ANCHE se Chika è coraggiosa con quasi tutti i trattamenti medici, è ancora terrorizzata dagli aghi. Li chiama «picchini». Non ha problemi con la risonanza magnetica, le radiazioni, neppure con un catetere nel cervello. Ma il suo sguardo corre all’ago nonostante gli strenui tentativi dell’infermiera di nasconderlo, nonostante io le culli la testa dicendo: «Gade mwen, Chika», guarda me. È come se non potesse fare a meno di guardare.
A peggiorare le cose, è una di quelle persone a cui è difficile prelevare il sangue. Le vene non si trovano. L’infermiera dice che ha le «vene difficili». Questo vuol dire che devono continuare a rifare la cosa che lei odia più di tutte.
Chika ha iniziato l’Avastin, un farmaco che «affama» il tumore. Per somministrarlo serve una flebo nel braccio. È sempre stato difficile. Ma nel giugno del 2016, a oltre un anno dalla diagnosi, è diventato impossibile. Non riescono a trovare una vena.
Ricordo un’occasione in cui provano due volte con il braccio sinistro: le stringono il laccio emostatico color senape sul bicipite, passano il tampone imbevuto di alcol, la pungono. Niente da fare. Lei urla. Passano al braccio destro: stringono il laccio, trovano un punto, sfregano l’alcol, pungono di nuovo.
«Niente», borbotta un’infermiera.
Chiamano una specialista di vene. Lei avvolge una compressa calda attorno alla mano di Chika. Picchietta sulla pelle. Non trova la vena. Prova con l’altra mano. Ripete il procedimento. «Possiamo fare solo quattro tentativi», dice.
Alla fine inserisce un ago a due centimetri dal polso di Chika, che si mette a urlare.
«Falli smettere!» grida.
«Hanno quasi fatto, tesoro, ci siamo quasi.»
«Falli smettere, signor Mitch!»
Ho il cuore che batte impazzito. Li imploro di finire. Finalmente la flebo parte. Ma qualche istante dopo nel tubicino c’è del sangue. La specialista aggrotta la fronte.
«Che succede?» chiedo.
«Le abbiamo rotto la vena.»
Radunano l’attrezzatura e si sforzano di sorridere mentre se ne vanno. Questo è quanto. Niente chemio, oggi. Un’infermiera va a cercare qualcuno che mi parli della possibilità di inserire un port nel petto di Chika, un catetere venoso sottopelle, perché, dice: «La situazione non migliorerà».
Danno a Chika un adesivo dei cartoni animati. Lei lo ignora. La prendo in braccio. Ha le guance chiazzate di lacrime. Mi dà la mano, sporca di moccio, e piagnucola qualcosa che finora non aveva mai detto.
«Voglio tornare ad Haiti.»