio», stilato con malignità da Luigi Compagnone, allora comunista, poi scrittore di destra. C’è l’episodio del pernacchio, irridente citazione da Eduardo De Filippo, scoccato dalle labbra del pittore Paolo Ricci, il giorno in cui Napolitano nel suo studio si lasciò convincere a recitare a occhi chiusi una scelta di malinconici versi di Salvatore Di Giacomo. C’è la diceria insolente della sua discendenza da Umberto di Savoia, documentata da improbabili contiguità familiari e diffusa dalla destra monarchica e fascista come una sorta di vendetta politica, rimbalzata fino ai nostri giorni attraverso il pettegolezzo della sinistra fino a trovare la consacrazione intellettuale nella satira scritta e disegnata.
«Chiariamo una volta per tutte, intanto, il famoso gossip che lo vorrebbe figlio naturale di Umberto di Savoia. È falso: dei due, Napolitano è il padre»: è con questa battuta perfetta che il 16 maggio Michele Serra, nella sua rubrica Satira preventiva, su «l’Espresso», accoglie la notizia dell’imminente elezione di Napolitano con il titolo: Re Giorgio il temporeggiatore.
Lo stilema si ripete di testata in testata, passando dalla satira alla cronaca fino al commento, confermando la persistenza del pregiudizio. «Il suo stemma araldico dovrebbe essere un coniglio bianco in campo bianco» scrive Giuliano Ferrara su «Il Foglio», ricordando che lo conosce bene. «Napolitano era ed è un protagonista laterale […], la sua tonalità preferita è quella sobria di chi affronta con sobrietà i cambiamenti» è il ritratto di Edmondo Berselli su «la Repubblica», forse più meditato e dunque ancora più bruciante. «Sembra nato non per stupire ma per chetare costi quel che costi» scrive Massimo Caprara, ex comunista de «il Giornale», sotto un titolo – Ritratto di una natura morta – che va al di là del dileggio, ma in buona sostanza condiviso da tutta la vulgata politica, sia a destra sia a sinistra.