«Dio ti vede, Napolitano no»
Bernardo Sanlorenzo detto Dino, classe 1930, giornalista e funzionario del partito, di Torino come Spagnoli e Fassino, si è candidato al direttivo del gruppo, subendo una clamorosa bocciatura. Il registro paradossale della lettera, spedita per conoscenza a Paolo Bufalini, responsabile della commissione centrale di controllo, non nasconde l’insidia dei fatti. Il tono goliardico poi, così raro nella epistolografia comunista, svela con realismo cinico modi e costumi del parlamentare del Pci all’epoca di Napolitano: «Ho sempre votato quanto deciso (e questo è già sospetto). Non ho mai urlato contro questo o quello. Per esempio contro la Iotti, e questo è più che sospetto! È quasi una colpa. Non ho mai applaudito vistosamente Democrazia proletaria. Non ho determinato con la mia assenza la sconfitta dell’opposizione su articoli particolari di una legge. Non mi sono sdraiato davanti al parlamento né mi sono fatto portare via dalla polizia. Tutto questo, lo ammetto, non l’ho fatto. Ma anche tu non lo hai fatto, eppure ti hanno eletto presidente (sia pure con 32 voti contro)».
Il monito è fin troppo chiaro. E c’è un tocco di malignità nel ricordare che il consenso al capogruppo non conta sulla necessaria unanimità. «Mi permisi di criticare alcune forme della tua gestione della presidenza in assemblea […]. Ma come, questo qua è d’accordo con Napolitano e poi lo critica? Ma in quale squadra gioca costui? […] Se Napolitano è buono è sempre buono. Se a volte fa relazioni di un’ora bisogna soffrire ma non dirlo. Che diamine! […] Il tocco finale fu l’assemblea per il rinnovo del presidente del gruppo. Lì sostenni, insieme al povero Nicolini e al compagno Natta, che era meglio votare palesemente per la tua rielezione dato che c’era un candidato unico. Già era unico perché nessuno parlava! Ma poi, nel segreto dell’urna, Dio ti vede ma Napolitano no! E furono 32 voti in meno.»169
Pochi mesi dopo, tornato a far parte della segreteria, Napolitano lascerà la presidenza del gruppo parlamentare per diventare il capo della politica estera del Pci. Non per colpa di Sanlorenzo o per merito di Spagnoli. Due eventi di primissimo piano hanno nel frattempo riaperto il vulnus della crisi comunista, che Natta pensava o almeno sperava si fosse ricomposta con il 33,3 per cento dei voti ottenuti alle europee dopo la morte di Berlinguer. Invece, alle elezioni regionali del 12 maggio 1985, il Pci arretra al 30,5 di media nazionale. Non è un buon viatico per la nuova segreteria, che ha rilanciato la battaglia contro il taglio della scala mobile, anche se ormai nessuno pensa più che il Pci la possa vincere. Soprattutto dopo che la Cgil, per non incrinare i rapporti interni al sindacato con i socialisti, si è sottratta alla parte più dura della lotta, quella tutta politica contro il governo di Craxi. Un mese dopo, al referendum abrogativo del 10 giugno 1985, la sconfitta è di nuovo pesante: 54,3 sono i voti contrari. Gli elettori hanno scelto il governo.
Non serve a lenire la pena l’enfasi su quel 43,7 per cento schierato con i comunisti. La sinistra del Pci addossa tutta la colpa all’area riformista, in cui vede un colpevole disimpegno, anzi, quasi un boicottaggio. Nella riunione della segreteria successiva alla sconfitta, Napolitano si scontra con Natta, seppure a colpi di fioretto, rimproverandolo di aver voluto a tutti i costi un referendum che si doveva considerare perso in partenza.170 Nell’opposizione di Napolitano alla segreteria di Natta, nei giorni dello smacco, c’è il tentativo di una formulazione teorica che non lasci niente al massimalismo delle parole d’ordine e ancor meno al minimalismo delle scelte di fondo, quasi a indicare una via di uscita possibile. Ancor prima del referendum, con l’occasione del 25 aprile, aveva scelto «l’Unità» per seppellire il «compromesso storico» a favore di una competizione fra «due poli», uno moderato e conservatore costruito intorno alla Dc e l’altro progressista e riformatore imperniato «sulla sinistra e non solo sul Pci». Dopo la sconfitta referendaria sceglie invece «l’Espresso», con un’intervista forse un po’ pedante, come spesso gli succede, per criticare le scelte del suo partito: «Abbiamo tardato a comprendere che il Psi coglieva problemi di rinnovamento della sinistra […], abbiamo tardato a confrontarci o a rilanciare la sfida del Partito socialista […]. Il ritardo ha pesato […]. Di qui anche l’illusione che il Pci, pur rimanendo tale e cioè non rinunciando alla sua matrice comunista, ma puntando sulla combinazione fra la sua storia e un grande sforzo di rinnovamento, potesse rappresentare l’insieme della sinistra e assorbire pienamente anche la tradizione socialista».171