Noi

«PERCHÉ non stai scrivendo, signor Mitch?»

Chika è sdraiata sul tappeto del mio ufficio. Rotola sulla schiena. Giocherella con le dita.

Viene qui al mattino presto, quando la luce che entra dalla finestra è ancora incerta. Delle volte ha con sé una bambola o una scatola di pennarelli. Altre volte è solo lei. Indossa il suo pigiama azzurro, con il disegno di My Little Pony sulla casacchina e stelle color pastello sui pantaloni. In passato Chika adorava scegliersi i vestiti tutte le mattine dopo essersi lavata i denti, abbinando i colori delle calze e delle magliette.

Ma adesso non lo fa più.

Chika è morta la primavera scorsa, quando gli alberi del nostro giardino iniziavano a mettere le gemme, come stanno facendo adesso, perché è di nuovo primavera. La sua assenza ci ha lasciati senza fiato, incapaci di dormire e mangiare. Mia moglie e io fissavamo il vuoto per ore, fino a che qualcuno parlava e ci riscuoteva.

Poi, una mattina, è ricomparsa.

«Perché non stai scrivendo?» mi ripete.

Ho le braccia incrociate. Fisso lo schermo vuoto.

Di cosa?

«Di me.»

Lo farò.

«Quando?»

Presto.

Lei fa un verso tipo grrr, come una tigre dei cartoni.

Non arrabbiarti.

«Uff.»

Non arrabbiarti, Chika.

«Uff.»

Non andartene, va bene?

Lei tamburella le piccole dita sulla scrivania, come se dovesse pensarci su.

Chika non rimane mai a lungo. È apparsa la prima volta otto mesi dopo la sua morte, la mattina del funerale di mio padre. Ero uscito a guardare il cielo. E d’un tratto eccola lì, in piedi accanto a me, con le mani sulla ringhiera del portico. Ho detto il suo nome, incredulo – «Chika?» – e lei si è girata, quindi ho capito che mi sentiva. Ho parlato in fretta, convinto che fosse un sogno e che sarebbe potuta svanire da un momento all’altro.

Ultimamente quando appare sono calmo. Dico: «Buongiorno, bellissima bambina». E lei dice: «Buongiorno, signor Mitch», e si siede per terra o sulla sua seggiolina, che non ho mai tolto dal mio ufficio. Ci si può abituare a tutto nella vita, immagino.

Anche a questo.

* * *

«Perché non stai scrivendo?» mi ripete Chika.

La gente dice che dovrei aspettare.

«Chi?»

Gli amici. I colleghi.

«Perché?»

Non lo so.

È una bugia. Lo so. Ti serve più tempo. È prematuro. Sei troppo coinvolto. Magari hanno ragione. Magari quando metti sulla carta le persone che ami, accetti definitivamente la loro realtà, e forse io non voglio accettare questa realtà, che Chika se n’è andata, che le parole sulla carta sono tutto quello che mi resta.

«Guardami, signor Mitch!»

Dondola sulla schiena, oscillando a destra e a sinistra. Recita cantilenando: «The isby-bisby spider, went up a water spout…»

Itsy-bitsy, la correggo. Le parole sono itsy-bitsy.

«Naah», dice lei.

Ha le guance tonde e i capelli intrecciati, e sporge le piccole labbra come se stesse per mettersi a fischiare. È alta come quando l’abbiamo portata qui da Haiti, a cinque anni, e le abbiamo detto che sarebbe rimasta con noi mentre i dottori la aiutavano a stare meglio.

«Quando…

«comincerai…

«a…

«scrivere?»

Perché ti importa tanto? le chiedo.

«Quello», dice indicando con il dito.

Seguo la direzione del suo dito sopra la scrivania, oltre i ricordi del periodo che ha passato con noi: fotografie, una tazza di plastica col beccuccio, il suo draghetto rosso di Mulan, un calendario…

«Quello.»

Il calendario? Leggo la data: 6 aprile 2018.

Domani, il 7 aprile, sarà passato un anno.

Un anno da quando ci ha lasciati.

È per questo che fai così? le chiedo.

Lei si fissa i piedi.

«Non voglio che mi dimentichi», borbotta.

Oh, tesoro, dico, questo è impossibile. Non si può dimenticare chi si ama.

Lei inclina la testa, come se non sapessi una cosa ovvia.

«Sì che si può», dice.

C’è stata una sera, i primi mesi che era con noi, in cui le leggevo La strada di Winnie Puh. Chika adorava ascoltare. Mi si accoccolava in grembo, si appoggiava il libro sulle gambe e afferrava la pagina per girarla prima che avessi finito.

Verso la fine di quella storia, un Christopher Robin in partenza dice a Pooh: «Promettimi che non mi dimenticherai, mai. Neanche quando avrò cent’anni». Ma l’orsetto non promette. Non subito. Invece chiede: «Io quanti anni avrò?»a quasi volesse sapere in cosa si stava cacciando.

Mi ricordava il nostro orfanotrofio di Haiti e i bambini che all’arrivo di un visitatore chiedevano: «Quanto rimani?» come se avessero dovuto calcolare quanto affetto dispensare. Tutti loro erano stati abbandonati, lasciati lì a fissare il cancello con gli occhi pieni di lacrime, in attesa che qualcuno tornasse per riportarli a casa. Era successo a Chika. La persona che l’aveva portata se n’era andata il giorno stesso. Quindi forse è questo che intende dire. Puoi dimenticare le persone che ami. O perlomeno non tornare a prenderle.

Guardo di nuovo il calendario. È passato davvero un anno da quando se n’è andata? Sembra ieri. Sembra un’eternità.

E va bene, Chika, dico. Comincerò a scrivere.

«Evvai!» esulta, agitando i pugni.

A una condizione.

Smette di agitare i pugni.

Devi stare qui mentre lo faccio. Devi restare con me, okay?

So che non può fare quello che le sto chiedendo. Eppure mercanteggio. È tutto quello che mia moglie e io vogliamo, da quando Chika se n’è andata: essere vicini a lei, sempre.

«Raccontami la mia storia», dice Chika.

E resterai?

«Ci provo.»

Va bene, dico. Ti racconterò la storia di te e me.

«Noi», dice lei.

Noi, dico.

a. A.A. Milne, La strada di Winnie Puh, Salani Editore, Milano 2010, p. 180 (N.d.T.).

Chika
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