Io
SONO andato all’università con diversi compagni poi diventati medici. Mi ricordo di aver parlato con uno di loro negli anni Ottanta, quando imperversava l’AIDS. Dissi qualcosa a proposito del fatto che la malattia sembrava impossibile da sconfiggere.
«Troveranno una cura per l’AIDS prima di quella per il cancro», rispose il mio amico.
Quelle parole mi rimasero impresse. Anni dopo, mentre mi spiegava il mondo della SLA, Morrie Schwartz disse qualcosa di simile. «Troveranno una cura per la SLA prima di quella per il cancro.»
Il cancro incombe come una nube minacciosa da quando ho memoria, insondabile e tirannico. Ho visto mio zio morire di tumore al pancreas a quarantaquattro anni… quando io ne avevo ventuno. Mio fratello ha iniziato la sua lunga battaglia contro il cancro ad appena ventinove anni. La sorella di Janine, Debbie, ha lottato per quindici anni contro un tumore al seno, prima di soccombere senza aver mai deposto le armi. L’abbiamo seppellita a cinquantasei anni.
Ma un bambino? Un tumore al cervello di grado quattro? Non era una battaglia per cui ero preparato. Perciò la mia educazione in materia è stata rapida e illuminante. Spesso mi faceva arrabbiare. Conoscevo già l’incredibile efficacia della chemioterapia e il fatto che tale efficacia portava a un’insistenza insidiosa per quella cura: quando i pazienti proponevano un altro approccio, i medici potevano rivelarsi sprezzanti e liquidare le alternative come rischiose, indimostrate, addirittura come ciarlataneria.
Janine e io eravamo tutto tranne che dei medici. Ma una cosa la sapevamo: con il DIPG non c’era alcuna prova che la chemio fosse efficace.
Bisognava trovare un altro modo di scalare la montagna.
«Sapeva», mi chiese il dottor Mark Souweidane in occasione di una visita al Memorial Sloan Kettering Hospital di New York, «che quando trattiamo un tumore al cervello somministrando chemio tramite una flebo, solo il tre per cento dei farmaci raggiunge davvero l’obiettivo? Esiste una cosa chiamata ‘barriera emato-encefalica’, una membrana molto selettiva rispetto a ciò che lascia passare. Il resto si limita a rimanere nel circolo sanguigno.»
Quella era una novità… oltre che un solido argomento contro la chemioterapia convenzionale. Perché scoccare frecce a caso per cercare di centrare uno spillo?
Souweidane, un uomo alto e riflessivo con i capelli tagliati cortissimi, era deciso a trovare un modo migliore. Era cresciuto in Michigan con una passione per aggiustare le cose. Aveva cominciato a lavorare sul DIPG all’inizio della sua carriera. Pensava che l’avrebbe sconfitto «in due anni».
Venticinque anni dopo, stava ancora mettendo a punto un piano di battaglia. Aveva avviato il trial clinico di una cosa chiamata «convection-enhanced delivery» (CED). Detto in maniera semplice, questa tecnica consente di arrivare molto più vicino al problema inserendo un catetere nel tronco encefalico, per somministrare lentamente farmaci antitumorali direttamente all’interno della massa tumorale.
L’approccio era rischioso. Come lo è sempre mettere qualcosa direttamente nel cervello. E dato che era una sperimentazione, implicava un mucchio di scartoffie, accettare di essere studiati e numerosi viaggi a New York per i follow-up. E nessuna garanzia.
Ma questo era un medico appassionato e partecipe, che studiava proprio il DIPG, e Chika era adatta al suo programma. Se veramente volevamo scalare questa montagna, se, per dirla con le parole di Janine, «Perché non potrebbe essere la prima?» avremmo dovuto battere una nuova pista.
Prenotammo l’albergo.
Preparammo la valigia.
Andammo a New York.