Lezione sette
DI COSA CI FACCIAMO CARICO
UN pomeriggio, quando ormai non riuscivi più a camminare da sola, stavamo colorando al tavolo della cucina. Guardai l’orologio e mi resi conto che era tardi. Mi alzai.
«Mi dispiace, Chika, devo andare.»
«No, no», arrivò la protesta. «Rimani a colorare.»
«Chika, devo andare al lavoro.»
«Signor Mitch, devo giocare.»
«Ma è il mio lavoro.»
«No, non è vero!» Incrociasti le braccia. «Il tuo lavoro è caricarti me sulle spalle.»
Ho ripensato a questa frase più di quanto immagini. All’epoca, me la cavai con una risata che liquidava il tuo adorabile dispotismo. Ma più ti indebolivi, più avevi bisogno che ti trasportassi persino da una parte all’altra della stanza, più capivo la saggezza delle tue parole. Il tuo lavoro è caricarti me sulle spalle. Questa frase è diventata la pietra angolare del punto finale del mio elenco, forse la lezione più importante che mi hai insegnato.
Ciò di cui ci facciamo carico definisce chi siamo.
E l’impegno che ci mettiamo è ciò che lasciamo in eredità.
La prima settimana di febbraio è tradizionalmente la settimana del Super Bowl. Per i cronisti sportivi è un grande evento. Avevo coperto ogni Super Bowl dal 1985. Trentadue anni di fila. Era una cosa che il mio giornale si aspettava da me e in realtà ero un po’ orgoglioso della mia presenza continuata, che immaginavo avrei proseguito fino alla pensione.
Ma nel 2017 non andai. Tutte le cose di cui mi ero fatto carico, tutto il lavoro che prima era sembrato così fondamentale, erano arrivate al capolinea, scaricate come un camion con la ribalta che rovescia il suo contenuto. Quando arrivò quella settimana, che segnava il ventunesimo mese della tua battaglia – e che ti metteva tra i malati di DIPG sopravvissuti più a lungo – eri in un luogo diverso rispetto al giorno della tua festa di compleanno, che si era tenuta un mese prima. Il tumore, come aveva detto il dottor Van Gool, «era cresciuto in modo piuttosto scandaloso». Non riuscivi più a mangiare, perciò si era resa necessaria una sonda gastrica per alimentarti. All’inizio avevano provato con un tubo che ti entrava nel naso e ti scendeva in gola. Te l’eri strappato via quando nessuno guardava. (Sinceramente, una parte di me avrebbe voluto darti il cinque. Chi avrebbe voluto una cosa del genere?)
Ma erano solo passati a una versione più stabile, una gastrostomia endoscopica percutanea posizionata nell’addome. Tutti i giorni e tutte le notti riempivamo nuove sacche di cibo liquido e te lo somministravamo mediante la pompa a infusione che lo spingeva nel tubo attraverso cui ti arrivava nello stomaco. Ti somministravamo anche farmaci tramite il catetere PICC diverse volte al giorno, lo sterilizzavamo, lo lavavamo con eparina e lo rimettevamo sotto la guaina bianca che ti avvolgeva il braccio. Nebulizzavamo l’alcol peryllil attraverso un tubo di plastica inserito nel naso.
Non so come tu gestissi tutto questo, Chika. Ma anche così, anche con la tua meravigliosa voce ridotta a qualche grugnito, eri ancora tu. Inclinavi appena la testa per indicarmi con che bambola volevi dormire la notte. Pronunciavi un ciao farfugliato quando ci collegavamo via FaceTime con i bambini di Haiti. Una volta mi è venuto un accesso di tosse parossistica e tu hai girato gli occhi verso di me, e la signorina Janine ha detto: «Gli serve qualcuno che gli dia dei colpetti sulla schiena, Chika, vuoi farlo tu?» Mi sono chinato e tu mi hai dato tre piccole pacche.
Il giorno del Super Bowl ero seduto sul tuo letto a scegliere un film da farti vedere. Leggevo i titoli ad alta voce e tu non hai reagito finché non sono arrivato a Mr Peabody e Sherman. Hai alzato il pollice. Così l’ho guardato insieme a te.
A un certo punto Mr Peabody, che è un cane, si presenta davanti a un giudice per adottare il suo protetto, Sherman, che è un ragazzino.
Il giudice chiede: «Crescere un bambino presenta delle sfide enormi. È certo di poterle affrontare?»
E il cane risponde: «Con il dovuto rispetto, quanto potrà mai essere difficile?»
* * *
Ho deciso, seduto a questa scrivania, che non spiegherò nei particolari le ultime otto settimane che hai passato con noi, Chika. Sono state difficili e impegnative, con tentativi medici da ultima spiaggia, una macchina per l’ossigeno, massaggiatori di gomma che ti passavamo sulla schiena per farti tossire, un tubo di aspirazione che ti infilavamo nel naso e in gola per tirar fuori la roba che ti impediva di respirare. Avevi un piccolo monitor attaccato al dito per misurare il battito cardiaco e i livelli di ossigeno, che lampeggiava numeri rossi per tutta la notte, svegliando la signorina Janine e me con dei bip quando un livello si alzava o si abbassava troppo. Finì che sapevo se le cifre erano giuste – o sbagliate – nel giro di qualche secondo da che avevo aperto gli occhi. Non odio molte cose, Chika, ma quel monitor non lo potevo soffrire. Era come un conto alla rovescia lampeggiante della tua esistenza.
Ma c’erano anche delle cose positive. Continuavi a irradiare una forza vitale che commuoveva anche i professionisti più temprati. Una squadra di fisioterapisti di un posto chiamato Walk the Line iniziò a chiamare a casa quando tu non potevi ormai più andare da loro perché, dicevano: «Chika ci manca». Una capoinfermiera di nome Donna, di una società che si chiamava Health Partners, passava senza preavviso, solo per vedere come stavi. C’erano volte in cui entravo nella stanza e c’erano due tuoi amici, tre membri della famiglia, un paio di operatori sanitari e qualcuno che suonava l’ukulele. Attiravi le folle.
Una sera abbiamo raccontato a un’infermiera di nome Shawn, che era alta come tua madre, quanto ti piaceva la musica da chiesa. E di punto in bianco lei ci ha chiesto se poteva cantare per te.
Eravamo tutti riuniti attorno a te e Shawn si è lanciata nella più straordinaria interpretazione di His Eye Is on the Sparrow:
I sing because I’m happy
I sing because I’m free
His eye is on the sparrow
And I know He watches me.
Avevi lo sguardo pieno di meraviglia. Ed è stato un momento meraviglioso. La signorina Janine si è messa a piangere.
I tuoi ultimi giorni ci portarono ad aprile, quando avevamo messo avanti gli orologi e il tempo era diventato più mite. Avevi resistito ventitré mesi, tantissimo per una persona con il DIPG. La signorina Janine aveva detto che eri un miracolo, e lo eri, in talmente tanti sensi.
Ti studiavo ogni sera prima di spegnere la luce, così immobile, innocente, il faccino liscio senza espressione. Mi è difficile dire come mi sentivo impotente, Chika, incapace di lottare accanto a te nella battaglia che infuriava nel tuo cervello, qualunque essa fosse. Come facevi a essere così forte? Pensavo alla storia di Giacobbe e dell’angelo che lottano sulla riva del fiume per tutta la notte. Mi sono chiesto spesso perché quella lotta fosse durata tanto a lungo, dato che l’angelo non dovette fare altro che toccare la giuntura dell’anca di Giacobbe per slogargliela.
Ma immagino sia stata la feroce determinazione di Giacobbe a fargli vedere la luce del mattino. Ed era stata la tua feroce determinazione, Chika, che ti aveva portata fino a quel punto, ancora qui, dopo quasi due anni di lotta.
È vero, il prezzo era stato alto. Avevamo perso per strada la tua voce adorabile e ci erano rimasti solo i tuoi occhi semiaperti, in cui guardavo ogni giorno dicendo: «Buongiorno, bellissima bambina». Il tuo corpo, che era cambiato così tanto nel corso della malattia, era tornato a essere la figuretta con le gambe lunghe di quando eri arrivata in America. Eri più alta di qualche centimetro, ma in un certo senso eri tornata al punto di partenza.
Nelle ore che precedettero l’alba del 6 aprile i numeri precipitarono in modo drammatico. Il battito cardiaco era lentissimo e respiravi sporadicamente. Io dormivo sul pavimento vicino all’armadio, perché il monitor che suonava mi aveva tenuto sveglio, quando sentii un’infermiera dell’hospice che mi chiamava. Scattai a sedere nell’oscurità urlando: «Cosa? Cosa?» E l’infermiera disse: «Potrebbe essere venuto il momento».
La signorina Janine e io ci chinammo su di te, accarezzandoti le guance. Cercammo di farci forza. Ma quando sorse un mattino di foschia grigia, c’era qualcosa che non tornava. A noi non sembrava venuto il momento. Appoggiai l’orecchio sul tuo petto e udii un rumore, come un lamento.
«Sta lottando», dissi.
«Sono solo i rumori che i bambini fanno alla fine», disse una delle infermiere.
Guardai Janine. Lei scosse la testa. Mi sentii come mi ero sentito in quella sala conferenze con il dottor Garton due anni prima.
«No», dissi. «Sta lottando. E se lei lotta, noi lottiamo.»
Ti feci chinare in avanti e perdonami, Chika, se ho fatto la cosa sbagliata, ma mi sono messo a picchiarti sulla schiena con i massaggiatori di gomma, come mi avevano insegnato, e ti ho infilato il tubo nel naso e in gola, come mi avevano insegnato, e ho picchiato ancora dicendo, avanti, tesoro, se vuoi combattere, allora combatti. E mentre le infermiere dell’hospice ci fissavano sbalordite, il battito cardiaco è ripreso e hai ricominciato a respirare, e nel giro di cinque minuti eri tornata indietro. La signorina Janine mi guardava, avevamo tutti e due il fiatone, e una delle infermiere dell’hospice ha detto: «Non ho mai visto niente del genere».
E tra le lacrime la signorina Janine e io pensammo la stessa cosa: «Ciononostante».
Ciò di cui ti fai carico definisce chi sei. Potrebbe essere l’onere di mantenere la tua famiglia, la responsabilità di prenderti cura dei pazienti, il bene che pensi di dover fare per gli altri o i peccati di cui non riesci a liberarti. Qualunque cosa sia, tutti noi ci facciamo carico di qualcosa, ogni giorno. E per tutto il tempo che sei rimasta con noi – come avevi affermato con aria di sfida – il mio lavoro è stato farmi carico di te.
Il mio lavoro era – ed è – farmi carico dei tuoi fratelli e delle tue sorelle dell’orfanotrofio.
Il mio lavoro, ho scoperto dopo tanti anni senza averne, è farmi carico dei bambini.
Non esiste peso più meraviglioso da caricarsi sulle spalle.