Io
A MANO a mano che mi immergo più profondamente in queste pagine, scopro di sentirmi sempre peggio fisicamente. Mi formicolano i piedi. Ho le mani sudaticce, la testa pesante e le vertigini. Una mattina che sono seduto alla tastiera inizio a tremare, mi si accelera il battito cardiaco e la fronte mi si imperla di sudore. Mi si intorpidisce una guancia. Mi chiedo se non sto per svenire o, peggio, se non stia per venirmi un ictus.
Succede parecchie volte. Vado dai medici. Gli esami sono a posto. Risonanza magnetica. Elettrocardiogramma. Analisi del sangue. Mi dicono di bere più acqua, di diminuire la caffeina, di dormire. Di non stare tante ore ingobbito sul computer a scrivere questa storia, visto che la mia spina dorsale, le anche e il collo ne pagano il prezzo. Ma continuo a sentirmi fuori fase, certe volte il sangue mi romba nelle orecchie e sono angosciato come un uomo che aspetta il verdetto di una giuria.
Janine ha una sua diagnosi. «Stai seduto lì ogni santo giorno a rievocare un periodo difficilissimo. È una questione emotiva. Sei in lutto. Non devi stupirti se il tuo corpo reagisce.»
«Ma perché adesso?» ribatto. «Sono già venuto a patti con tutto questo, no?»
Janine mi guarda come se fossi un ingenuo.
«La amavi, Mitch.»
Non dice altro.
Ed è questo che rende così difficile raccontare quest’ultima parte.
Avevamo una routine dell’amore, Chika e io. Non so bene quando sia iniziata. Se sembrava triste, mi mettevo davanti a lei e le dicevo: «Chika, oggi ti ho già detto quanto ti voglio bene?»
Sapendo cosa sarebbe successo dopo, lei faceva la timida.
«Nooo», rispondeva.
«Tanto così!» le dicevo, allargando le braccia. Tutte le settimane le allargavo di più, perché sapevo che lei prendeva le misure. Con il passare del tempo arrivai ad allacciarmi le braccia sulla schiena, girandomi per fargliele vedere.
«Tanto cosiiiiiiiì», gorgheggiavo, stirando le braccia più che potevo.
Rideva, una risata soddisfatta, perché sapeva che ero arrivato al limite per lei. Era sempre un po’ più felice, dopo. Un po’ più tranquilla. E io anche.
Ricordo ancora la prima volta che Chika mi ha detto: «Ti voglio bene». Ci è voluto un po’. Le faceva piacere se glielo dicevamo la signorina Janine o io, ma non pareva aver fretta di ricambiare.
Una sera, era con noi da forse quattro mesi, ero in aeroporto e chiamai casa. Chika era su di giri. Le piaceva avere Janine tutta per sé. Stavano facendo un gioco.
«Okay», dissi alla fine, «fai la brava bambina.»
«Lo farò.»
«Ti voglio bene.»
«Ti voglio bene anch’io!»
Battei le palpebre e sentii un impeto di gioia. Avrei voluto urlare a Janine: Hai sentito? L’ha detto davvero?
Ma Chika mise giù il telefono per la fretta di tornare a giocare, e io rimasi a fissare il cellulare che avevo in mano. Era stato meraviglioso lo stesso.