Io

IMMAGINO dovrei spiegarti, Chika, cosa ci facevo ad Haiti quando sei arrivata da noi, e come sono finito a essere responsabile di un orfanotrofio a duemilasettecento chilometri da casa.

È cominciato per caso, come molte cose belle.

Qualche giorno dopo il terremoto, un pastore locale di nome John Hearn venne a una trasmissione radio che conducevo a Detroit. Era preoccupato che la missione di Port-au-Prince cui era collegato fosse stata distrutta, e che i bambini fossero morti. Non riusciva a telefonare (pochi ci riuscivano in quel momento) e cercava aiuto.

La sua storia mi commosse profondamente. Non so bene perché. Facevo il giornalista, e avevo intervistato molte persone dopo disastri naturali. E anche se avevo spesso incoraggiato gli aiuti, di rado mi ero impegnato di persona.

Quella volta fu diverso. C’era qualcosa di terrificante nell’ignorare il destino dei bambini. Cercai di organizzare un viaggio per il pastore, ma allora non esistevano ancora voli di linea diretti ad Haiti. Alla fine riuscii a noleggiare un piccolo aereo e a trovare due piloti disponibili a pilotarlo. Il velivolo aveva posto per sei passeggeri, così Hearn portò con sé il padre, John, che aveva dato una mano ad avviare la missione, e una signora anziana di nome Florence «Mamma» Moffett, una silenziosa, adorabile missionaria che aveva vissuto e lavorato all’orfanotrofio per anni. Reclutai altri due colleghi che occuparono gli altri posti.

E, con l’aiuto del senatore americano Carl Levin, l’esercito statunitense, che controllava il traffico aereo su Haiti dopo il terremoto, ci garantì una finestra di dieci minuti per atterrare. Decollammo da Pontiac, in Michigan, con la neve.

Quasi cinque ore dopo atterravamo sulla pista rovente dell’aeroporto di Port-au-Prince, o di quello che ne era rimasto.

Quando i motori tacquero, lasciai il cappotto sul sedile e scesi dall’aereo. Il sole picchiava. L’aria era immobile. In lontananza c’erano montagne e poi ancora montagne («Terra di alte montagne» è il significato della parola aborigena Haiti). La cosa che colpiva di più era il silenzio. Un silenzio sinistro, come se il Paese, tramortito, fosse paralizzato in una scossa di assestamento. Osservai la facciata color sabbia del terminal. C’era scritto AEROPORT INTERNATIONAL TOUSSAINT LOUVERTURE, dal nome del leader della rivoluzione haitiana di oltre due secoli prima.

Il terremoto aveva aperto una grossa crepa sopra la parola TOUSSAINT.

Scaricammo l’aereo senza funzionari né sicurezza. L’unico segno del fatto che l’aeroporto fosse in funzione lo trovammo in un corridoio del terminal, dove sotto un foglio bianco attaccato al muro con il nastro adesivo c’era un tavolino pieghevole dietro cui erano sedute diverse donne. Il cartello diceva: ALT!!! IMMIGRAZIONE DI HAITI.

Lo superammo in un minuto.

Il tragitto per l’orfanotrofio, su un traballante pulmino azzurro a cui mancava il pannello della portiera, durò solo venti minuti, ma mi sarebbe rimasto impresso per sempre: strade e strade di quelli che un tempo erano stati edifici e adesso erano rasi al suolo, cumuli di macerie grigie che sembravano passate in un frullatore. Tra le montagne di detriti spuntavano qua e là la gamba di un tavolo o un materasso. Sotto le macerie erano abbandonate auto accartocciate. Le persone vagavano per le strade come zombie. Venditori di strada con l’espressione cupa erano accucciati accanto a mucchi di vestiti e le donne offrivano frutta e verdura marce. I bambini facevano la fila per attingere acqua dalle pozzanghere della strada.

Sembrava che fossero tutti all’esterno. Non vidi nessuno dietro una finestra o uscire da una porta. In seguito avrei saputo che molti haitiani si erano rifiutati di entrare negli edifici per mesi, per paura che i resti delle strutture crollassero loro addosso. L’aria soffocante puzzava di diesel e spazzatura in fiamme, e prima ancora di arrivare a destinazione mi bruciavano gli occhi.

Per fortuna l’orfanotrofio era stato risparmiato. Ma era pieno di estranei che si mescolavano ai bambini in tende improvvisate. Ad Haiti dopo le catastrofi naturali spesso le persone si riversano negli orfanotrofi e negli ospedali, nella convinzione che siano i primi posti in cui le organizzazioni umanitarie porteranno cibo. Ma non vidi aiuti di sorta né alimentari, a parte riso e fagioli cucinati con il carbone da donne che pensai fossero dipendenti dell’orfanotrofio.

Era impossibile capire chi fossero i residenti e chi invece era arrivato da fuori. Nel cortile si incrociavano fili per stendere la biancheria e sul terreno erano sparsi vecchi materassi di gommapiuma. C’erano molte persone dall’aria sfinita appoggiate ai muri, che strizzavano gli occhi alla luce del sole. Chiedevano cibo. Quando aprimmo gli scatoloni che avevamo stipato sull’aereo – bottiglie d’acqua, salviette disinfettanti, flaconi di aspirina, lattine di Coca-Cola – fummo assaliti.

A un certo punto quello che vedevo mi fece girare la testa. C’era un caldo soffocante, avevo la camicia zuppa di sudore e come uno sciocco portavo dei jeans neri, che trattenevano il calore. Buttai fuori il fiato.

Avevo le braccia lungo i fianchi, e d’un tratto sentii due manine insinuarsi tra le mie. Abbassai lo sguardo e vidi un bambino e una bambina, uno per parte. Non so dirti chi fossero, Chika, e neanche se appartenessero all’orfanotrofio. Ma mi sorrisero e mi fecero strada, e ora capisco che mi stavano portando nel loro mondo e, col tempo, nel tuo.

Ma va bene. Non ti ho spiegato in che modo un viaggio si trasformò in un impegno. Quando tornai a Detroit scrissi di quello che avevo visto e chiesi aiuto. Organizzammo velocemente una squadra di volontari: riparatori di tetti, idraulici, elettricisti, impresari. In tutto erano ventitré e si battezzarono The Detroit Muscle Crew, i forzuti di Detroit. Caricammo rifornimenti, attrezzature e piccoli macchinari su aerei donati da Roger Penske, ex pilota di auto da corsa diventato uomo d’affari di successo, e Art Van Elslander, proprietario della catena di mobilifici Art Van, e tornammo a Port-au-Prince.

Poi ci andammo ancora.

E ancora.

E ancora.

In nove viaggi, aiutati da operai di Haiti, costruimmo bagni, una cucina, una sala da pranzo e una zona lavanderia. Posammo piastrelle. Montammo letti a castello. Dipingemmo le pareti sporche in vivaci colori pastello. Alla fine costruimmo una scuola con tre aule.

Costruimmo anche le prime docce, in qualche modo, con tubature bianche in PVC che arrivavano da un serbatoio sul tetto. Fino a quel momento i bambini si erano lavati con l’acqua saponata presa da un grande secchio rosso.

Quando fu il momento di provare le docce, i bambini più piccoli ci si ammassarono dentro. Con addosso i pantaloncini o la biancheria, fissavano curiosi le manopole e il rubinetto. Contammo «uno, due, tre» poi aprimmo l’acqua, che scese dall’alto mentre loro strillavano deliziati, come se fossero sotto il primo temporale del Signore. Si spruzzarono, risero, cantarono e fecero un balletto. La loro felicità per una cosa che io avevo fatto mezzo addormentato ogni mattina della mia vita mi diede un tuffo al cuore. Lo avvertii fisicamente, una specie di epifania forse, perché questa parola descrive la manifestazione del divino, e la sensazione era quella, e continuò a essere quella nei giorni seguenti. Ero esausto, eppure ispirato in modo quasi soprannaturale. Mi ritrovai a ridere più spensieratamente che negli Stati Uniti e a dormire meglio. Ogni giorno mi sentivo meno oppresso, nonostante un carico di lavoro che cominciava all’alba e finiva nell’oscurità infestata di zanzare.

«Credo che potremmo fare la differenza qui», dissi alla signorina Janine.

«E allora dovremmo andare avanti», rispose.

E così andammo avanti. Venivo tutti i mesi. In America la mia vita quotidiana era soprattutto una questione mentale: scrivere storie, prendere decisioni, organizzare l’agenda, destreggiarmi tra le telefonate. Ad Haiti c’erano cose da fare, e quello che facevamo permetteva ai bambini di mangiare, dormire, avere un tetto sulla testa; cose talmente primarie che non c’era neanche da discutere della loro importanza. A ogni visita il mio legame con i bambini si rafforzava. Imparai a conoscerne il nome e la personalità. Mi accoglievano saltandomi in braccio. Erano stati degli adulti a portarmi ad Haiti, Chika, ma sono stati i bambini a farmi tornare.

A Detroit vidi di nuovo John Hearn Sr, che aveva ottantacinque anni. Mi raccontò la sua storia alla missione. Con il passare del tempo, mi disse, il carico era aumentato. Mi ringraziò per tutte le migliorie materiali che la nostra «squadra di forzuti» stava apportando. Ma ammise di non avere i soldi per far funzionare un orfanotrofio, e che era così da un po’ di tempo. Lui stesso riusciva ad andarci solo di tanto in tanto.

Fu in quel momento che, spinto da un impulso che ancora oggi non riesco a spiegarmi, gli parlai di altre organizzazioni di beneficenza che avevo creato a Detroit e dissi d’un fiato: «Se vuole, potrei assumermi la direzione dell’orfanotrofio. Posso trovare il denaro. E le persone. Credo».

Lui unì le mani e fece un gran sorriso.

Firmammo i documenti.

E io andavo lì ogni…

Chika
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