Noi

«SIGNOR Mitch?»

Mmm?

«Poi cos’è successo?»

Mmm?

«All’ospedale.»

Mi accorgo di essermi imbambolato con lo sguardo fisso sulla metasequoia fuori dalla finestra, che nei mesi estivi ha uno straordinario fogliame giallo. È l’unico albero giallo del nostro giardino e stavo cercando di ricordare se l’abbiamo piantato noi o se c’era già quando abbiamo comprato la casa, venticinque anni fa.

«Non impooorta», dice Chika agitando una mano.

No, va bene, rispondo. Me l’hai chiesto. Dovrei raccontartelo. È solo che questa parte non mi piace.

«Come mai?»

Perché erano brutte notizie.

«Naah.»

Non erano brutte notizie?

Scuote la testa: no.

* * *

Come fa a dirlo? Non le ho mai raccontato questa storia, di quando Janine e io entrammo in una saletta di consultazione, qualche giorno dopo l’intervento.

Chiunque abbia fatto l’esperienza di quel lasso di tempo tra quando non sai ancora una cosa terribile e quando la sai, vi confermerà che è letteralmente un momento di svolta, e ciò che è fondamentale è quello che decidi dopo; perché si può interpretare una diagnosi in molti modi, come una maledizione, una sfida, una fatalità, una prova mandata da Dio.

Quella mattina Janine e io speravamo, sulla base delle analisi precedenti dei medici, che la massa nel cervello di Chika fosse curabile. Dalle risonanze magnetiche risultava indistinta. E i campioni congelati rimossi durante l’intervento non erano eccessivamente allarmanti. Si sperava che fosse un tumore di grado uno, quello più facile da affrontare, ma eravamo preparati anche a un grado due, che – ci avevano avvertiti – avrebbe richiesto la radioterapia e controlli protratti nel tempo.

E invece il dottor Garton entrò nella sala, si sedette e in tono gentile ma diretto ci disse che le notizie non erano buone, peggio di quanto pensassero, che Chika aveva una cosa chiamata «glioma pontino intrinseco diffuso», o DIPG. Quando chiesi se fosse di grado uno o due, lui rispose che era di grado quattro.

Quattro?

Iniziò a elencare le opzioni, che comprendevano radioterapia e medicinali in fase sperimentale, ma tutto ciò che riuscii a sentire fu «quattro». Quattro? Ebbi la sensazione di cadere, anche se ero seduto. Quattro? Continuai ad aspettare di sentire la parte in cui i chirurghi avrebbero operato di nuovo e tirato via il mostro, ma non arrivò mai. A quanto pareva, se lo avessero fatto, non sarebbe rimasto cervello sufficiente per funzionare.

Quattro?

«Mi dispiace tantissimo dovervi dare queste notizie», disse il dottor Garton. Ci rivelò alcune verità terrificanti sul DIPG: negli Stati Uniti si verificavano solo trecento casi all’anno circa; in genere colpiva i bambini dell’età di Chika, fra i cinque e i nove anni; li debilitava in fretta, compromettendo la capacità di camminare, la mobilità e la deglutizione. E per finire: il tasso di sopravvivenza era pari a zero.

Eravamo scioccati. Mentre il dottor Garton elencava le opzioni, ricordo di aver chiuso la bocca con un gesto deliberato, perché era rimasta spalancata, e di essermi reso conto che c’era dell’altro, oltre alla sensazione che il soffitto mi fosse crollato sulla testa; si aspettavano che prendessimo una decisione. Ecco perché ci stavano dando quelle informazioni terrificanti.

Una decisione? Sulla vita di Chika? Era appena arrivata in America, da… quanto? Qualche settimana? Le avevamo comprato le scarpe. Le avevamo chiesto se le piacevano le uova strapazzate. Sarebbe dovuta rimanere un paio di mesi, curata dalla nostra miracolosa medicina americana, e poi tornare all’orfanotrofio. Una decisione riguardante la sua vita?

Janine e io ci guardammo.

«Cosa farebbe se fosse sua figlia?» farfugliai, ricorrendo a quel gioco delle tre carte consistente nel rimbalzare la palla ai medici.

«Be’», disse il dottor Garton con un sospiro, «probabilmente la riporterei ad Haiti, le farei godere l’estate, la lascerei stare con i suoi amici, fino a che…»

È in quel «fino a che» che sta tutto l’orrore.

Vedevo Janine sull’orlo delle lacrime. Mi sentii sprofondare. Mi affrettai a fare la domanda prima che mi mancasse il coraggio.

«Quanto le resta?»

«Forse quattro mesi», disse piano. Poi aggiunse: «Forse cinque», anche se penso che lo abbia detto solo per attutire il colpo del quattro. Quattro. Un altro quattro. Disse che la radioterapia avrebbe potuto ampliare quell’arco temporale, forse raddoppiarlo, anche se la sua «qualità della vita» avrebbe potuto risentirne, e lui personalmente non gliel’avrebbe fatta fare, perché sarebbe dovuta rimanere qui anziché tornare a casa e alla fine non avrebbe fatto la differenza.

In genere sono incline ad ascoltare il consiglio dei medici. Rispetto il loro sapere e la loro competenza. Ma quando disse «qualità della vita» sentii scattare qualcosa. Eccoci lì, seduti in un fantastico ospedale di una ricca città degli Stati Uniti. La «qualità della vita», per come la intendevamo noi, aveva ben poco a che fare con il Paese in cui era nata Chika, con la sua durezza, che le scorreva fin nelle vene. Appena nata era sopravvissuta a un terremoto, aveva dormito nei campi di canna da zucchero, aveva perso una madre che non aveva quasi fatto in tempo a conoscere ed era già stata sballottata tra quattro case diverse: l’idea di rimandarla indietro ad aspettare la morte mi sembrava crudele. Mi scoprii sulla difensiva, come il manager di un pugile che viene preso sottogamba.

«È una combattente», dissi alla fine guardando Janine, che annuì. «E se lei lotta, noi lottiamo.»

Il dottor Garton si appoggiò allo schienale della sedia. «D’accordo», disse.

Dopodiché, per un po’ rimanemmo tutti lì seduti, a fissare in silenzio un piano di battaglia invisibile.

«Urrà!»

Chika batte le mani.

Cosa? dico.

Mi rendo conto di aver parlato ad alta voce, raccontandole la storia che non volevo raccontarle.

«Urrà!» ripete.

Perché batti le mani? Perché ti ho raccontato la storia?

Nessuna risposta.

Perché abbiamo scelto di lottare?

Nessuna risposta.

Perché, Chika?

Si alza in piedi e mi prende le mani. Me le unisce.

«Batti le mani per noi, signor Mitch!»

Giro i palmi, perplesso.

E se n’è andata di nuovo.

Chika
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