Succede a Salerno, ancora una svolta
Il «fattore K» ha prodotto l’effetto previsto. Non basta al Pci, per ritrovare la perduta purezza ideologica, la condanna dell’invasione sovietica dell’Afghanistan su «l’Unità» del 29 dicembre 1979. Il governo di Francesco Cossiga, nato in agosto e figlio della nuova politica dei socialisti di Craxi, riesce nella «missione impossibile» di far votare al parlamento italiano l’installazione dei missili Pershing 2, voluta dagli Stati Uniti per controbilanciare la superiorità degli SS-20 sovietici sul teatro europeo. Il Pci ha votato contro, ma con un’opposizione «morbida», risultato di una trattativa segreta a due stadi: Napolitano si è incontrato con l’ambasciatore Gardner e Cossiga si è accordato direttamente con Berlinguer. È l’ultimo compromesso, che lascerà però un effetto duraturo, al pari dell’elevazione al soglio pontificio di Giovanni Paolo II, determinando le premesse per la disfatta del comunismo e la fine della Guerra fredda. Nei lunghi mesi in cui matura il trionfale ritorno al governo del Psi, mentre nella Dc ci sono Flaminio Piccoli alla segreteria e Arnaldo Forlani alla presidenza, Berlinguer preferisce stare in mezzo al guado. Tenterà ancora, e invano, di proporre il compromesso storico alla Dc, fino all’elaborazione della strategia dell’«alternativa democratica».147
Al nuovo corso viene dato un nome nobile, «nuova svolta di Salerno», la seconda dopo quella con cui Togliatti nel 1944 aveva portato il Pci al governo. Invece Berlinguer, dopo esserci andato vicino, vicinissimo, lo porta fuori. E per sempre. Anche se non sembra. La mattina del 28 novembre 1980 il segretario convoca una conferenza stampa all’Hotel Raito, sul mare sopra Vietri, a pochi chilometri da Salerno, per divulgare la notizia che tutti si aspettano dal Pci: la fine del «compromesso storico». Con i giornalisti parla una lingua contorta, seguendo il filo di una doppia logica: parla di un «governo diverso», ma nega che si tratti di «un cambiamento di strategia»; pensa a una «funzione dirigente» del Pci, ma sa che non potrebbe fare a meno della Dc; diffida della formula dell’«alternativa di sinistra», ma mette al primo posto l’alleanza con il Psi; irride ai «becchini del compromesso storico», sostenendo il fallimento della «caricatura che ne hanno fatto». Il groviglio politico sembra complesso, ma la traduzione è semplice: un governo a guida comunista con i socialisti migliori e quella parte della Dc «che sia capace di esprimere posizioni avanzate e persone oneste». Insomma, la svolta c’è, eccome. Ma non è stata pensata per cambiare il destino della politica italiana, quanto per sottrarre il Pci al logoramento della Dc, che ha ridotto la strategia comunista a «una pura formula di governo» o, peggio ancora, a «un accordo fra noi e la Dc».148
La vera svolta è tutta interna al partito. Incapace di condizionare le scelte dei democristiani e dei socialisti, pressato dall’offensiva politica di Craxi, preoccupato di non rompere il castello teorico costruito intorno al «compromesso storico», Berlinguer cerca una soluzione per linee interne, spostando la guida del Pci verso la sinistra e stabilendo un rapporto inedito e imprevisto con Pietro Ingrao, ritornato alla politica quotidiana dentro il partito dopo aver lasciato la presidenza della Camera dei deputati a Nilde Iotti. A destra, invece, a rappresentare la linea perdente c’è Napolitano.
A guardar bene, gli sconfitti sono molti, da Luciano Lama a Emanuele Macaluso, ai quali si potrebbero aggiungere anche Bufalini e Chiaromonte, ma in quei giorni è difficile fare la conta. Né dobbiamo immaginarci Giorgio Napolitano indomito e solitario a combattere contro il segretario. A rileggere con pazienza i resoconti della riunione della segreteria comunista a Vietri il 27 novembre, il giorno prima della conferenza stampa, il ruolo politico di Napolitano risulta più nitido persino di quanto egli stesso non racconti nell’autobiografia.
L’opinione comunista sulla «seconda svolta di Salerno» non è univoca. Al netto dei protagonismi dei partecipanti, una ricostruzione compatibile fra le differenti versioni racconta che Berlinguer, colpito dal dramma del terremoto in Campania e Basilicata del 23 novembre, ascoltando tre giorni dopo in televisione le parole di Sandro Pertini contro il governo inane di fronte all’emergenza, avrebbe deciso: «Dobbiamo farci avanti noi!». Annuncia su «l’Unità» che andrà a Salerno per incontrare i dirigenti comunisti delle zone terremotate, ma contemporaneamente chiede a Natta di anticipare la riunione della direzione del partito. Impossibile non ci sia del freddo calcolo fra tanta generosa improvvisazione. Berlinguer ha già preparato un documento politico fondato sulla «questione morale», in cui propone che il «Pci sia il perno del governo stesso». Quando la direzione si incontra a Vietri, il dibattito sul «perno» è già in corso. Una discussione tortuosa. Tutti si dichiarano d’accordo, e purtuttavia propongono correzioni, sfumature, precisazioni. Napolitano decide di proporre dei veri e propri emendamenti: in sintonia con Chiaromonte e Macaluso, e con le parole di Bufalini al momento della discussione, mette in guardia da «una crisi tale da aggravare il vuoto già esistente», stigmatizza il pericolo di «formule nuove ma artificiose», chiede sia evitato il rischio che si pensi a un Pci che dica «fateci entrare al governo».
La discussione divide, e intorno al «perno» si combatte una battaglia campale di parole in cui riverberano le posizioni contrapposte fra destra e sinistra. La sinistra è tutta per Berlinguer. Napolitano tenta una mediazione: propone di scrivere che il governo dovrà essere «non a direzione Dc». Una negazione affermativa che trova d’accordo il segretario, che decide di rivedere subito il testo con l’aiuto di Natta, preoccupato di diramare il comunicato entro le 18 dello stesso giorno. Il «perno» scompare. E tutti votano con il segretario, compreso Napolitano. Nella conferenza stampa il sostantivo ritorna in forma di participio passato, «imperniato».
La svolta di Vietri, anche se non si vede subito, allontana Napolitano dal centro del partito. Ma accentuandone la collocazione a destra, gli attribuisce una forza uguale e contraria a quella impiegata da Berlinguer per spostare l’intero centro del partito tutto a sinistra. Nella ricostruzione autobiografica si ritrova, vissuta con la stessa intensità del passato, la percezione di quell’abbaglio: «Non fummo in pochi a restare sconcertati per l’estemporaneità dell’annuncio della nuova linea, che ci sembrò piuttosto propagandistica e generica. […] Naturalmente, non si poteva su quella base costruire alcuna prospettiva politica».149
L’alternativa democratica si rivela impraticabile per mancanza di contraenti. In aprile Craxi sbaraglia definitivamente la sinistra socialista e si fa dominus di tutto il Psi al congresso di Palermo, mentre il governo è sotto il fuoco delle polemiche per lo scandalo della loggia massonica P2 di Licio Gelli. Il 28 giugno Giovanni Spadolini, primo presidente del Consiglio laico della storia repubblicana, succede ad Arnaldo Forlani. La mattina del 28 luglio Napolitano si trova in Sicilia per vacanza e anche per lavoro. Aprendo «la Repubblica» di Eugenio Scalfari non può fare a meno di leggere una lunga intervista del segretario al direttore. Telefona subito a Gerardo Chiaromonte per trovare conferma e forse anche conforto del suo sconcerto. Lo trova. E insieme decidono di rispondere: «Concordammo sulla necessità di arginare una deriva che minacciava di oscurare le acquisizioni fondamentali maturate nel corso della lunga storia del Pci».150