Aspettando Togliatti

Curzio Malaparte, nome d’arte di Kurt Erich Suckert, la cui villa a Capri era uno dei più esclusivi salotti dell’epoca, aveva ricevuto il primo numero di «Latitudine» all’inizio del 1944 direttamente dalle mani di Napolitano che, rifugiato sull’isola, era stato incaricato di stabilire un contatto con lui. La missione era stata assolta con successo. Nel suo «giornale segreto» il 27 febbraio 1944 Malaparte appunta: «Alle 11 è venuto a trovarmi Giorgio Napolitano con “Latitudine”. Un giovane molto intelligente». Napolitano ricorda che la rivista gli era piaciuta per «modernità» e anche «non provincialismo», e annota che l’intellettuale gli era parso «un comunista quasi dichiarato».13 Cinico ammaliatore di donne e uomini, il camaleontico scrittore amico di Giuseppe Bottai e intimo di Galeazzo Ciano aveva subito capito che, per far dimenticare di essere stato fascista, non c’era mossa migliore che diventare comunista. Quando incontra Napolitano il processo di trasformazione è arrivato a uno stadio avanzato. Progetta di ospitare nella sua villa una scuola di leninismo. È amico di Eugenio Reale, esponente dell’élite internazionale comunista, anima del Pci clandestino negli anni Trenta a Napoli, fuoriuscito a Parigi, galeotto nelle carceri fasciste e, dopo l’armistizio, rappresentante del Pci nel comitato di liberazione nazionale. Reale, in contatto con Togliatti, ne anticipa la linea politica dell’«unità nazionale»: tutti uniti, dai monarchici ai comunisti, per combattere il nemico nazifascista, ma anche per contrastare a sinistra i vari massimalismi comunisti che spingono verso il sogno della rivoluzione bolscevica.

I nomi di Stalin e Lenin rappresentano la grande frattura che ha diviso il comunismo internazionale. Per il comunismo ortodosso che ha scelto Stalin, Napoli figura come un territorio pieno di insidie ideologiche, luogo di memorie incompatibili con l’ortodossia vincente. Amadeo Bordiga, fondatore e primo segretario del Partito comunista d’Italia (Pcd’I) nel 1921, teorico di un marxismo rigorista poi messo in minoranza da Togliatti e Gramsci, arrestato da Mussolini ed espulso da Stalin, sopravvive al regime con il suo lavoro di ingegnere. Al momento della caduta del fascismo lo si sospetta ancora capace di sfidare l’ortodossia con il suo carisma intransigente, per dare un senso teorico all’antifascismo spontaneo di tutti quei giovani che pensavano di riuscire con l’impegno politico a far fare un passo avanti alla storia.

Di Bordiga preoccupa non tanto la posizione politica, ma la contiguità spaziale, diciamo toponomastica, con quel proletariato senza classe operaia, con quella piccola borghesia decaduta, con quel ceto medio avvilito che nei momenti di crisi si confonde con la colorita plebe che nel tempo ha dato la cifra antropologica della città. Gli antichi «lazzaroni napoletani» non sono maledettamente simili al Lumpenproletariat reazionario così ben descritto proprio nei testi sacri di Karl Marx? L’equazione presuppone l’anatema politico, che infatti è stato scagliato già nel 1938 sulle pagine di «Stato operaio» nel saggio dedicato al «demoniaco primato del Lumpenproletariat partenopeo» da Emilio Sereni, emblema della militanza stalinista. Ebreo romano capitato a Napoli per studiare agraria in vista dell’espatrio in Palestina, formatosi al comunismo internazionale insieme a Giorgio Amendola, Sereni osserva che «in tutta la storia del movimento operaio napoletano dobbiamo constatare, a ogni passo, l’influenza e il contagio di questo ambiente equivoco e corrotto». In Bordiga lo stalinista Sereni vede l’eredità dell’anarchico russo Mikhail Bakunin, che a Napoli aveva stabilito la prima «organizzazione dell’Internazionale in Italia», luogo privilegiato per l’infiltrazione poliziesca e rifugio prediletto per provocatori di ogni risma.14

Se questo è il clima di quel periodo, si può capire la reazione stalinista di Maglietta e lo sconcerto del giovane Napolitano nel sentirsi accusare di essere in combutta nientemeno che con Trotskij per colpa di un’innocente rassegna teatrale. Ma, visto da quelli di San Potito, l’affare «Latitudine» appare come un frutto spinoso, una mela stregata, attraente a prima vista ma avvelenata dentro. Perché negli stessi giorni il Pci a Napoli è infiammato da un dramma identitario che si sta trasformando in uno scontro fra fazioni, fino all’inevitabile scissione. Nella memorialistica di chi c’era, soprattutto di chi può dire di essersi trovato dalla parte giusta, quella vincente, il ricordo della «scissione di Montesanto» è raccontato come un doloroso e complicato episodio di formazione su cui sarà possibile fondare le «magnifiche sorti e progressive» del partito nuovo di Togliatti.

Nei libri di storia del Pci, alla «scissione di Montesanto» sono dedicati pochi paragrafi, epitome di tutte le turbolenze in cui si è dibattuto il partito uscito dalla clandestinità, guidato con fermezza dagli uomini che la militanza segreta di rigida osservanza stalinista ha forgiato nelle galere e nell’esilio, da Eugenio Reale a Velio Spano, dal giovane Maurizio Valenzi a Clemente Maglietta, in sintonia con le élite operaie preparate al comunismo nell’università del carcere, come Salvatore Cacciapuoti. Gli altri, i riemersi, gli intransigenti, i giovani, sono di fatto ignari delle storie drammatiche della militanza rivoluzionaria: arrivano al comunismo da anni di inedia morale, riemersi alla pratica politica per fatale attrazione ideale, pericolosamente inclini agli estremi furori, soggetti agli idealismi iperdemocratici, quasi anarchici… E perciò oggettivamente esposti alle eresie della predicazione intransigente di Bordiga o addirittura già affascinati dal mito antistalinista di Trotskij.

Il casus belli si presenta quando Reale e Picardi si candidano a rappresentare il Pci nel Cln del Sud, un ruolo a cui si sentivano invece destinati Mario Palermo, l’avvocato di tutti gli antifascisti di Napoli, e Vincenzo La Rocca, studioso di Lenin. Alla fine di ottobre, dopo un tentativo di presa del potere a San Potito, il gruppo degli intransigenti ormai dissidenti trova rifugio in un’altra sede, in via Montesanto appunto, sventolando le stesse bandiere. Stessi simboli per due linee diverse: chi è davvero il partito?15

La risposta della storia diventerà chiara solo nella tarda sera del 27 marzo 1944: sono passate le nove quando, dopo aver traversato le vie deserte per il coprifuoco e la paura dei bombardamenti della Luftwaffe, mentre nell’aria umida il Vesuvio tornato attivo da una settimana continua a sputare le sue ceneri, con due colpi alla porta di San Potito bussa Palmiro Togliatti. Chiede di Eugenio Reale. Preoccupato per l’ora inconsueta, gli risponde sgarbato il segretario Cacciapuoti: è già troppo tardi, meglio ripassare domani! Non l’ha riconosciuto. L’immagine di Togliatti, «più vecchio e stanco dei suoi cinquantuno anni», gli occhi cerchiati da «un’antiquata montatura di metallo», con in mano «una pipa di radica» e indosso un maglione «girocollo grigio da marinaio», appena sceso dalla motonave Ascania al molo Beverello di ritorno da un lungo viaggio a Mosca, con tappe al Cairo e ad Algeri, trascende il suo valore aneddotico per diventare molto presto la chiave narrativa della leggenda delle origini del «partito nuovo».16

L'ultimo comunista: La presa del potere di Giorgio Napolitano
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