La frattura della Guerra del Golfo

La metafora della crisalide che deve trasformarsi in farfalla mostra un Pci stremato da un confronto interno ed esterno, come se il XIX congresso di Bologna non fosse mai finito e il XX di Rimini già cominciato. Un congresso permanente continuamente ininterrotto. E il processo costituente si fa sempre più confuso. I club, i comitati costituenti, i movimenti, gli intellettuali e gli esterni, ossia la sinistra sommersa che dovrebbe portare nuova linfa al Pci diventato «cosa» ma non ancora Pds, si trovano sballottati in una guerra di posizione interna alla dirigenza comunista. Il partito nuovo ha già tutti i vizi di quelli vecchi, proprio mentre comincia il conto alla rovescia per la fine della Prima repubblica.

A quel punto, sarà ancora la politica internazionale a condizionare lo scontro fra i comunisti. Il 2 agosto 1990 il presidente iracheno Saddam Hussein invade il vicino Kuwait. Il governo italiano si schiera con l’Onu contro l’Iraq. La segreteria del Pci decide per un voto di astensione, ma il 23 agosto 1990 al Senato e il giorno dopo alla Camera un gruppo di parlamentari sceglie di votare contro, rompendo per la prima volta la disciplina di partito. Napolitano, ministro degli Esteri del governo ombra, reagisce con «fredda violenza». Con Occhetto era andato a Parigi per sostenere il tentativo del presidente francese François Mitterrand di trovare una soluzione pacifica alla crisi. In Italia cerca un punto di convergenza con Andreotti e ne parla con Craxi. Interpreta come una smentita politica il voto del Pci favorevole al rientro in Italia dei Tornado che il governo ha mandato nel Kuwait. Siamo alla fine di settembre: Napolitano si astiene, ma garantisce di votare in aula come ha deciso la maggioranza. Dice a «la Repubblica», riferendosi all’Onu: «Dopo la nuova risoluzione del Consiglio di sicurezza debbono restare nel Golfo».199

È evidente la polemica, come sottolinea anche «l’Unità» del 27 settembre 1990, contro la minoranza neocomunista ma anche contro la maggioranza di cui pure fa parte. La frattura è scomposta. A partire dall’agosto 1990 la Guerra del Golfo diventa il terreno di scontro su cui si confrontano la destra e la sinistra dell’ex Pci, preparandosi a diventare due partiti dentro il partito. Ma quale?

La mattina del 10 ottobre 1990 «la Repubblica» svela il nuovo logo, una quercia con alla base il vecchio simbolo del Pci, e il nuovo nome: Pds, Partito democratico della sinistra. La gola profonda sarebbe stata lo stesso segretario, che non ha potuto negare a Eugenio Scalfari il privilegio di conoscere simbolo e nome in anteprima, con un giorno di anticipo sulla conferenza stampa organizzata a Botteghe oscure alle 17.30, l’ora giusta per conquistare i titoli di testa dei telegiornali di prima serata. E Scalfari ha raccontato tutto ai suoi giornalisti, che hanno confezionato a dovere lo scoop. Ne nasce un putiferio. Occhetto pensa di trovare un nuovo logo, un po’ per fare dispetto a «la Repubblica», ma soprattutto per la reazione della nomenklatura, informata insieme ai giornalisti e soprattutto dopo Scalfari.

Il simbolo non piace. Il nome è indigesto. A tutti. Da sinistra ci si lamenta che il Pci non sia diventato Partito del lavoro. Da destra si stigmatizza la mancanza di ogni riferimento al socialismo. Napolitano, seppur con calma olimpica, non riesce a nascondere il suo disappunto. E quando, l’indomani, l’11 ottobre 1990, si riunisce la direzione, dichiara tutto il suo dissenso. Sbagliato il metodo, sbagliato il nome, sbagliato il simbolo, sbagliato il lancio stampa, insomma sbagliato tutto: «L’ipotesi di nome non è scaturita da alcuna discussione preliminare. […] Il riferimento al riformismo, in quanto tradizione, visione e metodo, va assunto come connotato e punto di forza essenziale del nuovo partito. Il riferimento alla sinistra deve essere inteso come riferimento, innanzitutto, al socialismo europeo». C’è solo un punto su cui non ha difficoltà a concordare, ma quella concordia ha l’effetto di una scudisciata: «La proposta del nuovo nome avanzata da Occhetto ha tenuto conto dell’impossibilità di riprodurre, in qualche modo, il termine “comunista”».200

Serpeggia lo scontento fra i vertici dell’oligarchia storica per la spregiudicata strumentalizzazione giornalistica del segretario, più preoccupato del successo stampa che del consenso politico. Ingenuo come talvolta gli poteva capitare, Occhetto non ha considerato che i giornalisti non votano ai congressi. Quando se ne rende conto comincia a spostare progressivamente verso sinistra, come nella tradizione togliattiana, il centro di gravità su cui si regge la sua segreteria, temendo che la scissione a cui sta lavorando con determinazione Armando Cossutta possa trascinare con sé anche Ingrao. Occhetto, che lo conosce bene, teme il tratto caparbio del suo carattere, che potrebbe portarlo fuori dal nuovo partito solo per tenere il punto d’onore. Non succederà, e alla fine anche Ingrao diventerà un ex comunista come Napolitano.

L'ultimo comunista: La presa del potere di Giorgio Napolitano
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