Tu
BENE.
Come faccio a spiegarlo?
La parola creola per «testa» è tèt. Questo lo sai, ovviamente. Gli haitiani la usano in molte espressioni. Per esempio tèt vire (testa che gira), che significa «avere le vertigini», o tèt ansanm (teste insieme), che vuol dire «unità», o ancora tèt frèt (testa fredda), che significa «calmo».
O tèt chaje (testa pesante), che vuol dire «guaio».
Forse non conosci quest’ultima espressione, Chika, ma è adatta alla tua storia, perché quando sei arrivata da noi eri perfetta – polmoni, pancia, cuore –, ma poco più su del collo, nella parte del cervello che chiamano «ponte», eri tèt chaje, una testa appesantita da qualcosa. E quel qualcosa si sarebbe rivelato un bel guaio.
Il primo giorno ad Ann Arbor, ti fecero un’altra risonanza magnetica. Questa volta niente sciroppo né lunghe attese. Prendemmo un ascensore per andare in una stanza asettica e ben illuminata, dove ti misero dentro un cilindro gigantesco mentre dagli altoparlanti usciva della musica. Tornammo a casa in tempo per l’ora di cena.
Ma quando arrivarono i risultati, i dottori dissero la stessa cosa del neurologo haitiano: un invasore aveva preso possesso del tuo cervello, una zona ragguardevole, anche se non ben definita. Non sarebbe dovuto esserci, su questo erano d’accordo, e l’idea era di toglierlo. Ma discussero se valeva la pena di rischiare.
Passarono i giorni. Alla fine, i dottori del «consiglio del tumore» si riunirono e fecero una votazione perché, proprio come succedeva con le decisioni che prendevamo all’orfanotrofio, dovevano essere realistici con le persone che si rivolgevano a loro. Cinque su otto votarono sì, il che significava che avrebbero fatto l’intervento. Cercavo di non pensare ai tre che avevano votato no.
Volevamo prepararti a quello che sarebbe successo. Ma all’epoca il tuo inglese non era quello che sarebbe diventato e il mio creolo era così così, e in ogni caso la signorina Janine e io decidemmo di non volerti fare un corso accelerato di chirurgia cerebrale come invece era toccato a noi. Magari abbiamo preso la decisione giusta, magari no. Io penso di sì. Avevi cinque anni e noi volevamo che tu fossi una normale bambina di cinque anni, così non ti mostrammo disegni di lobi e ventricoli.
La mattina dell’operazione ci svegliammo presto, ti abbracciammo e ti baciammo come facevamo sempre e cantammo una canzone del buongiorno mentre tu ti vestivi nel buio che precede l’alba. Ti spiegammo che saremmo andati nel posto con Superman, dove i dottori ti avrebbero aiutata a stare meglio. Tu sbadigliavi. Scegliesti una bambola da portare con te. Ti misi sul seggiolino dell’auto.
Ed esattamente cinque anni, cinque mesi e sei giorni dopo essere venuta al mondo in quella casa di blocchi di cemento vicino all’albero del pane, entrasti nell’imponente Mott Children’s Hospital, dove ci assegnarono una stanza e ti portarono un camice azzurrino con sopra degli orsetti che ballano. La signorina Janine ti aiutò a cambiarti.
A un certo punto nel corridoio mi fu chiesto di firmare i documenti per il consenso. C’erano grafici e spiegazioni. Ricordo soprattutto la parte sul «rischio». Rischio di coaguli del sangue. Rischio di trasfusioni. Rischio di possibili effetti collaterali, tra cui «morte». Mi sforzai di passare oltre in fretta, dicendomi che erano avvertimenti necessari ma altamente improbabili, l’onnipresente remota possibilità che piova in un giorno di sole.
Due ore dopo eri in sala operatoria, sotto anestesia. Furono preparati gli strumenti. Dottori e infermiere ti circondarono. Finalmente, un neurochirurgo di nome Hugh Garton, un uomo magro e muscoloso che nel tempo libero scala le montagne, aprì la tua preziosa testolina e osservò di persona l’invasore.
Impiegò molto tempo ad attaccarlo e a cercare di rimuoverlo, ore, davvero, un po’ qui, un altro po’ là, ma era così aggrovigliato con parti importanti del tuo cervello che non riuscì a toglierne tanto; era come L’allegro chirurgo con cui giocano i bambini della missione, quello in cui se tocchi il bordo fai scattare il segnale sonoro.
Il dottor Garton rimosse circa il dieci per cento della massa, poi scelse la prudenza e si fermò. Ti misero i punti e ti portarono in barella nell’area risveglio.
Per tutto questo tempo la signorina Janine e io aspettammo nell’atrio gigantesco, con un cicalino che si illuminava con aggiornamenti regolari. A ogni nuovo messaggio scattavamo in piedi come molle.
Finalmente, nel tardo pomeriggio comparve la scritta INTERVENTO CONCLUSO. Un’ora dopo ci fu permesso di vederti. Dormivi su un fianco, eri così piccola, occupavi solo metà della barella, avevi tubi e fili attaccati al corpo e una grossa fasciatura bianca intorno alla testa.
Sentii un tuffo al cuore.
Di tutti i momenti passati in ospedale insieme, Chika, quello fu forse il peggiore perché fino ad allora – nonostante le risonanze magnetiche, i consulti, persino la firma dei documenti del consenso – non avevo ancora afferrato fino in fondo la gravità della tua situazione. I primi giorni passati con noi eri stata allegra, mi rincorrevi per casa, e io mi ero lasciato prendere da quella spensieratezza.
E adesso eccoti lì, così minuscola su quella barella, messa fuori combattimento dall’anestesia, circondata dai monitor. Ti avevano aperta e avevano lavorato per ore, ma nessuno diceva: «L’abbiamo tolto tutto». Non c’era sollievo, solo altre domande, e ancora altri giorni in attesa del referto istologico. Ci dissero che per un po’ avresti avuto male e che anche con i farmaci dovevamo aspettarci delle difficoltà.
Avevo lo sguardo perso nel vuoto. Gli avevo permesso di farti questo. Avevo dato il mio consenso. Il pensiero che le mie decisioni in qualche modo ti avrebbero fatta soffrire mi provocava un nodo allo stomaco.
Fu anche una lezione di umiltà, Chika. Forse è difficile da capire. Ma fino a quel momento avevo continuato a credere, stupidamente, di avere il controllo delle cose – con te, con gli altri bambini –, manco fossi il Superman di quell’atrio d’ospedale. Ero forte, avevo risorse. Se non sapevo qualcosa, potevo imparare e andare avanti. I nostri bambini erano piccoli. Io ero l’adulto. Ero in grado di risolvere qualunque cosa.
Quel giorno, in piedi accanto a te, alle prese con il primo problema medico serio nei cinque anni da che dirigevo l’orfanotrofio, di quella sensazione di controllo non rimaneva nulla. Al suo posto c’era un senso di inquietudine. Eri più piccola di me, vero. Ma cosa sarebbe successo se quel problema si fosse rivelato più grande di entrambi?