Lezione quattro
LA TENACIA DEI BAMBINI
CHAD Carr se ne andò.
L’angioletto biondo in braccio al padre sul campo da football dell’università del Michigan morì esattamente quattordici mesi dopo la diagnosi di DIPG. Quando sentii la notizia rabbrividii. Janine si mise a piangere.
Poiché suo nonno era un allenatore famoso, la morte di Chad fu ripresa dai notiziari di tutto il Paese e accese un raro riflettore su quella malattia terribile. Alla gente fu ricordato che nel 1962 Neil Armstrong, prima ancora di mettere per primo un piede sulla Luna, aveva perso la figlia di due anni per la stessa malattia. Era cambiato poco da allora. Il DIPG continuava a essere un furioso predatore che prendeva di mira i bambini, derubando le famiglie del loro presente e del loro futuro.
La famiglia Carr istituì una fondazione in memoria del figlio. La chiamarono Chad Tough. E anche se non sei qui perché io possa leggerti queste parole, Chika, voglio dire quello che ho imparato su quella parola, tough, tenace, perché i bambini, specialmente i bambini malati, hanno una tenacia che è peculiare delle loro giovani anime, capace di consolare persino gli adulti agitati che li circondano.
È una cosa che mi hai insegnato. La quarta del mio elenco.
Ti faccio un esempio. C’è stata quella notte allo Sloan Kettering, in occasione del secondo trattamento CED, quando ti stavano somministrando di nuovo l’anticorpo con lo iodio radioattivo. Il farmaco era contenuto in una grossa scatola e passava in un lungo tubo per finire nel catetere inserito nella tua testa.
Erano circa le tre del mattino. Io dormivo sulla poltrona dall’altra parte della mezza parete rivestita di piombo. Non so perché, aprii gli occhi e nell’oscurità ti vidi in piedi davanti a me, la testa inclinata, una scena da film dell’orrore. Il catetere ti spuntava dal cranio e il tubo era teso come il filo di un funambolo.
«Chika!» urlai.
«Voglio andare al negozio di giocattoli», dicesti con voce stridula.
Ti riportai di corsa a letto, pregando che non avessi strappato via il catetere. Gridai per chiamare le infermiere, che arrivarono di corsa, sbalordite. Aspettammo ansiosamente per un’ora che arrivasse il dottor Souwedaine. Anche lui era sconcertato. Non gli era mai successo che un paziente si alzasse dal letto durante la procedura, figuriamoci camminare per la stanza.
Grazie al cielo, non era accaduto niente, e ci sentimmo tutti enormemente sollevati. Il mattino dopo, te ne ricordavi appena.
La tenacia dei bambini. Sono stato in tanti ospedali pediatrici e ogni visita testimonia la parola «resilienza»: bambini che fanno giochi da tavolo durante le flebo di chemio o che si tirano dietro le aste portaflebo mentre si affrettano lungo i corridoi diretti alle aule di arte.
Tu avevi quella resilienza, Chika. Negli ospedali. All’orfanotrofio. A dire la verità, l’avevi avuta fin dai primissimi giorni di vita, quando avevi dormito nei campi con tua madre e le tue sorelle. Persino alla missione, quando quasi tutti i bambini avevano contratto una dolorosa malattia virale trasmessa dalle zanzare chiamata chikungunya, tu te ne stavi sdraiata nel gazebo con un asciugamano bagnato sulla testa, sopportando i sintomi.
Il giorno in cui hai vomitato in piscina mi precipitai a casa e ti trovai in braccio a Janine. Eri avvolta in un asciugamano, avevi gli occhi chiusi e sapevi di cloro. Ma non ti lamentavi. La cosa che ti turbava di più era non poter continuare a nuotare.
Prendemmo di corsa un appuntamento al Mott, dove avevi subito il primo intervento. C’era un piccolo team che seguiva il tuo caso, in particolare due medici: una neuro-oncologa pediatrica, Patricia Robertson (tu la chiamavi «dottoressa Pat») e un ricercatore eccezionale, Carl Koschmann («dottor Carl»), che con una T-shirt al posto del camice bianco non avrebbe sfigurato in prima fila a un concerto rock.
Erano una coppia interessante, divisi da almeno trent’anni di esperienza. Tu camminavi per loro, parlavi per loro, ti facevi controllare i riflessi e gli occhi da loro. Ti eri così abituata che non facevi che sbadigliare tutto il tempo. Ma loro ti stavano misurando usando un proprio grafico della crescita, Chika, diverso dalla trave con i segni a matita della nostra cucina.
Poco dopo l’incidente in piscina, a undici mesi dalla prima risonanza magnetica ad Haiti, ci diedero la notizia che speravamo di non dover mai sentire.
L’Invasore si era risvegliato.
Le ultime risonanze mostravano che il tumore stava crescendo. I piccoli cambiamenti che avevamo notato – l’occhio sinistro meno reattivo, l’andatura esitante – erano legati a questo. Lo squilibrio e la pressione potevano aver provocato il vomito.
La dottoressa Pat consigliò di riprendere la terapia a base di farmaci. Noi obiettammo. I farmaci in questo caso significavano ancora soprattutto chemioterapia. E la chemioterapia non aveva mai guarito nessuno dal DIPG. Chiamammo tutti quelli che conoscevamo, in cerca di alternative. Ma il tempo passava e tu stavi peggiorando.
E così, per quanto non ci piacesse, ti introducemmo nel mondo delle medicine, perché dovevamo continuare a lottare, a cercare di afferrare la liana successiva. La signorina Janine leggeva voracemente materiale sui disturbi del cervello e parlò con esperti di cura del cancro, così oltre alle medicine prescritte dai dottori, aggiungeva vitamine e integratori e probiotici per mantenerti forte. Ti dava un «frappè» gigantesco tutti i giorni – al gusto di cioccolato, vaniglia o fragola – che all’inizio ti piaceva e ben presto bisognò costringerti a ingurgitare.
Per fortuna non avevi problemi a inghiottire pillole. Spesso lo trasformavi in un gioco. Una volta, sui sedili posteriori di un’auto, ho messo una pillola in un cucchiaio di mousse di mela e tu hai fatto la sbruffona: «Posso prenderne due». «Davvero?» E tu: «Guarda. Guarda!» Hai messo due pillole nel cucchiaio, te lo sei infilato in bocca e poi mi hai mostrato la lingua.
«Calma!» ho detto.
«Calma…» mi hai fatto il verso, tutta allegra «e gesso!»
Non hai mai chiesto a cosa servissero le pillole. Invece continuavi a cercare ragioni per ridere, anche nei momenti più improbabili. Quando la tua andatura peggiorò, certe volte inciampavi, ma ridevi e urlavi: «Ho battuto il sedere!» Quando, come conseguenza neurologica, iniziò a formicolarti il piede, tu lo battevi a terra e dicevi: «Il piede mi fa il solletico». Quando l’occhio e la bocca si deformarono, tu ti mettevi davanti allo specchio e facevi le boccacce, come a sfidare il tuo nuovo aspetto.
Era così difficile guardarti lottare, Chika, e sapere cosa dire diventò altrettanto arduo. Un giorno ti vidi camminare barcollando verso uno scaffale di giocattoli. Prendesti una bambola e cadesti all’indietro. A quel punto, quasi avessi deciso che camminare non valeva la pena, hai iniziato a gattonare con la bambola stretta al petto, fino a un punto dietro l’isola della cucina dove ti sei messa a giocare, portando il mondo a livello del suolo.
In quel momento sono scoppiato a piangere, Chika, e mi sono girato per non farmi vedere da te. Quando giocavi sul pavimento, accettando le nuove regole, la tua resistenza superava di gran lunga la mia e ci consolava, anche se noi stavamo cercando di consolare te.