Vivissimi applausi
Giovedì 19 maggio 1994, la Camera dei deputati è riunita per votare la fiducia al governo Berlusconi, il primo. Forza Italia è il partito di maggioranza relativa. Alla presidenza della Camera siede Irene Pivetti, imposta da Bossi in rappresentanza della Lega. Napolitano, rieletto deputato nel collegio di Fuorigrotta, prende la parola dai banchi dell’opposizione: «Signor presidente, onorevoli colleghi, non vi stupirà che io parta in questo intervento dall’esperienza della scorsa legislatura». Un incipit istituzionale: parla ancora da presidente, per l’ultima volta. Il clima è aspro. Per la prima volta la maggioranza, dopo una consuetudine di almeno vent’anni, non affida all’opposizione la presidenza della Camera. «Non si fanno prigionieri» è lo slogan gaglioffo dei vincitori. Napolitano sa essere determinato, pur rispettando la sua inclinazione al dialogo: «Siete chiamati a governare, ma non potete giustificare qualsiasi intento con la formula “il popolo l’ha voluto”». Rivendica il merito di aver saputo attraversare e guidare con mano ferma la Camera dei deputati durante la tempesta di Tangentopoli, «una tormentata esperienza» che però non ha impedito di far crescere «i semi del cambiamento istituzionale». Stigmatizza le ipotesi di una modifica della Costituzione. Parla di nuove leggi per un più equilibrato bilanciamento dei poteri. Ammonisce contro la dittatura della maggioranza. Poi tace. Ma non fa in tempo a sedersi. Annota lo stenografo in aula: «Il presidente del Consiglio dei ministri Berlusconi si reca al banco del deputato Napolitano e si congratula con lui. Vivissimi, generali applausi».225
Fin dall’inizio Napolitano non si fa nessuna illusione sulla fisiologia del potere berlusconiano: «Conduzione aziendale combinata con gli strumenti della persuasione pubblicitaria» scrive nel libro Dove va la Repubblica?, pubblicato nel 1994. Senza indulgere nelle teorie consolatorie della politologia radicale che vede in Forza Italia un «partito di plastica» e una «parentesi» della storia, Napolitano prende subito le misure della nuova temperie culturale con il metro della riflessione: «Questa è la politica dell’antipolitica».226
Nel suo libro l’ex presidente della Camera evita di parlare del Pds, in quei mesi sconquassato dalla sconfitta elettorale. Nell’indice dei nomi mancano non soltanto Occhetto, ma pure Massimo D’Alema e Walter Veltroni. Una scelta calcolata, pregnante come un giudizio storico, che conferma una separazione di fatto, definitiva e irreversibile, fra partito e istituzioni. E infatti Napolitano non c’è la sera in cui il gruppo trasversale che ha guidato il Pds si ritrova a cena in una casa del quartiere Prati, vicino a via Mazzini, per decidere come uscire dal tunnel in cui Occhetto ha portato il partito. Ci sono tutti, mancano soltanto i miglioristi. Manca anche Occhetto. Il segretario del partito non prende neppure in considerazione l’idea di dimettersi. Resiste, puntando sulle imminenti elezioni per il parlamento europeo, che il 12 giugno 1994 potrebbero restituire al Pds l’onore perduto. Invece il partito erede del Pci arretra ancora. Forza Italia registra un nuovo successo, arrivando al 30,6 per cento. Occhetto si dimette il giorno dopo.227
Per scegliere il nuovo segretario si procede a una complessa consultazione degli iscritti al Pds, che sono ancora più di 600.000, registrando il parere di quasi 15.000 persone. I fax che arrivano a Botteghe oscure rivelano un risultato inatteso: vince Veltroni, direttore de «l’Unità». Il quotidiano però pubblica un conteggio ponderato che attribuisce a Veltroni 272.384 preferenze e a D’Alema 280.865, ricordando ciò che tutti già sanno: la consultazione non è vincolante. Per statuto, infatti, l’elezione del segretario spetta al Consiglio nazionale del partito. Che finalmente vota, e con 249 voti contro 173 sceglie Massimo D’Alema, senza sorprendere nessuno.
Napolitano ha fatto la scelta giusta, dando la sua preferenza al segretario vincente. Macaluso invece ha votato per Veltroni. Non c’è stato contrasto politico però. Al contrario: su «l’Unità» del 1° luglio Macaluso aveva chiesto al gruppo dirigente del partito, sconfitto insieme a Occhetto, una svolta culturale verso la socialdemocrazia europea, e si era domandato se non fosse giunto il momento di «proporre Napolitano a segretario del Pds». Dietro la provocazione politica traspare la debolezza della destra riformista nel momento in cui potrebbe aspirare a diventare il perno non solo del Pds, ma dell’intera cultura democratica e progressista, di fronte alla sfida del populismo berlusconiano. Invece i miglioristi, che non sono riusciti a costruire un potere reale intorno alla corrente riformista, scoprono di non avere un candidato con l’età giusta per contrastare il postcomunismo di D’Alema e il comunismo kennediano di Veltroni. E così, il 7 novembre 1994, sarà lo stesso Macaluso a chiudere formalmente l’esperienza della corrente migliorista alla fine di una riunione, l’ultima, a Botteghe oscure.
Due settimane dopo, a Napoli, Berlusconi riceve un avviso di garanzia per corruzione mentre presiede la riunione delle Nazioni Unite sulla criminalità organizzata. La notizia, anticipata dal «Corriere della Sera», solleva la reazione furibonda della maggioranza contro la Procura di Milano. Ma l’incalzare delle indagini allarga il campo delle accuse, chiamando in causa la ristretta cerchia di Berlusconi. Umberto Bossi sarà il primo a cedere, ritirando la fiducia della Lega. La previsione di Napolitano si è rivelata corretta: l’antipolitica non ha retto al confronto con la politica.