Io

DOVREI raccontarti da dove mi vengono le mie idee della paternità, Chika.

Mio padre era un brav’uomo. Ha vissuto fino a ottantotto anni. L’hai visto una volta, quando era ormai grigio, ingobbito e confinato su una sedia a rotelle. Ma quando era più giovane, assomigliava parecchio a come sono io adesso, anche se aveva le basette più folte e si pettinava i capelli all’indietro come usava una volta.

Si chiamava Ira ed era cresciuto a Brooklyn, un figlio di mezzo, come me, tra una sorella e un fratello. Suo padre, mio nonno, era un immigrato polacco, un idraulico, che aveva insegnato al figlio a lavorare con le mani solo finché non avesse potuto lavorare con il cervello. Mio padre fece le superiori, andò all’università, poi entrò in aviazione e infine trovò lavoro come contabile. Non era uno che si perdeva via.

Mio nonno era silenzioso e mio padre avrebbe seguito il suo esempio, e noi, i suoi figli – mio fratello, mia sorella e io – siamo cresciuti aspettandoci che le parole che gli uscivano di bocca avessero un peso. Non ricordo che abbia mai parlato a lungo di qualcosa. Diceva quello che doveva dire e basta. Aveva una profonda voce baritonale (aveva sognato di fare il cantante d’opera) che faceva suonare seria anche l’osservazione più banale. Era quasi sempre serio.

Mio padre era un uomo mattutino, appassionato di caffè e di musica jazz, uno che leggeva il giornale, un uomo paziente, laborioso e impeccabilmente ben vestito. I suoi abiti erano sempre stirati alla perfezione e portava la camicia dentro i pantaloni, anche il sabato e la domenica. Ci preparava uova strapazzate con il salame, di cui andavamo pazzi, e insalata di tonno, che schiacciava con tanta cura che potevi spalmarla come burro. Non ha mai cercato attenzioni. Non aveva hobby che lo facevano stare lontano da noi. Né il golf, né le carte. Aveva abbracciato il sistema di valori che gli avevano insegnato, cioè che un uomo deve provvedere alla sua famiglia e che la sua felicità consiste nel farlo.

Ma sotto all’efficienza c’era un’aura calda e protettiva, un’anima su cui gli altri potevano contare. Quando il padre di mia madre morì d’infarto – lei all’epoca aveva sedici anni – fu mio padre, solo diciassettenne, ad assumere la guida della famiglia. Anche se uscivano insieme da meno di un anno, lui preparava la colazione per la famiglia di mia madre, sbrigava commissioni il pomeriggio e divenne un padre per il fratello minore di mia mamma. Una grande responsabilità per un ragazzo ancora alle superiori, ma se avessi conosciuto mio padre, avresti detto che era nelle sue corde. Fino a dove arriva la mia memoria era la persona a cui gli altri si rivolgevano per avere un consiglio, un aiuto o del denaro. Non si sottraeva a queste richieste, ma con il passare degli anni mi sono chiesto se non gli fosse mancato avere una giovinezza più spensierata. Certe volte la vita ti mette le briglie prima che tu sia pronto a correre. In ogni caso, non si è mai lamentato.

Mi sono sempre sentito al sicuro vicino a lui. Ricordo una volta che nuotavamo assieme in un lago vicino a casa, dovevo avere sei anni. Ci andavamo nelle giornate estive, come molte famiglie, e io andavo in esplorazione, come fanno i bambini.

«Non allontanarti troppo, adesso», disse mio padre, ma io continuai a nuotare finché ebbi la sensazione di essere arrivato in acque sconosciute. D’un tratto dei ragazzini più grandi che facevano gli scemi mi indicarono e gridarono: «Prendiamolo!» Non so cosa li motivasse, o quanto parlassero sul serio, ma ricordo il terrore, l’acuta consapevolezza di quanto mi ero allontanato da mio padre. Nuotai come non avevo mai nuotato, sbattendo freneticamente braccia e gambe, bevendo, certo che i ragazzini mi avrebbero afferrato le gambe per trascinarmi in qualche prigione subacquea. Quando raggiunsi mio padre, gli avvolsi le braccia intorno alla vita, ansimando forte. Poi sbirciai dietro di lui, e i ragazzini erano spariti.

Mio padre non si mosse neanche. Non mi chiese cosa fosse successo. Ma ancora oggi riesco a sentire la sua vita sotto le mani bagnate, e la consolazione che provai. Per molti anni la mia idea della paternità fu questa, quella di un posto dove un bambino può andare a rifugiarsi. Forse è per questo che presi la direzione dell’orfanotrofio. Forse in quel modo avevo finito per assomigliare a mio padre.

* * *

Come ho detto, una volta l’hai visto, Chika, quando siamo andati a trovarlo nella sua casetta a un piano in California. Ricordi? Era passato meno di un anno dalla morte di mia madre e lui era così abbattuto, più di quanto riesca a dire, persino più che dagli ictus che gli avevano portato via l’uso delle gambe e gli impedivano di parlare chiaramente. Erano stati sposati sessantaquattro anni; la morte di mia madre gli aveva spezzato il cuore. Speravo che conoscerti avrebbe potuto risollevarlo un po’.

Quando arrivammo, dissi: «Chika, lui è mio papà», e ti vidi esitare, forse stupita che avessi un papà. Però lo hai abbracciato e lo hai chiamato «papi papi». Lui notò la tua fascia a fiori per i capelli e disse debolmente: «Molto carina».

Più tardi eri seduta sul divano del salotto a giocare con la sua infermiera. Facevi la sciocchina e strillavi un sacco, e lui si girò verso di me e disse: «Parecchio rumorosa, eh?» Cercai di ricordargli la tua storia, la malattia, tutte le cure che stavamo provando. Gliene avevo parlato tante volte al telefono, ma non sapevo mai cosa ricordava. Ai vecchi tempi, mio padre reagiva sempre in maniera ponderata. Verso la fine più che altro si stringeva nelle spalle. La vecchiaia è una gran ladra.

Mentre ti guardavamo giocare, accennai al fatto che eri con noi già da sei mesi.

«Non avevo idea che fosse così faticoso», dissi.

Lui tossì e si raddrizzò sulla sedia a rotelle. Non ero sicuro che mi avesse sentito. Poi, con una vocina esile, disse: «Avere figli è così».

* * *

Quando mio padre è morto, Chika, mi sono sentito completamente disorientato, in preda all’angoscioso desiderio di un conforto che non potevo più avere. Mi manca più di quanto avrei mai immaginato, e mio fratello e mia sorella mi hanno detto la stessa cosa. È stato più apprezzato quando non era più con noi, a fare tutte quelle cose che avevamo dato per scontate.

Dicono che invecchiando assomigli sempre di più ai tuoi genitori. Forse è vero. Se è così, se ti ho offerto la sicurezza nel modo in cui me l’ha offerta mio padre, allora ne sono felice. So di averci provato. Ricordo le volte in cui camminavamo insieme e senza preavviso tu infilavi le tue piccole dita tra le mie. Mi piacerebbe dirti che sensazione provavo, ma le parole non bastano.

Posso solo dire che mi faceva sentire padre, e quasi tutto quello che ho imparato di questo ruolo l’ho imparato dall’uomo che mi ha cresciuto, e il resto l’ho imparato da te. Forse non è una coincidenza che il giorno in cui l’abbiamo seppellito è stato quello in cui sei tornata da me. Ci penso tantissimo, a questo.

A proposito, ho parlato di quelle fasce per i capelli. Ne avevi un sacco. Colorate, con i pois, tutte con una grossa molletta a forma di fiore che mettevamo sul lato sinistro della fronte, per nascondere la chiazza senza capelli dove i medici ti avevano rasato la testa. Quella chiazza l’avevi scoperta per caso il giorno dopo la procedura CED allo Sloan Kettering.

Il dottor Souweidane ci disse che era andato tutto bene. L’agente radioattivo si era diffuso ampiamente nel tumore. Adesso dovevamo solo aspettare che facesse effetto. La signorina Janine e io eravamo crollati sulle sedie dell’ospedale. Tu dovevi andare in bagno. La signorina Janine si alzò faticosamente e ti ci portò, ancora mezza addormentata.

All’improvviso sentii un urlo.

«Ehi! Cos’è successo ai miei capelli?»

Ci eravamo dimenticati dello specchio.

«Ehi!» avevi continuato a strillare. «Ehi, ragazzi!»

Più che arrabbiata eri sconcertata. Ti passavi una mano sulla testa, dicendo che dava una sensazione strana. Ti trovammo un cappello di lana e a te piacque e lo indossasti con il pigiama dell’ospedale, finché recuperammo quelle fasce con i fiori, che ti piacevano ancora di più. Nei mesi successivi non uscivi mai senza. Sulla fascia mettevi uno, due o tre fiori, e poi magliette decorate, leggings colorati, un cappotto di pelliccia e scarpe con le lucette. Nessuno sapeva della chiazza senza capelli. Eri una figuretta abbagliante.

Chika
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