A un passo da Palazzo Chigi
Qualcosa si è rotto, irrimediabilmente. Il Palazzo ha mutato la sua funzione, trasformato in un palcoscenico della più scadente commedia della politica di tutta la storia repubblicana. Così va interpretato il successo del referendum sulla legge elettorale del 18 aprile promosso da Mario Segni, ex democristiano, figlio di un presidente della Repubblica, e ora indiscusso punto di forza del fronte trasversale che chiede la riforma della politica e la rifondazione della Repubblica. Dopo quattro giorni ne fa le spese il governo Amato, responsabile della manovra finanziaria da 92.000 miliardi che ha salvato l’Italia dalla bancarotta ma ha cambiato per sempre la percezione degli italiani sullo stato fiscale. Anche perché l’opinione pubblica è colpita dal costo della corruzione, calcolato dall’economista Mario Deaglio in 10.000 miliardi di lire all’anno. Con un ultimo sussulto Amato cerca di tornare al governo, puntando sulla partecipazione diretta del Pds. Per la seconda volta il segretario del partito non se la sente. Ritiene sia necessaria un’evidente discontinuità. Tra i nomi in gioco c’è quello di Mario Segni; andrebbe bene anche a Occhetto, anche perché non è più democristiano. Nel Pds si fa strada con forza, in un sottile gioco di veti e contrappesi, la candidatura secca di Giorgio Napolitano. Servirebbe coraggio, però. Il prestigio conquistato sul campo dal presidente della Camera in quei mesi così difficili sarebbe il giusto viatico. E poi: quale maggiore discontinuità di un comunista, seppure riformista, per la prima volta a Palazzo Chigi? Non succede però. Si preferisce il governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi. Un governo a termine, dicono i politologi. Giusto per preparare la nuova legge elettorale. Per intanto sono ben tre i ministri scelti in autonomia, ma su indicazione del Pds: Vincenzo Visco, Augusto Barbera e Luigi Berlinguer. Al mattino del 29 aprile, il governo giura nelle mani di Scalfaro. I comunisti, seppure ex, tornano al governo da dove Togliatti era stato discacciato quasi mezzo secolo prima. La data è storica. Ma dura meno di mezza giornata.
Con voto segreto la maggioranza della Camera, riunita nel pomeriggio, respinge la richiesta della magistratura di processare Bettino Craxi. Nell’aula di Montecitorio sale il tumulto. E si capisce subito che il voto a favore di Craxi è un voto contro Ciampi, ma soprattutto ha l’effetto di un colpo di maglio sulla scelta storica del Pds. Si instaura un clima da corrida calcistica. Vittorio Sgarbi, eletto con i liberali ma impegnato in un’assordante difesa del gran capo socialista, all’uscita del parlamento viene centrato da una salva di uova marce. Silvio Berlusconi arriva all’Hotel Raphael per festeggiare l’amico Bettino. La gente, al colmo dello sdegno, scende in piazza spontaneamente. Fuori dal Raphael si sono già da tempo raccolte almeno un centinaio di persone. Craxi, arrivato sulla soglia, ha un attimo di esitazione. Ma deve raggiungere Giuliano Ferrara che lo aspetta a Canale 5, la televisione di Berlusconi, per l’ultima intervista della giornata. Pochi passi veloci, ma quando sta per infilarsi in macchina viene sommerso da un diluvio di monetine. E anche un po’ di ghiaia e non pochi sputazzi.
Tramortito dal voto e terreo in volto, Occhetto ha già deciso: «Usciamo dal governo» risponde d’istinto ai suoi, furibondo, senza riflettere. «Con questi qui, non possiamo stare un minuto di più.» Coincidono, le ricostruzioni degli storici e le memorie dei protagonisti, nel fissare in quel momento l’inizio della deriva del Pds, paragonato a una nave senza comando, e la fine della segreteria di Occhetto. La spaccatura dentro il partito si trasformerà in un conflitto ideologico. Fuori dal governo il Pds si lascerà trascinare verso una sfida elettorale perdente. La decisione di Occhetto si rivelerà un grave errore. Ci si chiede come sia stato possibile pensare di unire nello stesso giorno il voto di fiducia al nuovo governo e quello su Craxi. Ingenuità, certo. Caso, possibile. Ma, fra tutti, Napolitano presidente della Camera e D’Alema capogruppo del Pds avrebbero dovuto averlo presente ed evitarlo.
In buona sostanza: nel mezzo della tempesta giustizialista che scuote l’opinione pubblica di sinistra, quando ormai il partito degli inquisiti sfiora la maggioranza del parlamento, mentre la procura morde di nuovo il corpo storico del partito con l’arresto di Primo Greganti, emblema vincente della resistenza dei comunisti a Mani pulite per il suo ostinato silenzio, le strade percorribili per Occhetto sono di fatto obbligate. E forse tutte sbagliate. Cosa sarebbe successo allora, se invece di profilarsi l’ascesa di D’Alema, esaurita la spinta propulsiva di Occhetto, i miglioristi avessero dato battaglia per imporre la segreteria di Giorgio Napolitano? Non accadde. Al contrario: l’eutanasia morale del Psi, con la fragorosa destituzione giudiziaria di Craxi con tutta la sua classe dirigente, invece di rafforzare la destra del Pds contribuirà alla sua estinzione politica. Tangentopoli diventerà una guerra civile fra i partiti da combattere con ogni mezzo. Senza risparmiare nessuno. Nemmeno Napolitano.