Noi
«SIGNOR Mitch?»
Sì?
«New York non mi piaceva tanto.»
La odiavi. Mi avevi detto così.
«Adesso non odio le cose.»
Si gira sulla schiena.
Be’, all’inizio ti piaceva.
«Mi piaceva quel negozio di giocattoli grandissimo.»
Certo che ti piaceva.
«Ma non l’ospedale.»
Alla maggior parte della gente non piacciono gli ospedali.
«Perché mi avete portata lì?»
A New York?
«Ha ha.»
Mi spingo indietro sulla poltroncina. Ci penso su un momento.
Speranza, dico. Sai cosa significa? Speranza? È una buona ragione per fare qualcosa?
«Sì», sospira, girandosi a pancia in giù. «È una buona ragione.»
Quando andammo a New York, Chika si era ormai abituata ai viaggi in aereo. Porgeva il biglietto agli addetti alla sicurezza. Marciava attraverso il metal detector con le sue scarpe da ginnastica con le lucine. Spesso aveva bisogno del bagno, e se viaggiavamo senza Janine, la portavo alla toilette delle donne dell’aeroporto e restavo fuori buono buono, guardando l’orologio.
Una volta ci stava mettendo tanto. Cominciai a preoccuparmi. Una donna di mezza età con un lungo soprabito vide che mi agitavo e disse: «Posso aiutarla?» Le spiegai la situazione, così lei entrò gentilmente nella toilette e urlò: «C’è Chika qui?»
Una lunga pausa.
«Chi mi vuole?»
Trattenni un sorriso.
«C’è un uomo che ti aspetta fuori», disse la donna.
«Lo so! Lo so!» urlò Chika di rimando. «È il signor Mitch!»
Quando riemerse, mise la sua manina nella mia, con le dita umide dopo essersele lavate. «Dovevo fare la cacca», disse e ci avviammo.
Rileggendo queste parole mi rendo conto che certe volte, data la sua personalità, era facile dimenticarsi della malattia di Chika, e quel primo anno ci furono momenti in cui quasi ce ne scordammo. Era così allegra, vitale, e aveva una tale scorta illimitata di energia che un osservatore esterno non avrebbe mai detto che ci fosse qualcosa che non andava. Persino quando il suo viso e il suo corpo cambiarono, si guardava meravigliata nello specchio e faceva dondolare i suoi nuovi fianchi carnosi. Molti bambini avrebbero almeno chiesto perché ingrassavano. Ma l’autostima di Chika era granitica. Nulla di ciò che vedeva nello specchio pareva in grado di scalfirla.
Eppure c’erano parole che continuavano a ossessionarmi. La luna di miele. Dormiente ma sempre lì. Erano state in primo luogo quelle parole a spingerci a New York. Non volevamo tenere a bada il tumore; volevamo sradicarlo.
La sera prima della proceduta CED, Janine e io la portammo in una Times Square affollata. Lei rimaneva a bocca aperta davanti ai giganteschi cartelloni pubblicitari e alle luci al neon. In mezzo alla folla circolavano senza problemi persone travestite da Uomo Ragno, Olaf e Buzz Lightyear, e lei gli correva incontro per parlarci. Mentre ce ne stavamo andando, uno di loro si tolse l’enorme testa da pupazzo e si passò le mani tra i capelli madidi di sudore. «Ehi!» squittì Chika. «C’è un uomo dentro Topolino!»
Più tardi entrammo nel gigantesco negozio di giocattoli Toys «R» Us, che aveva tre piani e ospitava al suo interno una ruota panoramica in miniatura. Ci stringemmo su un seggiolino rosa. Chika rise quando iniziò a muoversi, ma mentre saliva si strinse forte a Janine con un gridolino spaventato.
Anche noi eravamo nervosi. Qualche ora prima avevo firmato altri moduli sui rischi dell’intervento cui sarebbe stata sottoposta. Questa volta tra i potenziali esiti c’erano «paralisi» e «morte». Li aveva firmati anche il dottor Souweidane, che riponeva grandi speranze in quel trial clinico e aveva usato la parola «elegante» per descrivere la scienza della ricerca sul cancro.
Poi disse che voleva chiedermi una cosa e io risposi, va bene. Mi spiegò che era affascinato dalle motivazioni delle persone e voleva sapere perché avevo scelto di fare quello che facevo, ovvero portare Chika da Haiti, pagare tutte le spese mediche (all’inizio, senza assicurazione sanitaria, avevamo dovuto pagare di tasca nostra la maggior parte delle cure), esplorare tutte quelle opzioni, quando non era mia figlia.
Fui colto alla sprovvista. Fino a quel momento nessuno mi aveva chiesto: «Perché?» Credo di aver risposto che non l’avevo mai considerata una scelta. E che non importava di chi fosse figlia.
Però adesso avevo anch’io una domanda per lui: perché certi medici, esperti della lotta contro i tumori, ti consigliavano in un certo modo e altri, altrettanto esperti, in un altro?
Lui accavallò le gambe e annuì, come se avessi appena fatto scattare il cilindretto di una serratura. «La verità è che non lo sappiamo. Anche in questa sperimentazione, non so se quello che sto usando è l’agente giusto. Nessuno lo sa. Ma non possiamo rimanercene seduti qui come abbiamo fatto per decenni, a fare sempre la stessa cosa.»
Quella sera in albergo, mentre ci preparavamo per andare a letto, mi ritrovai a studiare Chika, pensando al peggio: e se qualcosa va storto? E se è l’ultima sera che le parliamo? Il dottor Souweidane era stato chiaro: bastava un errore nell’inserimento del catetere e la bambina che conoscevamo se ne sarebbe andata.
«Signor Mitch, perché mi guardi?» chiese alla fine Chika. Non potevo dirle la verità: che stavo cercando di imprimermela nella mente. Che stavo pensando che eravamo stati benedetti con la bambina più bella del mondo nelle circostanze peggiori.
Invece mi strinsi nelle spalle e borbottai: «Scusa».
Lei scosse la testa, stringendo le labbra quasi avesse dato un morso a uno di quei famosi limoni invisibili.
«Non fa niente», decise. «Puoi guardare.»
Il mattino dopo Chika fu portata in una sala operatoria che era appena spuntata l’alba. Janine e io ci sedemmo in sala d’aspetto e passammo il tempo con caffè tiepido e snack mangiucchiati a metà. Leggemmo. Guardammo l’orologio. Ci alzammo per sgranchirci le gambe. Il procedimento CED era come pianificare un viaggio nello spazio. Ci volevano ore di lavoro con modelli computerizzati per stabilire il percorso del catetere nel cervello. La precisione era fondamentale. Non bisognava avere fretta.
Finalmente, nel primo pomeriggio comparve il dottor Souweidane, sollevato di poterci dire che finora era andato tutto liscio. Potevamo vedere Chika, che dormiva su una barella, con un’ampia porzione di cranio rasato sopra la fronte. Dal cranio le spuntava un tubo, fissato con un bullone. Ci dissero che sarebbe dovuto rimanere lì fino a dodici ore per permettere la lenta somministrazione di un anticorpo con iodio radioattivo direttamente nel tumore.
Ci dissero che data la potenza di quel farmaco, se volevamo passare la notte con Chika avremmo dovuto dormire dietro una mezza parete rivestita di piombo, per proteggerci dalle radiazioni. Dovevamo anche portare piccoli apparecchi per monitorare l’esposizione. Ci avvertirono di non avvicinarci troppo, e mai per più di qualche secondo. Sembrava di essere in una centrale nucleare e che Chika fosse diventata radioattiva.
Anche se ci incoraggiarono a dormire altrove, né Janine né io volevamo lasciare sola Chika. Lei lotta; noi lottiamo. Così ci buttammo sulle poltrone dietro la parete rivestita di piombo, promettendoci di avvertirci se uno dei due diventava luminoso. Scese la notte, e fu lunghissima.