Fronte del Sud
La politica unitaria tra il Pci e il Psi invocata da tutti gli «amendoliani», e ovviamente anche da Napolitano, era tramontata definitivamente dopo i fatti d’Ungheria. Il Psi di Pietro Nenni aveva preso le distanze dall’Unione Sovietica, ponendo le premesse per la nascita del centrosinistra, basato sull’alleanza con la Dc.
Il 1957 è un anno che nei libri di storia viene trattato come un «non anno», schiacciato come è fra il «terribile 1956» e il «decisivo 1958». Eppure ha visto la nascita della Cee, del Mec, della Cinquecento e di Carosello, l’uscita del Dottor Zivago di Boris Pasternak, la prima orbita dello Sputnik e l’invio della cagnetta Laika nello spazio… Bagliori di futuro, difficili da cogliere a occhio nudo. Ma il Pci deve fare i conti con l’immediato passato.
Nel gennaio del 1957 Napolitano, eletto da quattro anni alla Camera dei deputati, lascia Caserta e il ruolo di segretario della federazione comunista per assumere la direzione della commissione meridionale del partito a Napoli. Torna a casa, in via Monte di Dio, dove il padre è morto nel 1955. In realtà la città è rimasta il suo centro di gravità politico, ma dopo il 1956 il comunismo napoletano sembra aver perso quei tratti, più antropologici che politico-culturali, che lo avevano fatto sembrare tanto peculiare, persino unico e raro, anche a Togliatti.
Sotto l’influenza di Amendola il partito a Napoli si era in qualche modo nazionalizzato, diventando il centro motore del meridionalismo comunista su cui si sarebbe formata quella parte della classe dirigente riformista destinata ad arrivare ai vertici del Pci, determinandone politiche e idee fino alla sua dissoluzione. Una rete di figure strettamente legate fra loro: da Gerardo Chiaromonte di «Cronache Meridionali» a Rosario Villari, che preferirà la grande ricerca storica alla dura pratica politica, da Paolo Bufalini, spedito dal centro a dare manforte in Sicilia, a Girolamo Li Causi, uno dei primi comunisti impegnati nella lotta alla mafia, fino a Emanuele Macaluso, giovane sindacalista della Cgil.
Immaginando il Pci del capoluogo partenopeo come un governo, se Giorgio Amendola e Mario Alicata vanno considerati alla stregua di ministri, il ruolo di Napolitano può essere paragonato a quello di un sottosegretario, quasi un viceministro alla francese. Riesce infatti a stipulare una proficua pace con il socialista Giacomo Mancini, convincendolo della necessità di continuare a rappresentare il Psi nel comitato nazionale del Movimento per la rinascita del Mezzogiorno, malgrado il fallimento della politica unitaria con il Pci.
C’è sempre stata in Napolitano, funzionario di partito rigoroso e fedele nell’applicazione dei dettati, un’attrazione verso tutto ciò che con il Pci sembra non poter essere compatibile. La sua autobiografia pubblica è costellata di incontri speciali che tramanderanno di lui il profilo di un comunista anomalo, già postcomunista senza mai diventare ex comunista. Per esempio quello con Danilo Dolci a Trappetto, in Sicilia, «dove viveva poveramente alla maniera di un bracciante agricolo». L’occasione – un convegno a Palermo sulla piena occupazione nel novembre del 1957 – gli consente di entrare in sintonia con una figura che diventerà un mito delle culture subalterne un attimo prima che si affermino nell’opinione pubblica internazionale. Nella primavera del 1960, Napolitano, trovandosi con Dolci a Palma di Montechiaro insieme a Sylos Labini e Leonardo Sciascia, non si risparmia l’esercizio, si vede sincero, di una profonda critica a tutto il Pci, di cui si fa capro espiatorio: Dolci, infatti, privilegiava la «pianificazione locale», una «pianificazione dal basso», che nei fatti smentiva la scelta comunista di affidare lo sviluppo possibile alla «responsabilità dello Stato centrale».
L’autocritica severa torna molto utile subito dopo, nelle pagine immediatamente successive dell’autobiografia, quando Napolitano rivendica, storicizzandola e quindi legittimandola, la dottrina «industrialistica» del Pci, confessando di aver partecipato in prima persona alle decisioni che portarono nel 1959 alla scelta di Taranto per la costruzione voluta dall’Iri di un «centro siderurgico a ciclo integrale» nel profondo Sud. E allora non gli è difficile ripetere lo schema, in questo caso esplicitamente critico verso la strategia ideologica, che attraversava buona parte della cultura economica del Pci, per cui l’intervento dello Stato rappresentava, scrive Napolitano nel 2005 con fredda ironia, «un sentiero di avanzata verso il socialismo».90